12 ottobre 2016

sipario – DIETRO LE QUINTE: GORDI: LA POLIMORFIA DI UN TEATRO “POP”


Dopo la pausa estiva, Sipario torna a guardare dietro le quinte del teatro milanese, e incontra Giulia Tollis e Sandro Pivotti, rispettivamente drammaturga e attore del Teatro di Gordi, una giovane compagnia, o meglio un collettivo, nato nel 2010, dopo l’esperienza condivisa dell’Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Formato da un numero variabile di componenti, il gruppo si costituisce come Associazione culturale e si autobattezza con un nome beneaugurante (derivato dall’aggettivo spagnolo che significa “grasso”, “grande”, “fecondo”, “vincente”). La sua attività spazia tra spettacoli teatrali, street performances, laboratori ed eventi culturali con uno stretto legame col territorio, soprattutto di Bovisio Masciago, dove organizza corsi di formazione teatrale per bambini, adulti e disabili.

sipario33Tra gli altri riconoscimenti, nel 2015 ha vinto il bando “Funder 35” della Fondazione Cariplo con il Progetto T.R.E (Teatri in Rete per Emergere) realizzato insieme alle compagnie Teatro Presente e Oyes, e finalizzato a escogitare nuove strategie progettuali e organizzative per affrontare il mercato teatrale di oggi, crescere artisticamente e «guardare molto lontano all’orizzonte»…

La versione “street” di Molto rumore per nulla si basa sulla trasposizione itinerante ed estemporanea dell’opera shakespeariana, che viene fatta “accadere” in modo improvvisato, in contesti, spazi e momenti sempre diversi della vita quotidiana della città, come un’interruzione della routine dei suoi abitanti, trasformati inaspettatamente in spettatori. È questo il modo più efficace con cui l’arte contemporanea può conquistare l’attenzione del pubblico? cogliendolo di sorpresa?

Molto rumore per nulla è stato il primo progetto realizzato dalla neonata compagnia Teatro dei Gordi, e ha coinciso col primo vero impatto con la realtà teatrale esterna all’ambito (protetto) dell’Accademia e dunque anche col primo momento di crisi – rigenerazione – ristrutturazione del gruppo. L’opera presentata al festival La Mama Spoleto Open 2011 era in realtà l’estratto di un progetto originario molto più ambizioso, “faraonico”, che secondo i piani iniziali avrebbe dovuto portarci in giro per l’Italia a bordo di un incredibile carro di legno … . A Spoleto ci siamo esibiti tra le strade e le piazze della città, cogliendo di sorpresa il pubblico ma anche noi stessi: recitare per strada, improvvisando a seconda della situazione e del contesto, impone di superare la paura della performance e di reinventarsi di volta in volta. Anche grazie a questo spettacolo “estemporaneo”, ideato dal regista Riccardo Mallus, abbiamo capito quale doveva essere il carattere del gruppo: il gusto della scoperta, il desiderio di vedere “cosa succede” nel qui e ora dell’azione teatrale, la volontà di portare il teatro fuori dai luoghi “soliti”. Abbiamo scoperto insomma che il nostro è un teatro “di scoperta e di incontro”, sia per noi che per il pubblico.

Spettacoli come Sulla morte, senza esagerare e Il Grande Gigante Gentile mostrano come il teatro contemporaneo, innovativo e sperimentale, non disdegni di utilizzare strumenti tradizionali come maschere, ombre, suoni e musiche, facendosi “teatro di figura” e rinunciando alle parole a vantaggio di linguaggi più immediati e condivisibili. Perché?

La scelta degli strumenti da utilizzare è dipesa innanzi tutto da ragioni pratiche: quando non hai niente devi inventarti tutto e spesso sono proprio gli espedienti del teatro tradizionale a offrire le soluzioni più economiche e praticabili per allestire la scena e rappresentare una storia. Quello che ci ha sorpreso, a partire dall’esperienza del Grande Gigante Gentile (nato da un progetto di laboratorio per le scuole elementari), è stato come proprio dal poco che avevamo a disposizione (un lenzuolo e un faro) potessero nascere idee drammaturgiche e forme sceniche: per esempio le ombre si sono rivelate una soluzione molto efficace per rappresentare gli aspetti dell’“enormità”, del “buio”, della “paura” e del “sogno”. Lo spettacolo Sulla morte, senza esagerare, è nato invece dallo spunto di un canovaccio per burattini del regista veronese Riccardo Pippa, per trasformarsi in uno spettacolo di maschere mute. Le abbiamo costruite sui calchi dei visi degli attori coinvolti nel progetto, grazie alla consulenza di Ilaria Ariemme, eccellente scenografa e costumista. Anche in questo caso la scelta del mezzo tradizionale si è dimostrata efficace per affrontare il tema, quello della morte, con la giusta ironia e leggerezza. Addirittura la rinuncia alla parola, in Sulla morte, senza esagerare, ha prodotto un arricchimento della rappresentazione: gli spettatori hanno potuto immaginare e costruire da sé i dialoghi tra le figure in scena, moltiplicando ogni singola performance in tante personalissime rappresentazioni individuali.

Nel 2013 avete portato in scena Don’t panic!, definita “guida galattica al teatro indipendente”, una sorta di manuale di sopravvivenza alle disavventure in cui inevitabilmente incorrono teatranti “anarchici”, che abdicano alle regole formali e ai ruoli fissi, e mettono in discussione le forme espressive tradizionali, in favore di sperimentazione e rinnovamento. Qual è la poetica di un teatro pensato come work in progress? E quale rapporto lo lega al teatro “istituzionale”?

Don’t panic! nasce nella formula dei “20 minuti” per partecipare a IT- Festival del Teatro Indipendente di Milano, un evento annuale della città, che raccoglie gruppi e compagnie del teatro indipendente. Il festival rappresenta la preziosa occasione per testare un “work in progress” prima di svilupparlo verso altre forme e proporlo a un pubblico diverso da quello che partecipa all’atmosfera del festival. Lo spettacolo è una riflessione e rappresentazione delle difficoltà che le compagnie giovani e indipendenti devono affrontare e risolvere nel confronto con il mondo del teatro fuori dall’Accademia (difficoltà artistiche, economiche, logistiche, organizzative). Proprio questo aspetto trasforma la loro attività in una sorta di “resistenza culturale”, finalizzata a portare avanti una “visione” artistica personale e indipendente.

Tuttavia, stando alla nostra personale esperienza, per le giovani compagnie è fondamentale avere la possibilità di interloquire con le istituzioni teatrali e di appoggiarsi alla loro struttura organizzativa: da questo dipendono l’accesso a risorse materiali ed economiche, la possibilità di delegare alcune questioni pratiche (per esempio l’attività di comunicazione) per dedicarsi di più all’aspetto creativo, il privilegio di entrare in contatto con professionisti ed esperti con competenze specifiche (scenografi, costumisti, tecnici, ecc). È un’opportunità per crescere artisticamente e professionalmente, ma anche per avvicinarsi a un pubblico diverso da quello che si incontra per strada o nei teatri “underground”. Insomma, l’indipendenza artistica delle compagnie dipende dalla capacità di mantenere una visione libera dell’arte, non dal rifiuto di collaborazioni esterne con realtà più strutturate.

Le vostre opere si basano sempre su rappresentazioni allegoriche, ambientazioni fiabesche, riferimenti alla morte e amplificazioni della realtà nel mito e nel sogno. Questo aspetto “onirico” è un indizio di riflessione “metateatrale” sulla pièce concepita come sospensione del reale e sua amplificazione trascendente?

A dire la verità è la prima volta che qualcuno ci fa notare questa caratteristica del nostro repertorio. In realtà non c’è mai stato un progetto predefinito in tal senso, anche perché i nostri progetti sono nati sempre singolarmente, senza un filo rosso che li tenesse insieme dal punto di vista dei contenuti e delle forme. Forse emerge inconsciamente un aspetto “paranormale” inteso come rifiuto del puro realismo, ma soprattutto una volontà di creare uno spazio “trascendente” in cui poter far convivere le diverse sensibilità umane e artistiche che caratterizzano i membri e i collaboratori della compagnia. In fondo l’unico vero “filo rosso” che percorre il nostro lavoro sono le persone: giovani artisti mossi dal desiderio di collaborare, creare, sperimentare e conquistarsi uno spazio di espressione.

Cos’è Albert?

Albert. Ouverture – ovvero di come diventai una statua, è nato come progetto teatrale per le scuole, poi si è trasformato in spettacolo (scritto da Cecilia Campani, con la regia di Marco Monzini), è stato presentato nell’ultima edizione di IT come monologo (Primo studio sulla leggenda e la sua statua), e ha debuttato al Teatro Litta all’interno della rassegna HORS (House of the Raising Sun). Oggi è un dialogo che dura un’ora e si rivolge idealmente a un pubblico di tutte le età. La storia narra il risveglio della statua di Einstein in un museo, sotto gli occhi di un giovane custode. Il dialogo tra i due personaggi serve a ristabilire l’equilibrio tra le loro identità, riappacificandole sul comune terreno dell’umanità condivisa nel quotidiano: anche Einstein si rivela infatti tormentato dai dubbi apparentemente insignificanti e banali che caratterizzano chiunque.

Prende avvio così un rapporto di conoscenza, confronto e amicizia, tra l’icona di un genio e un ragazzo qualunque, che si rivela il vero protagonista di questo viaggio di formazione nel confronto tra mito e nullità, in un’atmosfera paranormale fatta di suoni, musiche e salti temporali dal presente al passato. È un focus su un’icona del XX secolo, ma soprattutto un invito a riflettere sul rapporto tra l’essere umano e la sua immagine cristallizzata, sulle libertà che vengono tolte all’uomo reale nel momento in cui viene trasformato in “icona” e conosciuto solo nel ruolo di “genio”.

Chiara Di Paola

 

DIETRO LE QUINTE

GLI IDIOT SAVANT 20/07/2016
COMPAGNIA LUMEN. PROGETTI, ARTI, TEATRO 03/05/2016
INTERVISTA A LIVIA FERRACCHIATI 05/04/2016
INTERVISTA (BIS) A “GENERAZIONE DISAGIO” 24/02/2016

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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