16 novembre 2016

sipario – DIETRO LE QUINTE: OYES, TEATRO IN ASCOLTO


La Compagnia teatrale Oyes nasce nel 2009 da un gruppo di giovani diplomati dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano, con l’obiettivo di proseguire il percorso di condivisione linguistica, poetica e creativa iniziato durante la scuola. Lo spettacolo di debutto Effetto Lucifero (2010) inaugura una serie di successi e riconoscimenti, che (anche grazie al sostegno del Teatro Filodrammatici) riservano alla Compagnia un importante spazio nel panorama teatrale milanese. Lo scorso anno Oyes ottiene il premio Giovani Realtà del Teatro 2015, con lo spettacolo Vania e vince il bando Funder35 (della Fondazione Cariplo), con il progetto TRE (Teatri in Rete per Emergere), realizzato insieme alle compagnie Teatro dei Gordi e Teatro Presente. Nel 2016 è vincitrice del bando Next indetto dalla Regione Lombardia.

Questa settimana «Sipario» incontra il regista del gruppo Stefano Cordella, anche attore e drammaturgo.

sipario37fbIl nome della Compagnia è già una dichiarazione di poetica: in spagnolo «oyes» è la seconda persona singolare del verbo «ascoltare»; dunque l’ascolto, l’ascoltarsi reciproco (sia tra chi il teatro lo fa sia tra palcoscenico e pubblico) è un presupposto necessario per dare senso al vostro lavoro. Ma che cosa si “ascolta” oggi a teatro?

Per noi oggi il teatro nasce dalla necessità di raccontare dei personaggi, esseri umani con le loro fragilità e frustrazioni. La narrazione spesso è solo un pretesto per rappresentare qualcosa di più profondo. Siamo consapevoli delle insidie di questa operazione: c’è sempre il rischio dell’indecodificabilità del messaggio, che costringe a chiedersi fino a che punto ci si possa spingere per creare forme e linguaggi nuovi senza cedere a un avanguardismo fine a se stesso, autoreferenziale e incapace di coinvolgere lo spettatore. Al tempo stesso non bisogna cadere nella trappola contraria, cercando di compiacere il pubblico a ogni costo. È importante cercare un perpetuo scambio tra palcoscenico e platea: il pubblico non dovrebbe accontentarsi di essere “intrattenuto”, ma deve compiere un vero e proprio lavoro interpretativo; il nostro compito è quello di guidarlo e soprattutto “ascoltarlo”, farci specchio di un’umanità che lo riguarda e che possa suscitare reazioni (positive o negative), in un dialogo che stimoli una riflessione.

Un aspetto che appare fondamentale nella vostra produzione è l’interesse per il tema dell’autorità, entità che al tempo stesso inquieta e affascina. Può essere presente come “struttura” che punisce ma anche legittima alcune azioni negative sottraendole alla responsabilità individuale (come in Effetto Lucifero) oppure eclissarsi, smettendo di fungere da punto di riferimento emotivo ed esistenziale, e lasciando l’essere umano incerto e smarrito (come la figura paterna in Va tutto bene). Le nuove generazioni sono costrette a una difficile “educazione sentimentale” attraverso la perdita e la ricerca di padri e maestri. Per questo anche il teatro intrattiene nuovi rapporti con i modelli tradizionali, che prescindono dal “principio di autorità”?

Nel corso degli anni gli spettacoli di Oyes si sono evoluti a proposito della concezione di questo tema: se i primi si basavano sull’idea di un’autorità presente e ingombrante (lo vediamo per esempio in Effetto Lucifero ma anche in Assenti per sempre), negli ultimi essa manca o comunque diventa sfuggente, smettendo di fungere da punto di riferimento per la costruzione dell’identità del personaggio. Emblematico è il caso di Vania, in cui la figura paterna è presente ma in coma e gli altri personaggi, tra cui la figlia, sono costretti a tentare di comunicare con lui attraverso il macchinario che lo tiene in questo limbo tra la vita e la morte. E questa indeterminazione credo rifletta bene la condizione delle nuove generazioni, alla ricerca di una “figura paterna”, freudianamente intesa come modello o guida, ma costretti a individuarla al di fuori dei punti di riferimento tradizionali del passato. E questo rende i giovani più insicuri, più liberi forse ma di una libertà generica che a volte può trasformarsi in un esilio.

Anche il teatro contemporaneo ha perso i suoi punti di riferimento? Oppure esso nasce da una riscrittura del passato, tradotto in un linguaggio diverso?

Il nostro lavoro parte dal presupposto che non bisogna screditare a priori tutto ciò che è già stato detto o rappresentato e che anzi sia utile tenere ben presenti i riferimenti del passato, conoscerli e utilizzarli per raccontare l’oggi. Non importa se per farlo è necessario tradirli piuttosto che tenervisi fedelmente aggrappati: ogni drammaturgia è originale e un’opera a sé anche quando si rifà a un modello precedente. Per questo credo sia sbagliato parlare di “riscrittura” di un testo d’autore: al massimo si può parlare di “ispirazione”. E personalmente posso dire che sia più gratificante sapere che lo spettatore “sente” Cechov nei nostri spettacoli piuttosto che vedere replicati i suoi testi in chiave moderna.

La contemporaneità del teatro non si basa neppure sulla novità a tutti i costi, né sull’assimilazione di linguaggi e tecniche mutuati da altre forme di comunicazione (per esempio il cinema o la televisione) senza tenere conto delle “radici” e della storia di quegli stessi mezzi di rappresentazione, che seppur “tecnologicamente nuovi” hanno comunque una storia e delle tradizioni che è bene conoscere per capirne il valore. Quella che noi cerchiamo non è un’originalità “facile”, pensata solo per stupire acriticamente, ma il risultato di un percorso di riscoperta e valorizzazione artistica ma anche umana e sociale.

La produzione di Vania coincide con un momento fondamentale nella storia di Oyes: la fine della collaborazione triennale col Teatro Filodrammatici di Milano. È significativo dunque che il nuovo spettacolo sia basato sul timore di “sopravvivere galleggiando”, aggrappandosi al passato e guardando al futuro con poca fiducia. Il punto di partenza è Zio Vanja del russo Anton Cechov (autore a cui la compagnia è affezionata), che mette in guardia contro il rischio dell’immobilismo e la noia di vivere, il senso di vuoto, ma che con la sua storia personale si fa testimone della possibilità di riscatto. Dunque in che direzione andrà Oyes? Quali sono i prossimi progetti della compagnia?

Dobbiamo riconoscere di essere stati fortunati: appena usciti dall’Accademia abbiamo subito avuto residenza in un teatro importante di Milano e questo ci ha permesso di crescere, farci conoscere e apprezzare.

Il nostro prossimo lavoro parte da un altro testo di Cechov (Il gabbiano) e coinvolgerà tutti i membri della compagnia (in tutto reciteranno otto attori). Produttivamente è un progetto folle, ma rappresenta un punto fondamentale nella creazione della nostra identità artistica e nel modo in cui ci rapportiamo alla tradizione teatrale che ci ha preceduti. Con questo spettacolo vogliamo affermare definitivamente le caratteristiche del nostro modo di lavorare coi testi e di rapportarci con la realtà, renderci “riconoscibili” nonostante i cambiamenti che abbiamo attraversato e che ancora ci aspettano, e soprattutto trovare il nostro posto in un panorama artistico in cui tutto rivive, recuperato, rielaborato, reinterpretato, magari tradito, ma sempre presente.

Chiara Di Paola

 

DIETRO LE QUINTE

GORDI: LA POLFORMAIA DI UN TEATRO “POP” 12/10/2016

GLI IDIOT SAVANT 20/07/2016

IL TEATRO NON TETATRO DEI CHRONOS 3  01/06/2016

COMPAGNIA LUMEN. PROGETTI, ARTI, TEATRO 03/05/2016

INTERVISTA A LIVIA FERRACCHIATI 05/04/2016

INTERVISTA (BIS) A “GENERAZIONE DISAGIO” 24/02/2016

 

questa rubrica è a cura di Domenico G. Muscianisi e Chiara Di Paola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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