5 aprile 2016

sipario – DIETRO LE QUINTE: INTERVISTA A LIVIA FERRACCHIATI


DIETRO LE QUINTE: INTERVISTA A LIVIA FERRACCHIATI

Proseguendo il percorso alla “scoperta” dei giovani protagonisti del teatro odierno, ho incontrato Livia Ferracchiati, autrice e regista, vincitrice nel 2014 del premio Finestra sulla drammaturgia tedesca (con la regia del testo Sulla sabbia di Albert Ostermaier) e fondatrice della compagnia “The Baby Walk“, pochi giorni fa in scena al Teatro Elfo Puccini con un testo scritto e diretto da lei: Ti auguro un fidanzato come Nanni Moretti.

Il suo teatro esplora gli aspetti meno conosciuti e più mistificati dell’intimità umana, portando sulla scena argomenti come l’identità di genere, la sessualità infantile e transgender, la dicotomia tra mente e corpo, senza scopo didattico e senza voler fornire al pubblico tutte le risposte, ma con la consapevole responsabilità di “porre le domande giuste”.

sipario12FBSapevi di voler diventare una regista fin da quando avevi 12 anni, per “creare spazi, atmosfere, situazioni” ed esplorare dinamiche umane reali attraverso la finzione e il “gioco”. Ma se non avessi intrapreso questa professione, chi saresti diventata?
Venditti cantava «La matematica non sarà mai il mio mestiere», per fare una citazione colta, e lo stesso vale per me: con le materie scientifiche ero negata. Forse l’unica disciplina a cui avrei potuto dedicarmi per garantirmi una professione più “sicura” sarebbe stata la giurisprudenza. Ma i miei genitori non mi hanno spinto per farmi intraprendere una strada piuttosto che un’altra; per fortuna (o purtroppo?) mi hanno lasciato la libertà di seguire le mie passioni. Non amo la routine, e il teatro è rocambolesco, avventuroso, imprevedibile; è divertimento e fatica, è puro piacere di fare, oltre che un modo di espressione e comunicazione sempre nuova col pubblico.

I tuoi lavori portano sul palcoscenico argomenti attualissimi (l’identità, la sessualità, il rapporto tra i generi, la transessualità, l’accettazione di sé e il timore del giudizio altrui) che si legano alle dinamiche sociali (e politiche) odierne e rispetto ai quali il pubblico potrebbe nutrire diffidenza. Quali strumenti hai adottato per abbattere questa potenziale “quarta parete” ideologica?
Innanzitutto il raccontare una storia nella quale, a prescindere dall’argomento o dalle caratteristiche del personaggio, gli spettatori possano immedesimarsi e sentirsi partecipi. Solo in questo modo si può affrontare il tema della “diversità” e fare in modo che il pubblico scopra da solo che in fondo la diversità non esiste. Fondamentale credo sia l’utilizzo dell’ironia, che permette di ottenere un margine necessario di distanza, e impegnarsi a trasferire sulla scena l’intelligenza e la difficoltà con cui persone “vere” (testimoni reali delle tematiche cui mi interesso) affrontano nel loro quotidiano il disagio legato al pregiudizio e alla non-conoscenza.
È stato molto bello per me vedere i miei spettacoli apprezzati non sono per la qualità artistica e tecnica, ma anche dal punto di vista umano, e constatare che il pubblico (o almeno una parte di esso) ne ha recepito il messaggio.

I protagonisti dei tuoi spettacoli affrontano sempre il problema del confronto io-altro; laddove l'”altro” può essere Tu (dell’altro sesso, e con una mentalità opposta a quella di Io) che si teme di perdere, un aspetto della propria identità che non si può soffocare, una madre di cui si cerca l’approvazione, un intero mondo di valori e pregiudizi. Sono individui destinati alla libertà o condannati alla solitudine?
Direi che sono “condannati a cercare la libertà”, perché sono consapevoli che hanno solo “questa” vita da vivere e non vogliono reprimerne gli aspetti più intimi per paura del giudizio altrui. Ma sanno anche quanto difficile sia confrontarsi con i preconcetti e la superficialità di una società che ha bisogno di etichettare e classificare, e condanna ciò che non rientra nei parametri della “normalità”. I miei personaggi sono alla ricerca dell’equilibrio tra sé e mondo.

Vivere accanto a “un fidanzato come Nanni Moretti” (o somigliante a qualcuno dei suoi personaggi) significa condividere un’esistenza tormentata, inquieta, paranoica, in qualche modo “tragica”. C’è spazio in questo “amore” per qualche forma di felicità?
Io e Tu sono due trentenni, ma non sono “adulti”: non hanno completato la loro maturazione né raggiunto l’autonomia (anche economica) rispetto alla generazione che li ha preceduti. Il loro rapporto è conflittuale, ma giocoso: bisticciano come due ragazzini, si punzecchiano in modo infantile, trasformando la lite in uno strumento di conoscenza e di evoluzione della coppia: se smettessero di litigare finirebbero con l’annoiarsi e lasciarsi. La felicità per loro sta proprio nel tentativo estenuante di sfuggire all’abitudine dell’amore e della vita.

Tra i tuoi progetti ce n’è uno sulla tua città, Todi, che nasce dalla volontà di indagare come, vivendo in una cittadina di provincia, la libertà degli individui venga limitata dal timore del giudizio altrui. Per quanto ti riguarda personalmente, il teatro ha cambiato il rapporto con la tua città?
Ho un buon rapporto con la mia città. È qui che ho mosso i primi passi nel mondo del teatro, quando pensavo che per fare questo mestiere bisognasse sperimentarlo, fuori dalle Accademie, da autodidatta. Così ho fondato la mia prima compagnia, Arebur. Non eravamo che un gruppo di ragazzini che giocavano a fare teatro, ma l’esperienza è servita come palestra per farmi conoscere i tanti aspetti anche “pratici” che ci sono dietro una messa in scena. A Todi ho anche rappresentato alcuni dei miei spettacoli; ho ricevuto critiche per Sex Workers e me ne aspetto altre per Peter Pan guarda sotto le gonne, che vi porterò in scena il prossimo 8 aprile. Ma le polemiche che posso a suscitare non mi preoccupano, anzi, alla fine mi divertono.

In un’intervista hai consigliato a chi volesse intraprendere la strada del teatro di “dotarsi di forte determinazione ed erigere una sorta di culto, di fede incrollabile in se stessi”…. Funziona?
No. O meglio, non basta. Non è sufficiente credere in se stessi, ma servono anche capacità oggettive di formulare proposte artisticamente valide e voglia di documentarsi, studiare, approfondire gli argomenti che si porteranno in scena, per realizzare spettacoli di qualità. E oltre a questo ci vogliono anche fortuna e/o contatti per farsi conoscere e farsi strada in questo settore. In ogni caso, credere in ciò che si fa e farlo sempre con lo stesso entusiasmo è fondamentale, in teatro così come nella vita “reale”. In ogni caso, lavorare su progetti per i quali si avverte davvero un’urgenza, aiuta nell’onestà del racconto e consola quando le cose non vanno come si vorrebbe.

Chiara Di Paola

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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