21 febbraio 2023

BEETHOVEN E NARCISO

Igor Levit bravissimo pianista ma non bravo musicista


rification (6)                                                  

Alla Società del Quartetto di Milano il 14 febbraio scorso un “bravissimo” pianista russo, cresciuto e formatosi ad Hannover ed oggi diventato berlinese, ha detto la sua sulle ultime tre Sonate di Beethoven, le specialissime opere 109, 110 e 111, il testamento spirituale del grande tedesco, scritto fra il 1820 e il 1822 quando aveva appena superato i 50 anni e ne avrebbe vissuti solo altri sette. Il suo primo testamento spirituale, quel drammatico documento che va sotto il nome di “Testamento di Heiligenstadt”, è del 1802, Ludwig aveva 32 anni ed aveva preso coscienza della sua definitiva condanna alla sordità. Questo, che vien da considerare il suo secondo testamento, ha quasi il significato di celebrare la vittoria sul suo handicap, come a volerci dimostrare che non ne è stato sconfitto, e che a distanza di trent’anni è ancora capace di inventare una musica diversa, una musica che lui, come nessun altro, aveva mai immaginato.

Queste tre Sonate sono una anticipazione – si badi bene, con oltre cent’anni di anticipo – dell’arte concettuale. Scompaiono o passano in secondo piano i lemmi della musica precedente: melodie, strutture armoniche, compressioni e distensioni, uso della tonica, della dominante e delle modulazioni con le relative rassicuranti risoluzioni, tutto questo e l’intero armamentario del classicismo viennese viene sottomesso alla ricerca di nuove sonorità con l’uso di sorprendenti fratture e proposizioni spiazzanti. Bisogna arrivare alla fine dell’ottocento o ai primi del secolo scorso per riannodare i fili questa ricerca e per abbandonare definitivamente tutto quello che Beethoven ha rinnegato in questo straordinario trittico delle sue ultime opere per pianoforte.

Dice Arrigo Quattrocchi, nel programma di sala di un concerto del 2003 a Roma, che le ultime Sonate ci portano all’estremo periodo creativo dell’autore, periodo «i cui frutti furono spesso giudicati dai contemporanei incomprensibili e ineseguibili, per l’astrusità del contenuto e le difficoltà tecniche; d’altra parte, lo stesso autore non concepiva più la Sonata per pianoforte in prospettiva della pubblica esecuzione, ma piuttosto per la lettura, per la meditazione privata. Non senza motivo le ultime Sonate e gli ultimi Quartetti sono stati pienamente compresi solamente nel nostro secolo; essi rappresentano l’espressione di un progressivo isolamento del compositore dalla sua epoca, per seguire le tracce di una fantasia e di una logica compositiva del tutto indipendenti dai meccanismi della contemporanea produzione e fruizione musicale».

Vi sarete chiesti perché ho messo tra virgolette, nella prima riga di questo pezzo, la parola bravissimo. La ragione è presto detta; al trentaseienne pianista russo-tedesco, professore alla Musikhochschule di Hannover, con una carriere prestigiosa alle spalle, non si può negare di essere bravissimo. Tecnica raffinatissima, sicurezza, precisione, suono, tutto in lui è perfetto. Ma basta? Basta in generale essere un bravissimo pianista per essere un buon musicista, un coscienzioso interprete, per affrontare temi così complessi come quelli posti dalle tre Sonate beethoveniane? Credo che proprio questo concerto di Levit, come per altro quelli arcinoti di Lang Lang e non solo, abbia dimostrato l’abisso che esiste fra la preparazione tecnica del pianista – e persino una propria, intrinseca eleganza del suono e del fraseggio – e la qualità del musicista che svela a sé stesso e al pubblico le profondità del pensiero musicale espressa dai grandi autori.

Sul concetto di interpretazione sono state scritte intere biblioteche, ma c’è un punto dirimente sul tema, ed è quello della fedeltà al testo. Ci sono molti modi di essere fedeli al testo, a partire da quelli più banali, che si limitano a rispettare con rigore tutte le (poche) indicazioni apposte dagli autori sul pentagramma, senza porsi ulteriori problemi (e credo che questa rinuncia a porseli sia una prima forma di tradimento al testo!), fino a quelli che intendono essere fedeli oltre che al testo alle intenzioni dell’autore, che scavano in profondità il perché di ogni sua scelta, nota per nota, facendo un grande lavoro di indagine sull’intero corpo delle sue opere, sugli aspetti della sua biografia che possono avere inciso su determinati passaggi, e soprattutto sul disegno  e sul senso complessivo dell’opera, dalla fase del suo concepimento a quella della rifinitura conclusiva.

Credo che proprio le ultime Sonate di Beethoven abbiano bisogno di uno sforzo immane di comprensione, di ogni nota e di ogni sequenza, di capire il perché di quelle fughe improvvise, di quelle tante variazioni introdotte apparentemente senza ragione, spesso senza dichiararle, della stessa organizzazione dei tempi che più nulla hanno a che fare con quelli della sonata classica. Come il miracolo di quella «Arietta», finale dell’opera 111 che usa, come unica indicazione agogica, l’espressione meravigliosa «Adagio molto semplice e cantabile» che sembra essere la pietra tombale sull’intero corpo delle 32 Sonate, pietra che Beethoven vuole sia lieve e dolce. Cosa vuol dire «semplice»? In che modo è diversa dal finale dell’opera 109, il cui Andante è indicato in modo molto più usuale come «molto cantabile ed espressivo»?  Siamo di fronte a messaggi complessissimi (oserei chiamarli esoterici, se non tradissi il mio incrollabile laicismo!) che vanno molto, molto al di là della esecuzione “perfetta e spensierata” di cui dicevo.

Tornando dunque al nostro bravissimo professor Levit, ci ha colpito – della sua “perfetta e spensierata” esecuzione – una forma esasperata di narcisismo; quella del pianista che usa la musica senza mettersene al servizio, utilizzandola al contrario per sfoggiare la propria bravura, a prescindere totalmente dai contenuti che vanno al di là delle (poche) obbligatorie indicazioni lasciate espressamente dall’autore. Ad esempio: il primo tempo dell’opera 109, con cui ha esordito, è indicato da Beethoven con un «Vivace ma non troppo» ed è interrotto da due brevissimi «Adagio espressivo», rispettivamente di 7 e di 8 battute, il tutto contenuto in un tempo complessivo di neanche 100 battute; mentre il tempo successivo è un «Prestissimo», molto breve anch’esso, di 177 battute. Questo rapidissimo susseguirsi di tempi tanto diversi, contrapposti e contraddittori, dovrebbero porci infinite domande e magari farci trovare qualche risposta: che non può essere, come è stata, una pirotecnica successione di tempi vorticosamente veloci (ma quel «ma non troppo» non significa nulla?) alternati ad altri provocatoriamente più che lenti («espressivo» non vuol dire lentissimo, ma che deve esprimere qualcosa di profondo, di non superficiale, e questo qualcosa non può che trovarsi nel confronto con le inquietudini che emergono dai tempi veloci, il Vivace e il Prestissimo ). Questo è solo uno dei tanti scrigni delle tre Sonate che bisogna aprire pazientemente e non limitarsi ad osservare dall’esterno, paghi della loro smagliante confezione.

Insomma, caro Levit, non basta più essere bravissimi, il mondo è cambiato e, più che lasciarsi incantare dalla abilità dell’esecutore, il pubblico vuole approfondire con lui i segreti delle grandi opere ed interpretarne il senso più profondo, specialmente se questo pubblico ha la storia e le tradizioni del Quartetto di Milano.

Paolo Viola



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