6 novembre 2013

SE “ARREDO” URBANO FOSSE UN NEOLOGISMO PER SOTTRAZIONE


Molti di noi avvertendo un certo disagio per lo stato di decomposizione dello spazio pubblico si chiedono cosa fare per migliorare la situazione attuale. È invalsa giustamente l’opinione che sinora non si sia fatto abbastanza, per cui sembra senz’altro necessario operare ‘di più’ per contrastare un degrado sempre più diffuso. Con il ‘di più’ immagino si voglia intendere sostanzialmente ‘nuovi interventi’.

06nicolini38FBQuindi partirei proprio da questo punto per cercare una risposta alle numerose istanze dei cittadini pur sapendo di trovarmi di fronte a una quantità pressoché illimitata di richieste: riguardo, giardini, pensiline, panchine, corsie preferenziali, linee tramviarie, piste ciclabili, dissuasori, marciapiedi, pavimentazioni, sistemi di raccolta rifiuti, aree pedonali, graffiti, segnaletiche stradali, insegne, cartelloni pubblicitari, illuminazione pubblica, aree per soste, parcheggi, ecc. Difficile scorgere il limite di questo elenco, e più la lista si amplia più le soluzioni sembrano allontanarsi. Essendo evidentemente il cumulo delle richieste impossibile da smaltire ci troviamo gettati in una situazione di impotenza destinata alla rassegnazione.

E se, invece di insistere con queste domande di intervento rese ambigue e poco credibili da uno scetticismo generalizzato, se, considerando il peso delle difficoltà e delle incertezze attuali, cambiassimo atteggiamento decidendo di fare una pausa di riflessione? Una pausa per mettere a punto il modo per prenderci cura degli spazi esistenti, di quel che al presente offre la città? A ben vedere per come siamo messi non si potrebbero neppure intraprendere iniziative di educazione civica privi come siamo di idee su come disporre al meglio le cose esistenti: eventualmente per eliminarne alcune, o per lo meno per eliminare il superfluo, e, con questo, forse molta parte delle cose di cui si parla a proposito di arredo urbano.

Se uno volesse percorrere la via del fare, o meglio, dell’avere ‘di meno’, nella direzione di una città ‘più intelligente’, considerando l’obbiettivo della riduzione quantitativa dei componenti d’arredo, in particolare delle ridondanze segnaletiche e delle barriere fisiche, dovrebbe avere il coraggio di cambiare radicalmente orientamento. Certo, in attesa degli ulteriori e necessari affinamenti, si potrebbe senza indugio iniziare a togliere un bel po’ di pali, fare quella depalificazione di cui si parla da anni, in previsione di più coraggiose iniziative di depaving … sfruttando anche l’opportunità di ottenere prati o giardini rimuovendo le superfici di asfalto, di cemento, ecc.

In ogni modo la pressante richiesta di un ‘di più’ deve anche fare i conti con il fastidio provato da molti per la dizione/nozione stessa di arredo urbano, perché quell’elenco di richieste è spesso enfatizzato da una falsa idea di decoro, da un ‘horror vacui‘ indotto nei cittadini dalla stessa nozione corrente di arredo urbano. E così i miei amici del Politecnico stanno avviando un Master in ‘Urban interior design’ per affrontare il tema in un modo finalmente adeguato guardandosi dal menzionare la parola arredo.

Per parte mia, sull’onda di certe affermazioni di Carlo Scarpa, cercherei di sdoganare, togliere dal ghetto delle parole impronunciabili – mi rivolgo beninteso alla comunità dei designers, architetti, persone colte, ecc. – nientemeno che quella parola “arredamento” destinata sinora a indicare l’idea di un falso ornamento, di qualcosa di inautentico, in cui cadrebbero le persone equivocando sui loro reali bisogni e, di fatto, producendo quel kitsch domestico da cui pochi riescono a sottrarsi.

Ma cosa succede quando con questo atteggiamento si affronta lo spazio pubblico? Da qui una certa repulsione ad adottare la famigerata parola “arredo” in quel senso inautentico. Carlo Scarpa, nel tentare una riflessione sulla parola “arredo”, “arredare” cita il vocabolario della Crusca che alla voce “arredo” dice soltanto: “provvedere del necessario”. Insoddisfatto, integra questa definizione laconica con l’aiuto di un dizionario etimologico il quale afferma: “arredare” deriva dal gotico “garedam” che vuol dire “avere cura” e dallo spagnolo “arrear” che significa “adornare”.

Insomma potremmo tornare a usare la dizione arredo, anche per la città, se con questa parola intendiamo quell’aver cura che considera le modalità dell’arredare come conseguenza di un principio di necessità, poiché nello stesso modo in cui si provvede alla cura, si provvede a dar forma, un fatto questo insito negli uomini fin dalle origini. Il contrario del degrado e dell’abbandono. Perciò “Cura” mette in evidenza la totalità unitaria di un insieme di strutture sia nel suo rapporto con le cose, sia con gli altri. Si potrebbe proseguire indicando come il termine Cura sta a indicare la compresenza di due riferimenti: uno all’angoscia, l’altro alla protezione. Insomma, evocando il termine cura vogliamo significare anche preoccupazione, l’atto del prendersi cura di una situazione preoccupante carica di inquietanti interrogativi. Non occorre altro che aver cura. Disporre meglio le cose. Eventualmente eliminarne alcune. Non fare per ora nuovi progetti d’arredo.

 

Pierluigi Nicolin

 



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