14 settembre 2019

LA CITTÀ DI MAZINGA E LA CITTÀ DEI PUFFI

“Street art” orizzontale?


Una Milano a pois / è una grande novità! / Poverina, lei non sa / d’esser piena di pois / una Milano a pois / beh, che c’è!? / A pois, a pois, a pois!”Strano che Maurizio Crozza non ne abbia ancora fatto uno degli esilaranti intermezzi di Fratelli di Crozza, con tanto di coro, balletto e immagini sulla traccia della Zebra a pois1 mai uscita dalle orecchie di chi l’abbia sentita almeno una volta dalla voce incantevole di Mina. Supplisco per come posso con alcune immagini che traggo dal blog Urbanfile.

Milano, piazza Angilberto II, prima e dopo l’intervento di “urbanistica tattica”

Milano, piazza Angilberto II, prima e dopo l’intervento di “urbanistica tattica”

Milano, piazza Dergano prima e dopo l’intervento di “urbanistica tattica”

Milano, piazza Dergano prima e dopo l’intervento di “urbanistica tattica”

Negli anni novanta del secolo scorso agli studenti di Architettura, di cui per esperienza personale pensavo di conoscere i modelli propinati nell’infanzia dall’industria del giocattolo, mi capitava di dire che nel disegno urbano andavano evitati due pericoli: Mazinga e i Puffi. A volte le profezie si nascondono nelle boutades. Sta di fatto che, a venti-trent’anni di distanza, Milano (e non solo) è venuta conformandosi proprio su quei due archetipi: nell’urbanistica degli interessi e dei poteri forti (Porta Nuova, CityLife ecc.) ha stravinto il modello Mazinga; nell’urbanistica della captatio benevolentiae coi fichi secchi (le casse del Comune in sofferenza) sta venendo avanti il modello Puffi, di cui la Milano a pois è la versione aggiornata.

Questo passa il convento tra i peana dei media; che, come mai prima d’ora, si sentono investiti di una missione: (ri)costruire mentalità, senso e gusto comuni. Chi osa richiamare la tradizione milanese di un’urbanistica dalla misura dialogica e di un’architettura insieme affabile e discreta è vox clamantis in deserto, dove il deserto è l’assenza di memoria e di cultura.

Tutto si tiene: l’urbanistica è parte integrante della politica, sicché le trasformazioni dell’habitat alla fine restituiscono l’idea di convivenza civile di cui la politica è portatrice. Ho già scritto, su Arcipelago e altrove, di come il modello Mazinga porti speditamente alla non città. Dirò ora poche cose su dove rischia di portarci il modello Puffi o, se si vuole, l’interpretazione meneghina dell’urbanistica tattica (tactical urbanism).

Più che mai, in urbanistica come in politica, non vale il motto «il fine giustifica i mezzi»: tattica e strategia vanno di conserva e si illuminano a vicenda. Per tattica non intendo altro che la concertazione (spesso travagliata) e i passaggi intermedi attraverso cui passa l’attuazione di un progetto. E chi ha la responsabilità della cosa pubblica ha il dovere di mettere in chiaro sia la configurazione finale sia i passaggi intermedi (comprese le difficoltà dell’attuazione). È su questo che può essere chiesta la partecipazione (con il contributo attivo) e sondato il consenso dei cittadini. Non ci sono scorciatoie.

Ridefinire modi d’uso e configurazione dello spazio aperto pubblico in direzione del potenziamento della socialità e della bellezza civile è un fine quanto mai apprezzabile. Ma non si dà avanzamento della qualità urbana se contemporaneamente non progredisce la cultura della città. È l’avanzamento di questa cultura, compresa quella di cui ogni cittadino è portatore, che dovrebbe stare a cuore ai “politici” non meno che il “fare”. Qualche amministratore ha invece intravisto un’alternativa nell’incontro di una concezione paternalistica (ghe pènsi mì) con forme di partecipazione pilotate dall’alto; il tutto aggiornato al tempo dei social e della contaminazione fra reale e virtuale. Quell’incontro non contempla però alcun avanzamento e porta anzi alla regressione che va sotto il segno delle piazze a pois.

Giancarlo Consonni

 

1 Testo di Lelio Luttazzi, Dino Verde, Marcello Ciorciolini, musica di Lelio Luttazzi, 1960.



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  1. walter moniciLa promessa del comune di riqualificare le periferie è la minaccia che incombe su milano. La furia iconoclasta degli architetti colpisce in modo distruttivo. La parola d'ordine è fare cose strane, provocatorie, senza collegamenti visivi e formale con la storia e il passato, divertire il popolino e solleticarne i gusti più deteriori. Trasformare la città in un grande luna park di stranezze e meraviglie. Intento toglire parcheggi ai residenti, mettere tavoli e panchine per favorire le movide locali, recintare il verde come alla maggiolina il verde o fare verde lastricato come nel parchetto di via bramante. Sono sconvolto e preoccupato e mi sento impotente e minacciato. Milano non esiste più.
    18 settembre 2019 • 09:20Rispondi
  2. Sergio BrennaCome ho già commentato in alcuni post su Facebook, mi rammenta tanto la discrepanza della propaganda nazista sulle trasformazioni urbane tra i megaprogetti alla Speer e l'esaltazione idilliaca della casetta nel verde locale come prosecuzione delle prische virtù etico-etniche della stirpe germanica (vedi immagine a p. 703 di L. Benevolo, Storia dell'architettura moderna)
    18 settembre 2019 • 12:58Rispondi
  3. Sergio BrennaSolo che da noi oggi manca la potenza poetico-satirica di un Brecht sulle contraddittorie ambizioni del nuovo "imbianchino" comunale...
    18 settembre 2019 • 13:02Rispondi
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