8 marzo 2019

L’ARCHITETTURA? SI DECIDE IN COMMISSIONE

Ornato, Edilizia, Paesaggio: da due secoli l’estetica è “tecnica”


Ripensando ai 18 anni della dominazione francese a Milano (dal 1796 al 1814), Stendhal scriveva in Roma, Napoli, Firenze, agli esordi della restaurazione austriaca, cha la città aveva progressivamente maturato “sotto Napoleone, un certo tipo di architettura, adatta alle case private, riconoscibile e piena di grazia”. E’ una notazione interessante dove, di là dalle ben note inclinazioni politiche dello scrittore, si toglievano il senso e i risultati più durevoli di una volontà ordinatrice che aveva effettivamente inciso sul volto della città. La “grazia” dell’architettura, associata non alle più cospicue realizzazioni monumentali o agli edifici più rappresentativi delle èlites, bensì associata alle maisons particulières, cioè all’edilizia e ai bisogni diffusi, significava infatti aver esteso il parametro della qualità alla città intera, intervenendo positivamente fin dentro il suo tessuto connettivo.

Vi è del resto a Milano una Commissione di Ornato che si occupa della bellezza delle case, e ha inventato una certa proporzione, piena di poesia, tra i pieni e i vuoti delle facciate delle case”, scriveva ancora Stendhal, assegnando quindi a quest’organismo il merito di aver innescato quei processi complessivi di miglioramento che avevano contribuito a fare di Milano, agli occhi dello scrittore, una delle più agrèables città europee.

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Il giudizio estremamente positivo di Stendhal sulla Commissione di Ornato è stato spesso riecheggiato dalle ricognizioni storiografiche e dalle interpretazioni critiche successive e basterebbe a questo proposito citare il famoso articolo di Giovanni Muzio, L’architettura a Milano attorno all’Ottocento, apparso nel 1921 sulla rivista “Emporium”, che, per l’appunto, ne apprezzava l’impegno materializzatosi in risultati individualmente non vistosi, ma proprio per questo dotati del maggior pregio che attiene alla dimensione collettiva.

Parlando della dignità ambientale delle strade della Milano della prima metà dell’Ottocento, egli ne lodava l’impronta nobile, a volte severa, ma comunque composta e signorile, effetto delle regole del buon comporre che la Commissione di Ornato aveva imposto, ma anche e soprattutto del suo contributo al formarsi di uno “spirito civico”. Sono pregi certamente rilevanti che oggi non sembrano avere perso d’importanza e significato, consideriamo la natura di quella Commissione Ornato. La sua nascita innanzi tutto: essa venne istituita mediante decreto reale il 9 gennaio 1807, con il compito da un lato di controllare l’attività edilizia per quanto riguardava sia le nuove costruzioni, sia le alterazioni di quelle già esistenti e dall’altro di iniziare le linee di sviluppo delle città mediante la proposizione di miglioramenti inerenti alle architetture pubbliche e monumentali e soprattutto l’assetto della maglia varia.

Tredici articoli sancivano queste prerogative fissando altresì la sua composizione: il Podestà con la carica di presidente e 5 membri “tratti – si legge nell’articolo 2 – dall’Accademia di Belle Arti e dai professori o cittadini intelligenti di architettura e arti analoghe”. La disposizione rivela come fosse considerato prioritario il livello estetico e colto del giudizio, affidandone la responsabilità all’allora più prestigiosa istituzione educativa per la formazione di artisti e architetti, vale a dire l’Accademia di Brera, garantendo un saldo legame tra dibattito teorico, indirizzi stilistici e decisioni operative.

Il coinvolgimento ufficiale dell’Accademia nelle vicende architettoniche, così come la Commissione di Ornato, costituivano del resto non fenomeni nuovi, quanto piuttosto l’evoluzione di tendenze concretamente espresse durante il governo di Maria Teresa d’Austria quando, negli anni settanta, era stato assegnato al professore di Architettura dell’Accademia e precisamente al Piermarini, nella sua carica di Imperial Regio Architetto e Ispettore Generale delle Fabbriche di Stato, il compito di valutare tutte le nuove costruzioni, sia pubbliche sia private.

Nel suo giudizio già avevano assunto importanza le caratteristiche estetiche degli edifici in affaccio sulle pubbliche vie, si era manifestata l’esigenza di introdurvi criteri di allineamento e di stabilire principi di coerenza tra le singole parti e si era delineata la progressiva definizione di un nuovo concetto di spazio pubblico. L’accento era quindi posto sul ruolo primario della strada e sull’importanza della sua “armonia” ambientale cui l’architettura era in un certo senso subordinata, o meglio cui l’architettura doveva rapportarsi entrando quindi in un’orbita più ampia rispetto alla sua semplice individualità e acquisendo, in ultima analisi, una dimensione proiettata verso il sociale.

Tutti questi orientamenti sottostanno anche alla Commissione di Ornato napoleonica, intrecciandosi con più evidenti retaggi della cultura illuminista, certamente dovuti all’influsso francese, tra cui la fiducia negli effetti utili e educativi dell’arte e la passione per i sistemi articolati e analitici di conoscenze che potevano trasmigrare anche alla città e alle sue molteplici componenti. Gli interventi che all’epoca del Piermarini erano rientrati per lo più in un’ottica episodica, adeguata a un’idea di città costruita per punti emergenti e ancora sostanzialmente legata a una gestione aristocratica, diventano infatti nei primi anni dell’Ottocento un’attività sistematica e di portata complessiva in necessaria sinfonia con lo sviluppo socio-economico e con la struttura funzionale di una città dove non solo l’oligarchia, ma anche la più vasta compagine dei ceti borghesi partecipava al mercato fondiario.

A fronte dell’aumento dell’attività costruttiva, a fronte di interventi che andavano intensificandosi anche in concomitanza con il nuovo ruolo di Milano capitale del regno, si sente quindi l’esigenza di controllare sistematicamente la produzione edilizia per tutelarne il valore collettivo sottraendo anche l’architettura “minore”, in altre parole le case private citate da Stendhal, all’arbitrio non giustificato dell’arte. E bisogna sottolineare come il termine ornato non si esaurisca solo nel dominio del progetto, ma presupponga anche quanto attiene al miglioramento funzionale della città, all’insieme delle risposte e ai bisogni considerati preminenti.

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Ci si occupa quindi di grandi interventi (e posso qui solo ricordare che la Commissione di Ornato fu responsabile nel 1807 della redazione del famoso Piano dei rettifili) ma anche della gestione e della misura della città più minuta, come testimoniano i fitti e meticolosi incartamenti che riguardano gli sporti delle tende e le insegne dei negozi, le cornici delle aperture, i colori, i materiali di rivestimento. L’articolo 7 che prescrive la necessità di presentare il disegno delle opere fa inoltre si che una ricca sequenza di campioni affluisca regolarmente agli uffici, mentre gli “agenti dell’ornato” perlustrano la città raccogliendo una serie di informazioni tecniche che vanno ad affiancare gli elaborati grafici e danno corpo a una sorta di atlante della città moderna, che oggi costituisce uno strumento fondamentale per la sua conoscenza storica.

Non sfuggirà come per ottemperare a tutti questi compiti fosse necessario un forte concetto artistico, fosse necessario appoggiarsi a quello che oggi può apparire una sorta di invidiabile, quanto forse presuntuoso e autoritario, sistema di certezze basato sull’omogeneità della concezione e del metodo al fine di comprendere entro un programma unificante la pluralità delle domande e delle aspettative. E’ del resto questa la stagione artistica di portata europea che ruota attorno al neoclassico, a un’espressione stilistica accreditata cioè dal ricorso all’antico, dalle regole della composizione basata sugli ordini, sulla simmetria, su canoni assodati di proporzionamento, in altre parole su un codice linguistico cui è quasi connaturato il carattere normativo anche con riferimento ad una materia comunque delicata e sfuggente come quella della bellezza e dell’opzione di gusto.

Giocondo Albertolli, Luigi Cagnola, Luigi Canonica, Paolo Mandriani, Giuseppe Zanoja, i cinque membri cioè che compongono la prima Commissione di Ornato, sono ovviamente tra i più noti e valenti esponenti del neoclassicismo lombardo e, nel loro ruolo di professori accademici, hanno certamente sviluppato la propensione a organizzare la disciplina secondo regole e principi adatti alla trasmissione e quindi all’apprendimento da parte di un’intera generazione di architetti per cui esiste quella che non appare esagerato definire una vera e propria koinè espressiva. In nome dell’autonomia consolidata del linguaggio e della sua praticabilità.

La coesione d’intenti e l’appartenere dei commissari a un’area culturale omogenea sembra cioè conferire alla loro opera non solo una “docilità” un po’ burocratica nei confronti del mandato espresso dall’intera città in quel momento particolare del suo sviluppo. Vorrei solo ricordare al proposito un commento assai lucido dell’architetto Luigi Tatti che nel 1814 si riferiva al neoclassico come stile dotato di una naturale tendenza organizzatrice la cui qualità risiedeva più nel collettivo che nell’individuale, capace se non di risultati eclatanti, per lo meno, e qui cito, di una “generale lindura, grazie all’azione censoria della commissione di ornato anche nei minori fabbricati”. L’accenno alla censura, all’imposizione di regole ci porta però a un’altra, necessariamente breve considerazione: negli anni ’40 dell’800 iniziava infatti a scalfirsi l’egemonia del giudizio dell’Ornato quando, non a caso, entravano in discussione l’egemonia culturale del neoclassico come linguaggio univoco e la stessa autorità dell’Accademia nei confronti dell’educazione al progetto.

I diversi stili della storia che erano approdati sul tavolo da disegno dell’architetto eclettico stavano infatti introducendo il concetto, del tutto anticlassico, della relatività del bello e stavano costruendo un sostrato culturale sfuggente a un principio unico di autorità, mentre la stessa evoluzione socio-economico, il crescere dell’autonomia degli enti locali rispetto alla concentrazione del potere propria al dominio francese, il progressivo delinearsi di un’economia liberale, il moltiplicarsi dei soggetti attivi nella gestione della città, avevano di fatto eroso l’autorità ormai troppo elitaria della Commissione.

Le critiche apportate attorno alla metà del secolo scorso alla rigidità delle sue imposizioni vanno significativamente di pari passo con le critiche alla stessa istituzione accademica e ai suoi metodi di insegnamento, in coincidenza con l’avanzare di altri centri istituzionali per la formazione dei tecnici del progetto, tra cui ovviamente le scuole politecniche.

Il ruolo della Commissione di Ornato va inoltre ridimensionandosi in base ad una normativa municipale che diventa sempre più vincolante anche ai fini del giudizio estetico e non a caso essa verrà sciolta nel 1877, quando il primo regolamento edilizio, unito al regolamento di igiene faranno sì che le esigenze pratiche prevarichino sulla grande ambizione estetica e ideologica alla base della sua primaria impostazione. Da allora sarà la Commissione Edilizia a essere investita del compito della salvaguardia del decoro cittadino dovendo spesso (come testimoniano numerosi scritti dell’epoca) far quadrare faticosamente l’autonomia del giudizio con la puntualità di regolamenti che entrano anche nel dettaglio delle questioni estetiche fino a ridurne il ruolo, come lamentavano diversi professionisti alle soglie del Novecento, alla rigida applicazione della normativa.

Sarà su questo delicato equilibrio tra libertà dell’arte e fiscalità delle regole che si attiverà ai primi anni del Novecento un dibattito interessante i cui termini sono in fondo ancora attuali. Mi resta solo da segnalare a conclusione di questo intervento come, pur nella necessaria evoluzione subita nel corso del tempo, pur nella progressiva caduta di tensione ideale, la continua esistenza, dal 1807 a oggi, e il persistente operare della Commissione testimonino comunque dell’importanza del concetto di pubblico decoro come ineliminabile conquista di civiltà.

Ben poco è cambiato nel tempo, basta rifarsi ai concetti di allora e trasportarli ai giorni nostri affinché le Commissioni, sia prima Ornato, poi Edilizia e ora del Paesaggio, siano professionali, si rivedano in certi concetti accademici della bellezza, dell’estetica, del contesto ed evitino di diventare autorità aristocratiche anch’esse.

Carlo Lolla



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  1. Luigi CalabroneIn questi tempi si parla dell'architetto Piero Bottoni quasi come di un santo per il lavoro fatto al QT8. Eppure è responsabile per uno dei maggiori scempi architettonico di Milano: l'edificio costruito al n. 33 di Corso Sempione, orribile come costruzione e soprattutto incongruo nel tessuto urbano del Corso, in quanto assolutamente difforme per volume, altezza ed orientamento. C'è da credere, anche, che Bottoni sia riuscito (forse con l'aiuto dell'INA, allora potentissimo) a forzare gli uffici comunali, ottenendo il permesso di costruire un edificio di altezza doppi/tripla di quelli esistenti nel raggio di 2 chilometri. Una bruttura, che oggi sarebbe auspicabile demolire. Queste riflessioni mi sono state suggerite dal ricordo che in altra parte di Arcipelago Milano si fa della famosa Commissione di Ornato. Altri tempi, forse da rimpiangere!
    13 marzo 2019 • 11:33Rispondi
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