9 aprile 2024

QUALE MILANO STIAMO COSTRUENDO?

Salvaguardare i quartieri popolari per preservare l’identità della città


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La febbre edilizia che si sta determinando in questo momento a Milano, favorita dai numerosi programmi di “rigenerazione urbana”, costituirà certo occasione di sviluppo della città, ma contemporaneamente rischia di snaturarne il volto, di farne perdere cioè quello che nel passato ne ha costituito la specificità e la qualità profonda, sopravvissute anche alle terribili distruzioni dell’ultima guerra.

Una qualità difficile da definire, e forse quasi immateriale, ma che sempre ci colpisce anche in luoghi periferici esterni al tessuto storico consolidato. Valgono a strutturarli gli assi di collegamento col territorio, come via Padova o via Novara, o il permanere di piccole preesistenze, di dimenticate strutture, o non so cos’altro: sta di fatto che, malgrado i grandi quartieri che vi sono cresciuti attorno negli anni del boom, ancora qui si sente che ci si trova a Milano.

Particolarmente a rischio, in questo senso, sono i quartieri popolari costruiti nei primi decenni del secolo scorso, dando si può dire le stimmate alla città quando il suo sviluppo commerciale e l’installarsi di numerose anche grandi fabbriche vi richiamarono masse operaie da tutta la Lombardia e da molte altre regioni.

Fornire una casa accessibile a questa nuova giovane popolazione divenne allora compito urgente per la Municipalità socialista che creò una serie di quartieri inseriti nel tessuto urbano definito dal Piano Beruto secondo Il modello del primo quartiere popolare della Società Umanitaria in via Solari, disegnato dall’ing. Giovanni Broglio, con 480 locali e 240 alloggi, che è si può dire un modello per l’epoca.

In seguito, quando alla fine della prima  guerra mondiale un’inchiesta denuncia l’urgenza per il sovraffollamento di  almeno 13.000 locali, tra il ‘19 e il ’22, – essendo vivace il dibattito se preferire case piccole con orto nei sobborghi secondo il modello inglese o case multipiano inserite nel tessuto urbano come per il passato – vengono creati 4 villaggi giardino con ca.2.000 alloggi nei sobborghi e tre grandi quartieri, Genova, Vittoria e Magenta con di 2.500 alloggi in città, con tipologie ridotte e molto attentamente controllate dal punto di vista economico e dimensionale, ma estremamente civili e attente ai fabbisogni dell’utenza futura sul modello del quartiere dell’umanitaria in via Solari. Viene anche previsto un villaggio di 10.000 casette in zona San Siro che non sarà realizzato.

Negli anni ’30, quando alla giunta socialista si sostituisce l’amministrazione fascista, il problema di una casa accessibile ai ceti popolari è reso ancora più urgente a causa delle demolizioni condotte in ampie aree del centro storico dovute al piano  di Piacentini. L’ Istituto IFCP bandisce quindi nel ’32, su un’area molto vasta compresa nel nuovo Piano regolatore Pavia Masera situata in  zona San Siro, allora prevalentemente agricola, percorsa da un fiume e ricca di cascine, due successivi concorsi di progettazione per case popolari: si richiedono adesso alloggi dai 25 ai 50 mq massimo, ‘ultrapopolari’, caratterizzati da standard molto ridotti,  secondo principi che, nel bando vengono etichettati come razionalisti: «…la casa popolare sembra un campo adatto, e lo è realmente, all’applicazione dei concetti razionalisti. Escludendo essa, per necessità economiche, ogni superstruttura decorativa inutile, impone al progettista di ottenere l’effetto desiderato con mezzi minimi».

Malgrado le evidenti limitazioni progettuali imposte dal bando e la mistificazione culturale sottesa, le partecipazioni al concorso furono numerose e qualificate, poiché  la questione della casa popolare e del suo progetto era stata nei decenni precedenti  portata ad un altissimo livello di studio in Europa e già erano state elaborate proposte e soluzioni costruttive di notevole interesse, con i nomi, tra i maggiori, di Le Corbusier, Walter Gropius, Bruno Taut, Ernst May, Hans Scharoun.

Anche in Italia, quindi, lo studio “scientifico” e razionale delle tipologie abitative per i lavoratori era seguito con grande interesse da molti architetti e importanti  professionisti e questi concorsi costituivano una occasione unica e abbastanza eccezionale per un contesto culturale che risentiva della particolare congiuntura politica e della “marginalità” nella quale era costretta. La qualità notevole  delle varie proposte portò l’istituto ad assegnare solo secondi premi – ai gruppi diretti dagli architetti: Franco Albini,  Renato Camus, Giancarlo  Palanti , Ladislao Kovacs, Alberto Morone, Fausto Natoli,  Gaetano Angilella – con l’affidamento delle realizzazioni ai diversi progetti situati  nei vari comparti tracciati  dallo  schema urbanistico.

Fu così che per la prima volta si espresse anche in Italia nel campo dell’edilizia popolare una progettualità che possiamo definire razionalista, rappresentativa di un’epoca, di un pensiero, di un pezzo della sua storia.

Mi sono soffermata sul quartiere San Siro perché, a differenza di quelli realizzati in precedenza,  più piccoli e inseriti nel tessuto, siamo qui in presenza di un vero e proprio pezzo di città, leggibile chiaramente nelle mappe: un pezzo di città la cui storia travagliata dura da cento anni, con generazioni di lavoratori che si sono succeduti trovando qui il compimento di desideri e progetti, scambiando con la città le loro fatiche. E che negli ultimi anni ha subito un degrado spaventoso, legato a errate politiche di assegnazione, invasione di popolazione immigrata, invecchiamento degli antichi inquilini, vendite capillare dei vari alloggi, degrado degli edifici e via via.

Per i molti quartieri popolari di cui ho parlato, e di questo in particolare, è dunque dura ma necessaria una difesa che sostenga la necessità di conservare memorie fisiche importanti e di mantenere un rispetto sociale dovuto, superando per una volta il richiamo del denaro, del profitto, dello sviluppo a tutti i costi. Che è quanto Milano mi sembra abbia ultimamente scelto di scegliere.

Eppure, mi domando, se è vero che un quartiere popolare è molto più di un episodio culturale, che  la storia dei suoi abitanti è la storia stessa della città e deve essere rispettata e conosciuta per quanto negli anni ha anche donato alla città in impegno civile, democratico, in fedeltà al lavoro, la sua salvaguardia richiede un particolare impegno politico e una grande sensibilità istituzionale per essere affrontata senza snaturare un contesto che deve mantenersi nella sua ragione popolare; che non può quindi avvalersi di una indiscriminata sostituzione degli edifici secondo progetti, quali già sono stati avanzati, che provocherebbero la sicura sostituzione della popolazione attuale.

Su questo problema e per una forte difesa del patrimonio di case popolari della città si sono avuti ultimamente molti forti pronunciamenti sia da parte sindacale, sia da parte dell’ INU, ed è stata presentato alla Soprintendenza una domanda di tutela per il San Siro che ha raccolto l’adesione di tutta la rete dei comitati della città metropolitana di Milano, delle innumerevoli associazioni presenti in quartiere e di centinaia di cittadini, professori e intellettuali. Ma ormai sembra che una normale interlocuzione con l’amministrazione sia cosa impossibile, lunare.

Bianca Bottero e Sonia Occhipinti

 



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  1. Guido AngeliniSecondo me, per affrontare con una più ampia visione il tema della città sarebbe opportuno uscire dalla propria "comfort zone" e (ri) leggersi "Prima lezione di urbanistica" di Bernardo Secchi".
    23 aprile 2024 • 08:45Rispondi
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