22 febbraio 2022

IL TESTAMENTO DI NUREYEV: «LA BAYADÈRE» ΑL TEATRO ALLA SCALA

Per la prima volta fuori dall’Opéra di Parigi, inaugura la stagione milanese


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Dopo due anni solari di pausa dalla scrittura di danza, non è facile per me scrivere di nuovo. La situazione pandemica ha pesantemente condizionato lo spettacolo dal vivo e lo sta continuando a fare: i controlli sono doverosi e doviziosi, ma i protocolli di sicurezza ‘intossicano’ la bellezza del teatro. E siccome a teatro «tutto è finto, ma niente è falso», come diceva Gigi Proietti, anche questo mio senso di dispersione fa parte del teatro dal vivo. 

Dispersione è quello che prova Nikiya e la stessa dispersione, forse, provava Rudolf Nureyev in quel 1992, quando debuttò la sua Bayadère al Palais Garnier appena prima della sua scomparsa. Rudy e la sua Nikiya hanno tante cose in comune. Sono impotenti di fronte al decorso degli eventi, vivono un’ambiguità frustrante tra la grandezza dei loro spiriti e la realtà, da accettare senza scelta.

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Si può considerare un testamento la Bayadère di Nureyev, un testamento sfarzoso e un ritorno all’origine: infatti, l’allestimento riprende molto la tradizione sovietica del Kirov (oggi Teatro Mariinskij) da cui Rudy proviene e si avvicina per certi versi anche alla «Baydère» allestita da Grigorovič per il Bol’šoj, laica e disincantata; diversa invece dalla versione più in filologico di Natal’ja Makarova, mistica e con apoteosi, precedentemente nel repertorio milanese. Credo che non a caso, lo scenografo di Nureyev, Ezio Frigerio, da poco scomparso all’età di novantun anni, abbia scelto una scenografia ispirata al Tāj Mahal, il fastoso mausoleo che il sovrano moghul ha fatto erigere nella capitale Agra per la propria sposa: un palazzo splendido, iconico per l’immagine di “India” in Occidente, ma una ‘tomba’ per ricordare la regina.

Uno degli étoiles di Nureyev, Manuel Legris ha curato il nuovo allestimento della Bayadère di Rudy al Teatro alla Scala, che per la prima volta esce dall’Opéra di Parigi. Le scene di Spinatelli sono ispirate a un orientalismo quasi ‘coloniale’, immaginario sicuramente suggestivo ed evocativo, ma un po’ démodé; dei costumi ho apprezzato l’accostamento dei colori, seppur non particolarmente originali, ma la foggia di tutti i costumi – in particolare quelli di Nikiya – mi è apparsa troppo pesante e non adeguata alla sinuosità e soavità che il carattere orientale delle danze vuole mostrare al pubblico.

La scenografia dell’atto bianco, l’Himalaya da cui scendono le ombre, è ricostruito come una proiezioni della decorazione a rombi, tipica delle finestre e dei paraventi orientali. Ho apprezzato questo disegno, perché mostra effettivamente una proiezione mentale dell’Himalaya nella psiche di Solor, un’illusione (māyā, nella filosofia indiana), che poi è la realtà. 

Nureyev amava dare anima (psukhē, dicevano i Greci) ai suoi personaggi e alle sue storie. I suoi balletti approfondiscono spesso un aspetto della vita umana: Lo schiaccianoci affronta la crescita interiore e personale, Il lago dei cigni mostra il dominio del male, il Romeo e Giulietta l’incomunicabilità, il Manfred la ricerca del Sé. E La Bayadère parla dell’amore, c’è tutto lì: l’amore imposto, l’amore tradito, l’amore simulato, l’amore non corrisposto, il dolore e la disperazione di una realtà lontana dalle proprie speranze e nonostante lo sforzo per raggiungerla. 

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Alla Scala ho visto tre cast: (A) Vittoria Valerio e Claudio Coviello con Virna Toppi, (B) Martina Arduino e Marco Agostino con Alice Mariani e (C) Svetlana Zacharova e Jacopo Tissi con María Celeste Losa. Qui parlerò dei cast A e B.

Claudio Coviello (Solor) e Vittoria Valerio (Nikiya) sono un duo che alla Scala e nelle tournée mondiali fanno vibrare gli spettatori di emozione e gli applausi scroscianti ne sono sempre testimoni. Con un tipo fisico diverso dall’immaginario statuario e ieratico del modello ‘russo’, danno vita alla loro Bayadère in cui la tecnica solidissima e affinata nel repertorio Nureyev è solo un mezzo per trasmettere le emozioni di un amore e di una mente tormentati come quelli dei personaggi di Rudy. In particolare, Vittoria è stata una vera baiadera del tempio, capace di trasmettere con le mani (le mudrā della danza indiana) e con il viso (abhinaya) come le autentiche devadāsī ‘schiave del dio’ esprimevano con il bharatanāyam.

Virna Toppi nei panni della perfida Gamzatti ha dimostrato un’ottima capacità di pantomima – elemento che occupa grande spazio del 1º atto – ed è stata un’energica sposa nel 2º atto con un controllato virtuosismo dei fouettés en dedans e di seguito en dehors della coda. Claudio è un partner sicuro e solido, conosce la tecnica Nureyev e sa far vivere quella coreografia spesso troppo ‘carica’ di passi con la leggerezza richiesta, nascondendo al pubblico lo sforzo muscolare. Nei principi malinconici riesce a regalare una grande partecipazione, per un ruolo che resta impresso.

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Martina Arduino (Nikiya) e Marco Agostino (Solor) hanno già danzato questi ruoli quando invitati al Balletto del Cremlino a Mosca e il modello russo del virtuosismo ha fatto da filo conduttore della performance: tutto molto ben eseguito, con pulizia e forza. Martina ha dato un tono molto lirico alla danza della morte di Nikiya, con grande pathos e musicalità. Marco è preciso e mostra grande attenzione alle partner. Alice Mariani da poco entrata tra i solisti della Scala, dopo anni da prima ballerina presso il Semperoper di Dresden, ha già ottenuto numerosi plausi e ruoli dal Don Chisciotte fino a questa Bayadère, con una Gamzatti sicura di sé e atletica.

Di coinvolgente energia e piacevole sinergia sono state le due coppie di solisti per la danza del tamburo (rispettivamente Domenico Di Cristo e Denise Gazzo per il cast A e Stefania Ballone con Christian Fagetti per il cast B): mi sono divertito e rallegrato! Sebben quella di Manu (con il vaso) sia una danza che non amo particolarmente, Agnese Di Clemente è stata un’ottima interprete sul piano tecnico (la falsa punta) e sul piano mimico; precisa e ed elegante come prima ombra solista negli attacchi con le sissonnes ouvertes e i passés. Ho apprezzato anche la brillantezza di Marta Gerani nell’allegro della seconda ombra solista.

Tra gli altri uomini, Federico Fresi (Idolo d’Oro) non è stato al suo meglio, dopo una ripresa, soprattutto per la pulizia del movimento, ma ha trasmesso una bell’energia. Gioacchino Starace ed Edoardo Caporaletti sono stati schiavi sicuri nel passo a due e bravi porteur rispettivamente di Vittoria e di Martina. Da menzionare il fachiro di Domenico Di Cristo per la bravura mimica nell’aprire tutto il balletto, la muscolarità forte e musicale del movimento, la capacità di dialogo con le braccia, i gesti e le espressioni per interagire con gli altri personaggi.

Il corpo di ballo era ‘decimato’ dalle quarantene e dalla conseguente discontinuità di prove, non ha dato il suo massimo in questo balletto, come il Corpo di Ballo della Scala ha sempre dimostrato. Le danze d’insieme sono risultate un po’ ‘spoglie’ come immagine e l’adagio delle ombre (18 in questa versione), che dall’Himalaya discendono sul piano delle mente di Solor, non ha brillato per sincronia, ma l’insieme degli artisti sul palco e l’orchestra hanno regalo quei minuti di poesia ed evocazione.

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È stato un atto di coraggio andare in scena con questo balletto e in questa situazione socio-sanitaria, ma il Teatro alla Scala ce l’ha fatta ed è da encomiare. Infatti, questa riuscita richiama la comunione della creatura e del suo creatore. Nikiya e Nureyev ci insegnano la rassegnazione, l’accettazione della fine e della realtà e l’eroismo di questa scelta. Chi ne è davvero capace?

Domenico Muscianisi

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