26 ottobre 2021
MADINA ALLA SCALA
Un nuovo genere di spettacolo musicale
Nella prima quindicina di ottobre alla Scala è successo qualcosa di nuovo, forse è nato un nuovo genere di spettacolo musicale, un oggetto ancora un po’ misterioso, che ha smosso i criticoni incalliti del nostro Teatro e ha ottenuto ovazioni normalmente riservate alle grandi opere liriche ottocentesche. Nulla lo avrebbe fatto presagire. Parliamo della “Madina” di Fabio Vacchi, andata in scena il primo di ottobre in prima assoluta e replicata purtroppo solo cinque volte, tutte rigorosamente sold out.
È risaputo che gli spettatori si dividono in battaglioni ben distinti e non hanno mai amato troppo le commistioni, tranne forse all’epoca del Grand Opéra parigino: l’opera lirica, il balletto, il concerto sinfonico, la pièce teatrale, il melologo e via dicendo non si devono mescolare. Ciascuno di essi ha un proprio pubblico, che magari vede di tutto ma privilegia un solo genere, ed a quello volge la propria devozione.
La Madina ha invece mescolato tutte le carte, non ha voluto incasellarsi in nessuno degli spettacoli classici, si è proposta come “Teatro-Danza” ma avrebbe potuto benissimo proporsi come “Racconto musicale” o “Dramma musicale”, o “Danza drammatica” e così via a seconda che si voglia dar più peso all’una o all’altra delle parti da cui è composta. D’altronde ha tre autori, la librettista Emmanuelle de Villepin, il coreografo Mauro Bigonzetti, il compositore Fabio Vacchi, e la stessa locandina della Scala è incerta nel proporre i loro nomi tanto che, non potendosi appoggiare a una gerarchia consolidata, li indica ogni volta in un ordine diverso.
Tutto ciò premesso, occorre partire dalla fine, e cioè dallo straordinario entusiasmo che lo spettacolo ha suscitato ad ogni sua rappresentazione; le recensioni e le critiche l’hanno trattato come un capolavoro e non posso che accodarmi con altrettanto entusiasmo se – uscendo dal teatro – non ho fatto che ripetere a me stesso “non avrei mai immaginato che potesse essere così bello!”
Intanto l’argomento, attuale come il foglio di un quotidiano uscito il mattino stesso della recita, un atto di violenza inaudita su una donna, nell’inquieto terzo mondo di oggi, in cui vita e morte sono alla mercè di qualsiasi maschio che abbia un’arma a portata di mano; la De Villepin ne ha pubblicato prima un romanzo (“La ragazza che non voleva morire”), poi l’ha trasformato in una pièce teatrale, infine l’ha ridotto a libretto di un’opera-non-opera ovvero nella trama di un balletto. (Usare le leggiadre parole balletto o danza per uno spettacolo di tale drammaticità, a un profano come me sembra curioso e straniante, ma tant’è).
Non intendendomene, e non essendomene mai interessato seriamente, non dirò nulla del balletto se non che mi ha ammaliato e tolto il fiato: Antonella Albano, ingiustamente messa al secondo posto dopo il – sia pur strepitoso – Roberto Bolle, ha rappresentato in modo sconvolgente tutto ciò che possiamo immaginare di una donna, ciò che la letteratura di ogni epoca ha saputo dire della donna, tutto ciò che fa della donna – oggi più che mai – una creatura totale, piena, ricca di generosità ed umanità universali.
Poi c’è lui, Fabio Vacchi, il compositore. Sappiamo che il mondo dei musicofili è diviso fra gli amanti della musica contemporanea e coloro che non la sopportano (di solito ne sono amaramente delusi e profondamente irritati). Non credo che alla Scala in questa occasione si fossero dati appuntamento solo i primi, e che ci fosse una positiva attesa per una nuova opera musicale, anzi. Direi di aver sentito, prima dell’inizio, serpeggiare fra gli spettatori molto scetticismo. Ebbene, avreste dovuto assistere alle ovazioni che, alla fine dello spettacolo, hanno accompagnato la comparsa di Vacchi al proscenio, addirittura superiori a quelle, scontate, accordate al divo Bolle.
Ancor più delle sue precedenti composizioni, e ancorché non abbia concesso nulla alla nostalgia del “classico”, quest’opera di Vacchi è parsa la naturale pagina – successiva e dunque moderna – del grande romanzo della musica classica che, a partire da Mahler, è passata senza strappi attraverso i grandi musicisti della prima Scuola di Vienna e poi da Stravinskij, Prokof’ev, Šostakovič – ma anche da Busoni e Respighi, giusto per citare qualche compatriota – prima di perdersi nelle sperimentazioni linguistiche e di abbandonare il senso comune. Una musica “amichevole”, nonostante la drammaticità del racconto, che si è ascoltata come semplice descrizione dei sentimenti che scuotevano il palcoscenico e che si riverberavano in platea e fra i palchi colpendo duramente allo stomaco gli ascoltatori ma anche avvolgendoli in un manto di pietas.
Musica meravigliosa, balletto affascinante, costumi e video perfetti, orchestra in gran forma diretta con impegno e competenza – ma direi anche con affetto – da Michele Gamba, tutto ha funzionato alla perfezione, compreso l’ottimo coro nascosto da qualche parte (o forse registrato, chissà) preparato da Alberto Malazzi. Ma non ho ancora detto di altri tre protagonisti: l’attore (Fabrizio Falco), il mezzosoprano (Anna Doris Capitelli) e il tenore (Chuan Wang) che purtroppo non hanno avuto un ruolo “scenico” perché è mancata una regìa che li integrasse nello spettacolo allo scopo di renderlo “totale” così come era stato sicuramente pensato. Il coreografo ha dominato totalmente la scena con il suo spettacolare corpo di ballo, e non ha voluto evidentemente introdurvi elementi impropriamente ritenuti estranei, o forse non ha recepito l’importanza delle loro parti; solo l’attore-voce-recitante l’attraversava qua e là, fra un quadro e l’altro, quasi come un intruso, mentre i due cantanti (ottimo il mezzosoprano, inconsistente il tenore) erano confinati ai due angoli del palcoscenico senza minimamente partecipare alla rappresentazione.
A parte questo dettaglio, la potenza evocatrice della musica e l’energia dirompente e straziante dei corpi dei ballerini – e della Abano-Madina che ha raggiunto altissimi momenti di tensione emotiva – hanno letteralmente rapito il pubblico che alla fine ha chiamato tutti alla ribalta in un applauso autentico e liberatorio. Un grande spettacolo, che speriamo venga riproposto presto dalla Scala non solo per chi non l’ha visto ma soprattutto per i tanti che, come me, vorrebbero rivederlo.
Paolo Viola
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