22 marzo 2017

sipario – IO, MARCO AGOSTINO, FACCIA A FACCIA CON LA DANZA


Mi dicevo che Des Grieux fosse il suo ruolo: dicevo giusto! Riflessivo, a tratti introverso, ma pronto a esplodere, come il protagonista del capolavoro di MacMillan. La tenacia e la determinazione hanno portato Marco Agostino (27 anni) dalla scuola di ballo dell’Accademia milanese alla nomina di solista del Teatro alla Scala (2013). Nell’emulazione di Nureev persegue con l’onestà di chi vuole sempre migliorarsi e non vede l’ora di raccontarsi.

sipario11FBUna definizione antropologica di danza è «movimento in rapporto allo spazio e al tempo» e in questa relazione il ruolo da solista all’interno di un corpo di ballo è uno dei più impegnativi – se non il più impegnativo -, perché il solista deve “prendere” il proprio spazio e allo stesso tempo “concedere” lo spazio agli altri solisti e agli artisti della compagnia. Qual è il tuo rapporto con lo spazio?
Quando ballo insieme alla compagnia, devo tirare fuori la mia personalità in termini di individualità, artisticità, stile, per risaltare come solista. Come solista devo dimostrare (anche come obbligo contrattuale) di essere in grado e di poter fare i ruoli da primo ballerino e di essere capace di andare insieme con il gruppo. Lo trovo stimolante, perché con un ruolo ce ne sono tre: divento più persone nello stesso momento.

E il tuo rapporto con il tempo, cioè con la musica?
La danza è un arte ed è un linguaggio: i passi sono le parole e il ballerino è l’interprete che ne dà un senso unico con la propria fisicità e artisticità. La musica è all’unisono con la coreografia – anzi, sono nate insieme – e suggerisce già da sé l’emozione da trasmettere. Quando ascolto un pezzo di Giselle o di Onegin e cerco di interpretare un ruolo, mi accorgo sempre come questa unicità di partitura e coreografia esista già. L’emozione io la traggo sempre dalla musica: è già tutto scritto, anzi a volte si tratta di riuscire a ballare all’altezza della musica.

L’emozione nella danza si mescola inevitabilmente con la tecnica. Nel balletto è particolarmente evidente: infatti, spesso un danzatore “nasconde” la propria timidezza e il proprio sentimento dietro la tecnica, lasciando trasmettere solo l’esecuzione. Qual è il passaggio che tu hai avuto dall’esecuzione di una tecnica all’interpretazione di una danza?
Ho avuto anch’io il momento in cui mi «nascondevo dietro la tecnica», soprattutto quando mi approcciavo per la prima volta ai ruoli. Io credo nell’onestà verso sé stessi e verso la danza nel cercare di riconoscere i propri punti di forza e quelli di debolezza. La sicurezza e il risultato duraturo si possono acquisire nel corso del tempo più che con il talento, attraverso un lavoro costante di disciplina e di dedizione. Tirar fuori l’emozione attraverso il corpo non è solo trasmettere un’emozione fissa, come “gioia” o “dolore”, anche un movimento da solo ha un’emozione: l’eleganza di un balletto astratto di Balanchine o la forza di un balletto di Forsythe sono emozione. I grandi artisti non pensano ai passi. Sono sicuri però del loro lavoro in sala, che non si può pensare di tralasciare. A loro io guardo.

Marco, tu parli di onestà, responsabilità, lavoro, emozione. Mi hai fatto venire in mente Baryšnikov e Nureev, due giganti della danza molti diversi tra di loro, ma che sono accomunati dalla dura e fedele dedizione alla danza e dal lavoro sui propri corpi. Entrambi avevano quello che Nureev nella sua lettera chiama il «fuoco interiore», che permette loro di affrontare tutto. Qual è il tuo fuoco interiore e come si svolge la lotta con i ruoli che non corrispondono alla tua natura?
Ricordo la prima volta che ho interpretato Rothbart – quello di Nureev? – Esatto. Vaziev [Machar, direttore artistico del corpo di ballo del Teatro alla Scala dal 2008 al 2015] allora me lo ha fatto ballare con Polina Semionova [prima ballerina internazionale dal Berliner Staatsballett e dall’American Ballet Theatre di New York], che ha un carisma e un’artisticità incredibili. Lì mi sono dovuto forzare nell’essere ingannatore e malvagio per tutto il balletto: era difficile per me, ero anche abbastanza giovane, avevo 20 anni. Ho fatto fatica nel cercare in me quell’ambiguità e quella cattiveria del personaggio, per riuscire a essere reale e ad avvicinarmi a quanto lo era lei. Polina nel ruolo di Odile è perfetta e mi ha aiutato moltissimo a essere Rothbart.

Al contrario, come approfondisci un ruolo che senti consono al tuo carattere?
Ho due ruoli che porto nel cuore: Des Grieux di Manon [L’Histoire de Manon di sir Kenneth MacMillan], che mi ha dato la promozione in scena – cui sono molto affezionato. Des Grieux compie un percorso: ha un carattere timido e riservato, diventa un uomo che non riesce a controllare le emozioni, aspetti in cui molto spesso io mi ritrovo. C’è una poesia nella tragicità di un amore destinato all’infelicità e alla morte che a me ha sempre affascinato.
L’altro mio ruolo è Albrecht [dalla Giselle], che ho ballato in Cina a settembre [2016] e a ottobre alla Scala. È stato un periodo molto particolare, perché tornavamo dalle vacanze e ho saputo che avrei dovuto interpretare il ruolo.

Non l’avevi mai studiato prima?
L’ho sempre studiato per conto mio, perché è il mio sogno di sempre. Sapevo tutto di Albrecht, per averlo guardato negli ospiti e nei nostri interpreti; ma non l’avevo provato per la rappresentazione. Le prove prima della mia prima a Tianjin sono state poche, ma alla fine ho recitato Albrecht per due mesi: ho visto il personaggio cambiare, approfondire, crescere. La prima entrata del secondo atto – che ho visto e rivisto con i grandi ballerini – con il mantello e i fiori ho pensato per un attimo a tutti quelli che lo avevano fatto e mi ha dato forza, perché lo stavo facendo anch’io! L’arte del balletto si sintetizza in momenti semplici e potenti allo stesso tempo. Giselle è un capolavoro che resiste da tantissimo tempo e si aggiorna con l’artisticità di ogni singolo interprete, non diventa mai vecchio.

Hai ballato anche Lenskij [dall’Onegin di John Cranko e musica di Čajkovskij], che rappresenta il poeta focoso.
Lenskij è uno dei primi ruoli che ho affrontato. All’inizio vive la gioia di ballare per corteggiare Ol’ga, cadendo sempre più fino alla delusione fortissima per il tradimento dell’amico che sfida a duello per rabbia. Tuttavia, è mangiato dai rimorsi: chiede alla luna di far sì che Onegin non si presenti al duello. Per me è stato bellissimo: ho avuto la possibilità di ballare con Thiago Soares [primo ballerino del Royal Opera House di Londra] nel ruolo di Onegin che ha ballato tantissime volte. Lui è un artista che racchiude un concetto di artisticità diretta, che per me è stata di grande aiuto e crescita artistica – essendo anche allora abbastanza giovane.

“Rubare” dai grandi con cui si lavora è importante.
Il lavoro onesto e intelligente del danzatore sta anche nella capacità di assorbire come una spugna da tutti i punti i vista, non chiudersi nelle proprie convinzioni. Cerco di apprendere il più possibile, aggiungere sempre di più qualcosa al mio modo di essere, mettermi in discussione per crescere e vedere.

Che cosa vedi tu fuori, quando non sei alla Scala?
Tutto. Sono aperto a tutto. Vado molto al cinema e vado a teatro a vedere dagli incredibili Shen Yun al Royal Ballet. Guardo quello che posso anche di contemporaneo.

A proposito di contemporaneo, ho in mente il prossimo film Polina, danser sa vie di Angelin Preljocaj [coreografo contemporaneo franco-albanese a Aix-en-Provence] che parla di una ballerina del Bol’šoj che abbandona tutto per andare al Pavillon Noir dopo aver visto la Blanche-Neige di Preljocaj e comincia una nuova vita di coreografa. Blanche-Neige è per lei un’illuminazione e un’ispirazione, che cosa ha illuminato e ispirato te?
Ho letto il libro di Colum McCann La sua danza, che è una biografia romanzata di Nureev. Il romanzo ritrae Nureev con la sua passione totale per il balletto, che in parte sentivo anch’io quando leggevo a 13 anni. Ho rivisto quell’aspetto caratteriale anche dentro di me, la voglia di apprendere, di ballare, di crescere a tutto tondo e a tutti i costi. Quel libro allora mi disse «Si può!», come spinta per continuare a lavorare il mio sogno di ballare. Ricordo ancora tante pagine come stampate nella mia mente, perché all’epoca lo continuavo a leggere. Da Nureev ho preso l’approccio di lavorare molto fuori dalle prove e dagli orari per cercare e ricercare sul mio corpo come farlo funzionare meglio. Mi dicevo «Se lo ha fatto lui, che è il più grande di tutti, a maggior ragione devo farlo io».

Domenico Giuseppe Muscianisi

Foto di Giovanni Miele (ritratto) e di Marco Brescia e Rudy Amisano del Teatro alla Scala (Des Grieux)

 

questa rubrica è a cura di Domenico G. Muscianisi e Chiara Di Paola

rubriche@arcipelagomilano.org



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