4 aprile 2023

UN BOUQUET VIENNESE

Un po' di sciovinismo magari non guasta


Copia di rification (10)

Per il secondo anno di seguito, dopo il buon esito di quello scorso, la stagione del Teatro alla Scala offre un breve ciclo denominato “Grandi pianisti alla Scala” al quale ha invitato, nell’ordine, Khatia Buniatishvili, Maurizio Pollini, Jan Lisiecki, Rudolf Buchbinder e Igor Levit. I primi tre hanno già tenuto i loro concerti, l’ultimo suonerà in ottobre, del quarto – che ha suonato domenica scorsa – vi dirò ora.

Premetto che trovo un po’ provinciale il fatto di considerare Pollini l’unico “grande pianista” italiano. Non credo di essere sciovinista nell’affermare che la Scala avrebbe il dovere di valorizzare i nostri tanti talenti, molti dei quali sono da considerare a tutti gli effetti “tra i maggiori interpreti del panorama pianistico internazionale” come recita il programma della stagione. Non li cito uno per uno ma basta mettere il naso fuori dalla porta, e magari uscire anche da Milano, e se ne scoprono non pochi, giovani e meno giovani. Ma tant’è, godiamoci quel che ci viene offerto, e l’altra sera, come dicevo, ci siamo goduti un magnifico concerto del settantaseienne pianista da tutti considerato austriaco, in realtà nato in un delizioso paese dei famosi Sudeti, fra Praga e Dresda, sull’Elba, e poi cresciuto musicalmente a Vienna.

Inizialmente il programma prevedeva Bach-Beethoven-Schubert ma per ragioni che non conosco all’ultim’ora Bach è stato sostituito con Mozart ed il programma ha così assunto una compattezza ed un’eleganza che altrimenti sarebbero mancate. La triade Mozart-Beethoven-Schubert – alla quale a dire il vero bisognerebbe aggiungere Haydn, ma qui parliamo di pianoforte, che non è stato lo strumento prediletto dal grande Maestro, che lo ha incontrato solo in età avanzata – è l’apice del classicismo, dell’inconfondibile prima scuola di Vienna (la seconda sarà quella di un secolo dopo, con Schönberg, Berg, Webern) e cioè di uno dei momenti più alti della storia della musica. Bach non è certamente meno “alto”, anzi, ma con il mondo viennese non c’entra nulla: ha vissuto mezzo secolo prima, in Turingia, in una atmosfera di religiosità (probabilmente suo malgrado) che nella Vienna aristocratica e illuminista di fine secolo non esisteva già più.

Tutto ciò premesso, Buchbinder – che è uno specialista di quell’epoca, di quella scuola e di quegli autori – è stato ancora più raffinato nella formulazione del programma creando un arco storico ed emotivo di particolare spessore e qualità.

Ha esordito con una meravigliosa chicca mozartiana, le 12 Variazioni sul tema della filastrocca francese per bambini “Ah, vous dirais-je, Maman” K. 265 nel solare do maggiore, del 1778. Amadé era a Parigi, ventiduenne, gli muore la madre (“la prima sventura che si abbatte su di lui” scrive Massimo Mila), odia con tutte le sue forze la capitale francese e vuole tornare a casa, e ciononostante riesce a scrivere questo piccolo capolavoro pieno di grazia e di poesia!

Subito dopo eccoci a Beethoven, con quella “Appassionata” scritta nel 1805, durante una lunga vacanza in Ungheria, in concomitanza con uno dei suoi più fervidi innamoramenti; aveva trentacinque anni ed era già afflitto da sordità grave (il testamento di Heiligenstadt è di tre anni prima). Delle 32 Sonate, l’opera 57 è forse la più celebre ed amata, totalmente immersa in un tragico fa minore che la pone quasi a manifesto della mitica drammaticità del compositore tedesco. (A proposito, conoscete la storiella che gli austriaci sono stati così abili da far credere al mondo intero che Hitler fosse tedesco e Beethoven austriaco?).

Per finire l’ultima Sonata per pianoforte di Schubert, la D. 960 in si bemolle maggiore – scritta il 26 settembre 1828, poche settimane prima di morire (aveva 31 anni!), ed eseguita in casa d’amici la sera dopo – l’opera che rappresenta finalmente la completa emancipazione del compositore dal suo adorato Beethoven, scomparso meno di due anni prima. Una colossale Sonata che si percepisce come conclusione di una lunga ricerca e come ribellione all’ottuso disinteresse del mondo musicale nei confronti dello sfortunato ed isolato compositore.

Un programma felicemente opposto a quei recital omnibus che inanellano pezzi di ogni genere ed epoca, senza un pensiero che li leghi, che servono solo a mostrare la disinvoltura degli esecutori nel passare da un mondo musicale a un altro, ma che finiscono per costringere gli ascoltatori a fare analoghi salti mortali e creano una grande confusione all’insegna della superficialità, sia dell’esecuzione che dell’ascolto.

Grazie, dunque, caro Buchbinder, prima di tutto per la qualità del programma e poi – ça va sans dire – per la qualità dell’esecuzione. A proposito della quale, però, dopo aver detto a chiare lettere che vi è da restare incantati dalla padronanza assoluta del testo e della tastiera, e soprattutto dalla profonda comprensione del significato di ciò che suona, devo rammaricarmi ancora una volta, perché persino quest’ultimo grande maestro dell’epoca d’oro della musica classica si è omologato alla tendenza di accelerare troppo i tempi veloci. Porto un esempio preciso: l’ultimo tempo dell’opera 57 beethoveniana è un “Allegro ma non troppo” e Buchbinder l’ha eseguito come fosse un “Allegro assai” o un “Presto” a tal punto che, giunto al vero “Presto” della Coda, non è riuscito a far percepire l’improvvisa accelerazione voluta da Beethoven.

Mi rendo conto di essere noioso e ripetitivo, ma i pianisti che “corrono” sono esattamente come quelle persone che parlano tanto in fretta da doverli pregare in continuazione di ripetere ciò che hanno appena detto. Qualcuno mi sa spiegare perché oggi questa nefasta abitudine è così diffusa da trascinare persino attempati e colti musicisti, che all’intelligenza dell’interpretazione hanno dedicato la loro intera vita?

Paolo Viola



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