24 febbraio 2016

sipario – INTERVISTA (BIS) A “GENERAZIONE DISAGIO”


Nell’atmosfera informale del Teatro ATIR Ringhiera, ho incontrato “Generazione Disagio”: Luca Mammoli, Andrea Panigatti, Riccardo Pippa, Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi.Stanno provando le coreografie del loro secondo spettacolo “Karmafulminien” (una produzione, realizzata in collaborazione col Teatro della Tosse di Genova) ma mi accolgono con calore ed entusiasmo, pronti a essere intervistati. Così facciamo una pausa-merenda ai piedi del palcoscenico e chiacchieriamo per un’oretta buona dei loro spettacoli, della loro idea di teatro e del rapporto col pubblico, ma soprattutto di loro (e di “noi”), “profeti” della “generazione disagio”. Alla fine non si sa più chi pone le domande e chi dà le risposte; la conversazione nasce da sé, con spontaneità e arguzia, tra autoironia filosofica e giochi di parole, al punto che, «se non si sta attenti, ogni tanto nasce anche una poesia».

dipaola_07Innanzitutto le presentazioni: “Generazione Disagio”, un nome che è già un Manifesto, un’umoristica “patente” pirandelliana. Ma voi, chi siete?
Non siamo una “compagnia teatrale” nel senso tradizionale della definizione; abbiamo rinunciato alla presuntuosa pretesa della stabilità “matrimoniale” in favore di una più realistica, libera e al passo coi tempi “unione di fatto” (non (“coppia” perché siamo in sei). Quando non avremo più nulla in comune saremo liberi di “mandarci al diavolo”. Siamo un “collettivo” formato da giovani artisti e amici che condividono una condizione esistenziale (quella del “precariato” a 360 gradi) e una concezione del teatro vivo e non autoreferenziale, ma anche e soprattutto la volontà di trasformare il loro “disagio” generazionale in un punto di partenza creativo e catartico. Abbiamo preso il nostro caos e ne abbiamo fatto un vero “lavoro”. Così sono nati i nostri due spettacoli, che portano sul palcoscenico la vita, nostra ma non solo.

Nei vostri spettacoli si nota la tendenza a giocare con il linguaggio e a capovolgere l’interpretazione abituale delle parole. Mi spiegate i titoli?
Dopodiché stasera mi butto” capovolge evidentemente il significato con cui comunemente si utilizza l’espressione “buttarsi”; qui non vuol dire “osare” o “farsi coraggio”, bensì al contrario “rinunciare”, “buttarsi via” dopo aver fatto un accurato bilancio della propria esistenza, considerandone tutti gli aspetti (ecco perché “dopodiché”). I nostri personaggi (che siamo noi ma che non ci somigliano affatto) divengono testimoni dell’importanza del training al disagio, che smette di essere tale se somministrato ogni giorno “in dosi omeopatiche” e trasformato gioco liberatorio. Il “precario”, lo “stagista” e il “laureando” che essi interpretano sono i concorrenti di un paradossale “gioco di società”, una sorta di “gioco dell’oca rovesciato”, in cui si avanza accumulando più sfighe, incertezze e insuccessi possibili, per giungere alla vittoria finale conquistando la casella “suicidio”. Lo scopo è quello di ironizzare sui piccoli motivi di disperazione quotidiana, e trasformarli in tappe verso la progressiva conquista della resilienza che aiuti a sopravvivere.

È esattamente quello che facciamo noi: quando recitiamo portiamo in scena un ottimismo e un’autoironia che ci caratterizzano anche nella vita reale; la nostra comicità non è una posa o una maschera, ma nasce dalla reale convinzione che bisogna “tirarsi fuori”, prendere quello che si ha (e anche quello che non si ha ma si vorrebbe) e farne qualcosa di bello e di buono. Per noi stessi e per il pubblico in sala.

Per quanto riguarda “Karmafulminien – Figli di puttini”, sapevamo che avremmo parlato di angeli, ma degradandoli e facendone dei “parafulmini” delle disgrazie umane più banali; così abbiamo coniato il neologismo “karmafulminien” un po’ esotico e vagamente tedesco, tanto per attribuirgli un po’ di autorevolezza ironica in più. Il sottotitolo invece non ha bisogno di spiegazioni … .

Oggi non ci sono più i tradizionali angeli “custodi” che scelgono l’anima dei loro protetti e l’accompagnano per tutta la vita, bensì angeli “precari”, referenti di una spiritualità “usa e getta”, palliativi momentanei ed efficacissimi da utilizzare in cinque minuti per stare al passo coi ritmi della vita moderna. Sono “angeli-cuscinetto” per le piccole disavventure e speranze quotidiane, o come diciamo nello spettacolo: “angeli-cozza” («Anonime cozze, mitili ignoti in questo mare di lacrime»).

Le “cozze” qui siamo noi, che esibiamo i nostri corpi vestiti di piume. E se gli angeli sono di una bellezza indicibile e tremenda, noi costituiamo il “divino compromesso” di una “bellezza sopportabile” e “resistibile” per un’ora di spettacolo … e anche molto più a lungo, visto che le ragazze ci resistono benissimo!

Dobbiamo davvero ringraziare Giuseppe Brancaccio, danzatore della Scala, che ha impiegato il suo “pietoso e salvifico occhio esterno” per rendere almeno “guardabili” le nostre coreografie, Daniela De Blasio e Anna Mallalena Cingi che hanno realizzato i costumi e le scene.

I due spettacoli che mettete in scena sono legati da un filo conduttore, nichilistico e speranzoso al tempo stesso. Con “Karmafulminien” si passa dalla rappresentazione del “disagio” terreno a quella della “precarietà” trascendente. E dopo cosa produrrete? Una commedia subacquea? Oppure vi toccherà portare sulla scena qualche attrice donna …
«Il prossimo lavoro potrebbe essere un’operetta morale, un vaudeville in quattro o un musical, sempre in quattro, chissà …». Così ci dice il regista Riccardo. Oppure la faremo finita con questa pagliacciata del teatro indipendente e torneremo a fare solo gli scritturati. Anche se dopo questa affermazione non ci vorranno più! … ma tanto non ci vogliono comunque …!

Come sperate che sia il teatro italiano tra vent’anni l’avete già detto in diverse occasioni: più accessibile, più democratico, più coinvolgente e colloquiale, meno rivolto agli “addetti ai lavori”. Come vi vedete voi tra vent’anni, non più attori di una generazione “di mezzo” bensì di “mezz’età”?
Il nostro “disagio” (nostro e dei nostri coetanei) non dipende dall’appartenenza anagrafica e transitoria a una certa fascia d’età, ma è piuttosto la conseguenza fisiologica del trovarsi in un mondo in cui i valori che ci hanno insegnato non sono più validi: il matrimonio, il posto fisso e lo stipendio garantito, la religione, sono sempre più delle chimere. Non abbiamo né paghetta né stipendio; sappiamo che dovremmo parlare bene l’inglese, ma a scuola non ce lo hanno insegnato; non possiamo neppure definirci “proletari” perché non abbiamo la “prole”. Attualmente siamo una classe sociale nebulotica e disagiata, nata proprio nel momento in cui le classi sociali cessano di esistere.

Forse a cinquant’anni faremo ancora teatro, o magari ci saremo ritirati a vita privata e alleveremo capre in una masseria in Puglia … In ogni caso saremo fregati perché l’inglese ci servirebbe comunque. In fondo la vera domanda è: meglio la sicurezza economica o una vita gratificante e una professione appagante? E sarà possibile trovare una sicurezza economica nel teatro? Ma a questa non possiamo dare ora una risposta definitiva; le priorità cambiano col tempo e a seconda delle circostanze.

Alcuni oggi ritengono il teatro una forma di comunicazione anacronistica. Come è possibile svecchiarla? E perché il vostro teatro è “nuovo”?
Chi pensa che il teatro sia anacronistico, avrà visto spettacoli anacronistici o semplicemente brutti. Non sappiamo quanto sia effettivamente nuovo quello che facciamo, di certo c’è la volontà di raccontare il presente e ci capita per questo di dover cambiare le battute di replica in replica. Siamo consapevoli di fare qualcosa di temporaneo, non di “granitico”, eterno e immodificabile (“morto”?). Accadeva già nelle tragedie di Aristofane, in cui l’autore aggiornava il testo per tirare le orecchie al politico di turno. Non vogliamo arroccarci su una pretesa di autorevolezza che può allontanare dalla realtà  e dal pubblico. Il nostro obiettivo non è fare qualcosa di nuovo, ma di vivo e se il nostro teatro riesce ad esserlo è perché riconosce le proprie (e le nostre) debolezze e le tratta con ironia, mettendo in scena il paradosso, sempre ricordando che in sala c’è un pubblico che si aspetta di ridere o piangere. E noi lo facciamo ridere fino alle lacrime, in modo che nessuno esca insoddisfatto!

Chi è il vostro pubblico di riferimento? Quali caratteristiche dovrebbe avere il vostro spettatore ideale?
Il nostro pubblico di riferimento non si identifica con una specifica fascia d’età ma piuttosto con un’attitudine psicologica. Dal momento che i nostri spettacoli prendono in giro la classe media benestante e acculturata, gli spettatori che maggiormente li apprezzano sono quelli disponibili a identificarsi e a ridere con indulgenza dei propri difetti e delle proprie debolezze, come facciamo noi. La nostra platea si riconosce nella “generazione Erasmus”, che vive lo strappo tra ciò che dovrebbe essere e ciò che non è, che avverte l’esigenza di inventarsi dei nuovi valori e che nel frattempo si sente in trasferta aliena in un mondo nel quale non sa orientarsi. Ma comunque va avanti, non si limita a una rivendicazione piagnucolante e passiva ma trasforma il proprio disagio in “rock and roll”.

 

Chiara Di Paola

 

 

 



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