22 gennaio 2014
Ogni nuovo anno il tema dell’immagine coordinata nell’ambito dell’arredo urbano torna a proporsi con rigorosa puntualità. Parto da lontano, ma non troppo: basta pensare che solo trenta anni fa parcheggiavo quasi ogni mattina la mia prima automobile di fortuna in Piazza San Fedele arrivando direttamente da Corso Vittorio Emanuele. Fu la prima rivoluzione – non ancora verde ma grigia – che portava alla pedonalizzazione di Corso Vittorio Emanuele, e successivamente anche di Piazza San Fedele.
Oggi l’area pedonale attraverso Via Dante, unica grande vetrina con prospettiva urbana di grande respiro scenografico in città, si è allungata fino al Castello Sforzesco. Qui, l’installazione dedicata ai paesi che hanno già aderito a Expo2015 a cura di Italo Lupi – gran maestro del graphic design milanese, elegante, sobrio e efficace che proprio in questi giorni ha presentato la sua autobiografia grafica in Triennale – fa capire immediatamente di che cosa si parla quando si affronta il tema dell’arredo urbano, non solo dal punto di vista funzionale-tecnico ma anche dal lato del disegno urbano complessivo.
Terminati gli anni in cui si poteva ancora ragionare per addizione, anche per via di una diversa disponibilità economica, oggi torna in auge il “ragionamento” inteso come pensiero progettuale orientato da un lato alla detrazione e dall’altro alla ottimizzazione. La domanda è semplice: di che cosa ha bisogno oggi Milano? Con l’Expo alle porte viene naturale pensare che il flusso dei turisti necessita chiarezza e comfort nei propri movimenti. Ben venga, allora, vedere di nuovo questa tematica sull’agenda dell’Amministrazione Comunale.
Ma per fare che cosa? Ancora una volta un grande Piano con manualistica allegata? Basta consultare il sito del Comune di Milano per rendersi conto di quello che c’è. Quasi sempre di più di quanto possa servire, e di quanto la stessa amministrazione nell’esercizio quotidiano possa veramente utilizzare.
Chi non ricorda l’esito del bel concorso del 2005 “Una panchina per Milano”? Promosso da Urban Land Institute (ULI) con il patrocinio del Comune di Milano (oltre che dell’ADI – Associazione Designer Italiani, di Assolombarda, della Camera di Commercio di Milano, del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, della Provincia di Milano e della Regione Lombardia) e presentato con tanto di mostra in Triennale, il concorso ha coinvolto il voto di oltre 70.000 cittadini. Ciò nonostante la panchina vincitrice – design di Alberto Meda – è poi finita solo nel catalogo di un produttore e nel giardino pubblico della Fondazione Riccardo Catella, ma non ha avuto migliore fortuna poiché la stessa Amministrazione non l’ha mai adottata nel proprio abaco dell’arredo urbano, ufficialmente per motivi di praticità.
“Tutto cambia affinché nulla cambi”. Peccato che, nel frattempo, è dall’esterno che tutto cambia: le nostre abitudini nell’usare lo spazio pubblico, la nostra disponibilità a usare questo stesso spazio anche nelle pause quotidiane, il nostro complessivo invecchiamento dovuto al trend demografico, la nostra esigenza di comfort ambientale, aria pulita e più ombra rinfrescante dovuta al cambiamento climatico che anche a Milano è sempre più tangibile con eventi di piovosità straordinaria e picchi di caldo insopportabile.
Finiti i tempi in cui a Milano non era ben visto il riposo o la sosta su una panchina, e finito anche il tempo della corsa a tutti i costi! La virtù della lentezza comincia a entrare anche nel DNA milanese. Sarà per l’Area C, sarà per la disoccupazione, ma sarà anche perché qualcuno si ricorda che “chi va piano va sano e lontano”. Non a caso, le aziende più avanzate puntano a offrire maggiore tempo qualitativo per le pause lavorative. Inutile citare l’esempio della Volkswagen, che ai propri manager dopo un certo orario non fa più arrivare mail, per non indurli neanche in tentazione.
Ma torniamo a noi: se da un lato non vedo bene un grande Piano di Arredo Urbano, viceversa per il tema in generale occorre un ragionamento serio. Milano deve e ha il diritto di concordare sugli elementi fondanti del proprio arredo, in rappresentanza della propria immagine.
E qui, come in tutte le città europee consolidate, si parte dal passato. Partendo chiaramente dalla piattaforma orizzontale, ossia il pavimento. Quanta beola, quanto porfido, quanto granito, insieme alla tanto odiata e amata rizzada? Dove e con quale criterio utilizzarli? Ci sono molti esempi che già funzionano: Corso Garibaldi, Via Paolo Sarpi, perché funzionano? Perché alla base di tutto ciò c’è una progettualità appropriata, a misura. Nelle città europee, dove ormai lavoro sempre più di frequente, c’è una pratica consolidata: poche regole comuni rigorosamente applicate, e molto spazio alla progettualità complessiva delle aree aperte, che include sempre anche l’arredo.
Poi, il verde, inteso come autentico patrimonio vegetale: vale la stessa regola. Un’immagine coordinata non può dividersi per settori, ed è inutile insistere nel sostituire con veemenza alberi morti o caduti qualora – per collocazione o per specie – non sono più conformi alle nuove esigenze della città, siano esse dettate dai flussi urbani o dai dati climatici ormai mutati.
Infine, tutto quello che appartiene agli arredi, come panche, dissuasori della sosta, cestini per rifiuti, pali per l’illuminazione, portabici, dehors ecc. L’abaco del Comune offre un’ampia scelta con buona discrezionalità, ora basta tornare alla consapevolezza delle nostre azioni sia come progettisti che come committenti e come Amministrazione Pubblica. Il concerto a tre di questi attori non deve mai dimenticare il suo pubblico, il vero fruitore delle nostre opere e l’unico soggetto a poterle valutare. Chi oggi passeggia in Via Paolo Sarpi. o chi oggi prosegue oltre corso Como attraverso piazza Gae Aulenti arrivando nel quartiere Isola sa di cosa scrivo.
Potrei proseguire a citare altri esempi, ma in fondo – da parte di chi pianifica, di chi progetta, di chi investe e di chi governa – ci vuole quel giusto coraggio che sta nel consapevole e pieno esercizio delle proprie funzioni.
Andreas Kipar
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