19 luglio 2016

sipario – DIETRO LE QUINTE, GLI IDIOT SAVANT


Questa settimana Sipario incontra Filippo Renda, giovane regista teatrale fondatore nel 2011 (insieme ai suoi colleghi della scuola del Piccolo Teatro di Milano: Mauro Lamantia, Mattia Sartoni e Simone Tangolo) della compagnia Idiot Savant, particolarmente attenta alla nuova drammaturgia, e impegnata nella riscrittura dei classici e nel teatro per ragazzi.
Da un anno fa parte, insieme alle compagnie Eco di Fondo, Ludwig, Maniaci d’Amore, Teatro Ma, del progetto Melting Teatro, finanziato dal Ministero dei Beni e le Attività Culturali e il Turismo, per il triennio 2015/2017.

sipario27FBIdiot Savant (“l’idiota sapiente”) è il nome di una rara sindrome di cui sono affette alcune persone con disturbi mentali, autistiche o schizofreniche, ma dotate di abilità eccezionali in specifici ambiti (spesso l’arte o i numeri) e di una spiccata inclinazione a concentrarsi sui particolari. Chiamarsi così è un’ammissione di “follia creativa” o una dichiarazione dell’intento di non rinunciare al proprio spazio espressivo?…. L’arte (il teatro) è un rifugio, un’alternativa o un rimedio alla realtà?
Abbiamo cominciato a fare teatro quando abbiamo capito che era l’unica cosa che eravamo in grado di fare: non quella che sapessimo fare meglio, ma proprio l’unica! La nostra arte è dunque stata la conseguenza necessaria della scoperta di non avere alternative praticabili e il nome che ci siamo dati è un tributo a quell’“inabilità” sulla quale abbiamo cercato di intervenire in modo creativo. La figura dell’Idiot Savant, è quindi per noi una grande ispirazione: un individuo completamente puro che trova il genio nei propri vuoti. E anche se noi non arriveremo mai a saper operare una lettura tanto approfondita di noi stessi, perché (purtroppo) non siamo abbastanza “folli” da restare “puri”, abbiamo scelto l’arte come antidoto alla normalità impostaci dalle sovrastrutture sociali. Un rimedio mai totalmente funzionante, che crea dipendenza e genere tutta una serie di effetti collaterali.

In diverse occasioni avete detto che a voi piace “non fare le cose per bene”, cioè in maniera accademica, e che di tutti i vostri progetti sapete da quale scelta precisa nascono ma non dove vi porteranno. Vi piace «fare le cose in maniera estrema», assumervi dei rischi, lasciarvi sorprendere dagli esiti della vostra eresia e accettare le crisi «in senso etimologico», come periodi positivi di ripensamento e di nuove decisioni. Quali sono le decisioni imprescindibili su cui si fonda il vostro modo di fare teatro e la vostra esistenza come compagnia?
La scelta imprescindibile è partire sempre dal proprio mondo interiore, da un’autonarrazione spudorata e scostumata, possibilmente scandalosa. Partiamo sempre dal presupposto che sia, per usare un eufemismo, veramente molto difficile raccontare una storia che non sia la propria; quello che cerchiamo di fare è narrarla senza trucchi e senza censure. L’operazione è ovviamente utopica, quindi la definirei una “vocazione”. Proprio per questo cerchiamo di evitare sempre di “fare bene”, perché fare bene significa seguire una regola oggettiva; noi invece percorriamo il nostro caos personale, di cui non conosciamo né la reale origine, né le estreme conseguenze. Riusciamo a coglierne a malapena qualche punto sparso, e da esso partiamo per costruire un’opera, operando sempre delle manipolazioni sostanziali ai testi altrui che decidiamo di mettere in scena, e divenendone sempre a tutti gli effetti secondi autori.

Melting è un sodalizio artistico e progettuale, basato sullo scambio di idee e ed energie da parte di giovani lavoratori dello spettacolo, che condividono risorse ed obbiettivi, sostenendo a vicenda creazioni individuali o collaborando a progetti comuni. Quali sono i vantaggi e i rischi di lavorare “comunitariamente” inserendo il proprio stile in una “sovrastruttura”?
Melting è un’avventura a dir poco coraggiosa per tanti motivi: innanzitutto perchè si tratta di un esperimento atipico, che abbiamo iniziato senza avere alcun modello precedente a cui fare riferimento. Inoltre il progetto nasce dall’incontro di identità artistiche molto differenti tra loro, non con lo scopo di fondarle un’unica compagnia, né di uniformarne stili e linguaggi, ma con l’intento di trasformare la diversità in un valore artistico.. Ciò è possibile solo attraverso instaurando un percorso lavorativo dialogico, un tavolo perenne di confronto, scambio e sostegno reciproco, in cui siedono artisti he condividono il gusto ossessivo per la ricerca e l’attenzione al dettaglio. Il rischio maggiore è quello di abituarsi ad un contesto rassicurante, e di lasciarsi assordire passivamente dai suoi meccanismi, invece di provocarli attivamente.

Riproporre i classici in maniera originale significa rinunciare al principio di autorità, saper trasgredire. Ma per farlo bisogna conoscere a fondo testi e autori, capirli e cogliene i “messaggi subliminali” che possono essere interessanti ancora oggi, per il “nuovo pubblico” del teatro. Come si fa a non sentirsi schiacciati dal peso dei giganti della tradizione? Esiste una tradizione a cui i testi appartengono in modo stabile e immutabile? O piuttosto divengono via via possesso di chi riflette e lavora su di essi nel corso delle epoche?
Per essere artisti oggi, per essere originali, bisogna continuamente confrontarsi con i classici. L’importante è dialogare con essi, non rimanendone umili servitori, ma aspirando continuamente aa assimilarli e superarli, coniugando reverenza e sincera strafottenza. Giornalmente ci si sente schiacciati e giornalmente si attua un nuovo tentativo di rivolta: di solito si fallisce ma “la vita è lotta, lotta senza quartiere, ed è un bene che sia così”. Purtroppo o per fortuna, un “classico” non diventa tale per una presa di coscienza comunitaria, bensì grazie a una guida verticale dei pareri che segue spesso criteri artistici e culturali, altre volte politici o economici. Questo nel teatro, come nelle altre arti. Ecco perché è importante “insegnare” i classici, anche proponendoli in forme nuove, che il pubblico contemporaneo possa capire e apprezzare.

Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler è una riflessione sull’arte contemporanea, sul ruolo dell’artista e sull’opera, intesa come prodotto “altamente intellettuale e allo stesso tempo ignorante”, capace di rivelare tutta l’enormità e la pochezza della cultura che la produce e la interpreta. In un’epoca che trasforma la vita comune in arte e viceversa, qual è il posto riservato al teatro? Come si pone rispetto all’esistenza quotidiana e alle altre forme di espressione artistica? Quali sono i suoi “limiti”? Chi è il nuovo pubblico e che caratteristiche ha? Quanto conta la “cultura” per capire il teatro?
In quest’epoca, nel nostro Paese, non c’è più spazio per il Teatro: è un mezzo obiettivamente vetusto sorpassato e che è sempre più lento ad aggiornarsi, soprattutto a livello tecnico. Questa situazione è generata e genera a sua volta un circolo vizioso che porta a un disinteresse generale, che riduce il teatro a un luogo per addetti ai lavori e per qualche sempre più sparuto appassionato. E’ obiettivamente un grave problema che mette a repentaglio l’esistenza stessa del teatro nelle nostre città, ma è anche la condizione che garantisce una certa libertà agli artisti, sottraendoli a pressioni politiche o economiche. Sinceramente non sono dell’idea che il teatro sia necessario all’uomo, credo invece che il teatro e l’arte debbano essere inseguite solo da chi ne ha un reale desiderio intimo e che non servano assolutamente basi culturali per accedervi: l’unica chiave necessaria è la passione, talvolta spinta fino all’“ossessione”, alla vera e propria “schizofrenia”.
Chiara Di Paola

 

DIETRO LE QUINTE
COMPAGNIA LUMEN. PROGETTI, ARTI, TEATRO 03/05/2016
INTERVISTA A LIVIA FERRACCHIATI 05/04/2016
INTERVISTA (BIS) A “GENERAZIONE DISAGIO” 24/02/2016



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