30 novembre 2016

sipario – «POESIA SULLE PUNTE»: A LEZIONE DI REPERTORIO CON VITTORIA VALERIO


Quando vidi Vittoria Valerio per la prima volta sul palco, ricordo che non attirò la mia attenzione e non mi piacque particolarmente. Mai prima impressione fu più sbagliata! Mi sono già scusato di persona con lei, e lo faccio anche pubblicamente, perché Vittoria di recita in recita, di ruolo in ruolo mi è apparsa sempre più come una danzatrice deliziosa, anzi una delle più tecniche ed emozionanti che finora abbia conosciuto. Di cuore palermitano, di formazione tedesca alla scuola del Bayerisches Staatsballett di Monaco, ora solista del Teatro alla Scala di Milano, Vittoria Valerio si racconta.

sipario39fbVittoria, io ti trovo una danzatrice di solida tecnica ed estremamente ‘romantica’, cioè adatta ai balletti del repertorio ottocentesco da cui sembri direttamente «riemersa». La Giselle di questa stagione 2015/16 è stata dedicata all’ottantesimo compleanno di Carla Fracci, con cui tu hai avuto anche l’opportunità di lavorare in un laboratorio su Giselle con lei. Che cosa ti insegna Carla Fracci? e qual è la tua Giselle?
Giselle è il ruolo romantico per eccellenza ed è sempre stato il mio sogno. Ancora oggi, nonostante averlo ballato molte volte, non mi sembra ancora vero averlo realizzato. Qualche tempo fa Claudio Coviello mi ha proposto un workshop con Carla Fracci – era presente anche Pompea Santoro [assistente di Mats Ek] con la Giselle di Mats Ek – è stata come una prova aperta: noi provavamo e loro fermavano anche la musica per darci delle correzioni. Io ero agitatissima, ma lei [Carla Fracci] ci ha messi a nostro agio, raccontandoci la storia di come sia stata scelta per Giselle e con lei abbiamo provato il secondo atto. Mi ha guidato tantissimo sullo stile, mi bastava guardarla, guardare come usava le braccia, le mani o anche solo le inclinazioni della testa: Giselle è Carla Fracci, assolutamente! È stato un momento emozionantissimo e interessantissimo, perché oltre allo stile lei ci indirizzati anche sul feeling che Albrecht e Giselle devono avere. Giselle nel secondo atto dev’essere eterea, impalpabile, ma nello stesso tempo è spinta dall’amore per Albrecht, con il quale riesce a salvarlo, nonostante non sia più terrena. È il mio ruolo preferito in assoluto. L’ho già ballato a Parigi, qui alla Scala, nella tournée in Cina, ma solo adesso sto riuscendo a trovare la chiave giusta per poter arrivare al pubblico, sentendomi Giselle da subito, credendo nella storia di una ragazza di campagna spensierata, innamorandomi veramente di Albrecht, provando dunque un dolore così grande di fronte al tradimento, da portarmi alla morte. Il secondo atto è poesia sulle punte, bisogna quasi non far sentire il movimento, non far vedere la fatica, dev’essere tutto fluido e armonioso.

Ho scritto che con te la tecnica diventa quasi subalterna all’espressività che riesci a trasmettere, soprattutto nel secondo atto, e di quale grande partecipazione emotiva ci sia nella scena della pazzia, che ho trovato un capolavoro. Penso anche ai ruoli romantici che hai fatto per Ratmanskij nella sua ricostruzione in filologico della danza dell’Ottocento, in particolare Odette nel Lago dei cigni che appare molto più umanizzata rispetto alla figura pura delle versioni successive. Che esperienze ti porti dalle ricostruzioni dei balletti di Ratmanskij? come ti sei approcciata all’Ottocento e come l’Ottocento ha influito nella tua interpretazione?
Io avevo già interpretato Odette/Odile nella versione di Nureev, una delle mie soddisfazioni più grandi, perché mai avrei immaginato di fare questo ruolo, per la mia altezza (sono un po’ minuta). – con chi eri? – Con Claudio, anche lì con Claudio [Coviello] ed è stata un’emozione grandissima. A luglio scorso con Ratmanskij è stato un lavoro di due mesi minuzioso e preciso, perché non è facile raggiungere ciò che lui vuole. Sono stata colpita dalla mimica e dai dialoghi che lui ha ripreso nei minimi dettagli: credo avvicinino molto i personaggi al pubblico e la storia diventa quasi un libro aperto. Mi è piaciuto tantissimo il lato interpretativo: Odette non è una creatura animale, ma è una donna con le sue passioni ed emozioni, e Odile non è un cigno nero, ma è una donna seducente, che riesce ad ammaliare il principe. Ratmanskij ha dato significato a ogni minimo gesto, ogni minimo passo, a ogni minimo movimento e alle angolazioni della testa. A noi veniva naturale magari mettere le braccia da cigno [a “S”], ma non era questo che lui voleva: voleva qualcosa di più naturale e spontaneo. Teneva molto alla fragilità e delicatezza di Odette, alla paura della scena coi cacciatori. Io dico sempre che sarei dovuta nascere nell’Ottocento [sorride], perché non avendo le gambe così alte, mi sono trovata molto bene con questo stile nei suoi ports de bras e le sue teste più “all’antica”. I virtuosismi e le difficoltà c’erano, ma non quelle che noi affrontiamo ogni giorno: nel primo atto la difficoltà maggiore sta nel rendere fluida la variazione, mantenendo morbidezza ed eleganza, nonostante la musica sia più veloce; nel secondo atto le difficoltà restano le classiche della variazione, dei fouettés. La parte che preferisco è nel terzo atto, in cui Odette è ormai triste e abbandonata e raggiunge l’apice della tragedia.

A proposito di tragedia, che mi dici di Giulietta?
Giulietta … desideravo tantissimo interpretare Giulietta e amo molto la versione di MacMillan [repertorio al Teatro alla Scala, in scena dal prossimo dicembre in apertura della stagione ballettistica 2016/17]. Nel 2014 ho debuttato nel ruolo accanto ad Angelo Greco: è stato indimenticabile! Abbiamo avuto una sola recita, ma l’esperienza più forte vissuta sul palcoscenico. Giulietta è una ragazza che vive emozioni e situazioni estreme e contrastanti. È un ruolo molto difficile da interpretare, ma lascia il brivido solo a pensarci!

Il Lago di Ratmanskij che avete adesso nel repertorio del Teatro alla Scala è in coproduzione con lo Zürcher Ballett. Tu a Zurigo ci sei stata: che esperienza e che ricordo hai?
Per montare il balletto da noi è venuto da Zurigo un assistente che era maître quando danzavo io là: è stato bellissimo ritrovarlo; mentre la ragazza che ha fatto la prima nel ruolo di Odette/Odile a Zurigo [Viktorina Kapitonova, Erste Solistin] è una mia intima amica. Mi sono sentita molto spesso con lei nei momenti di crisi, in cui non riuscivo a capire qual era la strada giusta per arrivare al risultato che Ratmanskij cercava: è anche venuta a trovarmi e mi ha raccontato il suo percorso. Lei è stata un’Odette stupefacente! A Zurigo c’era un modo diverso di approcciarsi a questo lavoro: si fanno più balletti, più produzioni, tutto funziona con grande efficienza. Penso che noi Italiani ci mettiamo più cuore per l’arte con tanto coinvolgimento emotivo.

E alla Wiener Staatsoper?
Lì devo dire che per me è stato un anno duro. Ero appena uscita dalla scuola, piccola e inesperta con il primo contratto in una compagnia grandissima, conta circa 150 danzatori. A Vienna davano meno spazio ai giovani, per poter ballare dovevi essere già maturo. Per questo pensai di trasferirmi a Dortmund, dove sono rimasta tre anni. Lì in una compagnia più piccola ho ballato tantissimo in tanti ruoli, sono diventata solista e sono cresciuta tantissimo nel neoclassico e nel contemporaneo, dove ho cominciato a lavorare con Bigonzetti e la sua assistente Sveva: abbiamo ballato tanto Mats Ek, Kylián, Balanchine, Forsythe. Però in seguito ho cercato una compagnia più di repertorio e sono andata a Zurigo come solista per altri tre anni. Dopo ho preferito tornare in Italia alla Scala, perché «casa è casa» [sorridiamo], avevo bisogno di stare più vicino alla mia famiglia.

Sei una ballerina romantica, volevi nascere nell’Ottocento, ma hai fatto ruoli più ‘carnali’, come la ballerina di strada e Mercedes nel Don Chisciotte di Nureev, che a me ricorda la Lupa di Verga, molto passionale e carnale, come Monica Guerritore nel famoso film o Luciana Savignano nel passo a due con Salvatore Tarascio della coreografia di Susanna Beltrami. Come ti sei trovata in questi panni?
Quando ho visto il mio nome nella ballerina di strada e poi addirittura in quello di Kitri, mi sono detta «No, non è possibile, non ce la posso fare!», perché sono ruoli lontani da me e dalla mia sensibilità. Però è stata una bella sfida, mi è piaciuto sperimentare su di me: la magia di questo lavoro è di poter diventare sulla scena quello che nella vita non potresti essere. Mercedes si è rivelato come un ruolo divertente, Kitri è stato più difficile, perché è molto tecnico, forse il più pesante di quelli che ho fatto. Fino alla fine non pensavo di farcela, ma averlo ballato è stata una soddisfazione indimenticabile che ho vissuto con Angelo [Greco], che aveva già ballato il Don Chisciotte di Nureev e mi dava sicurezza e incoraggiamento continuo. Un po’ mi sono ispirata ai mercati siciliani, come alla Vucciaria, per trovare una chiave che fosse adatta a me.

Anch’io nello studiare e analizzare il Don Chisciotte sono sempre ritornato agli elementi di casa della nostra Isola. Col Don Chisciotte io rido sempre di gusto, perché ritrovo i ritmi e le situazioni di casa. Che cosa ti porti dalla Sicilia quando sei sulla scena?
La Sicilia vive nel mio cuore, quando posso, anche solo per due giorni, torno a casa, prendo aria di casa e di mare. Con «Sicilia» io intendo soprattutto la mia famiglia e le persone che magari non ci sono già più, tutti loro io porto sempre con me sulla scena. Questi ricordi della mia infanzia in Sicilia mi danno la forza di affrontare tutto con positività e semplicità.

 

Domenico Giuseppe Muscianisi

 

Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano (Teatro alla Scala): Vittoria Valerio in Giulietta dal «Romeo e Giulietta» di sir Kenneth MacMillan, per concessione di Vittoria Valerio.

 

 

questa rubrica è a cura di Domenico G. Muscianisi e Chiara Di Paola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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