18 aprile 2023

IL RACH FESTIVAL ALL’AUDITORIUM

Benvenuto Rachmaninov


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L’Orchestra Sinfonica di Milano (chissà perché le hanno cambiato il nome, era così affascinante il vecchio nome “laVerdi”!) ha avuto l’ottima idea di celebrare il 150° anniversario della nascita di Sergej Vasil’evič c(Novgorod 1º aprile 1873 – Beverly Hills, 28 marzo 1943) con l’integrale dei suoi quattro Concerti per pianoforte e orchestra. Li ha racchiusi in un ciclo che ha chiamato “Rach Festival”, spalmato in due settimane consecutive (due giovedì e due domeniche), affidandolo alla bacchetta del suo collaudato direttore Claus Peter Flor e al pianista ucraino (ma dal 2011 cittadino italiano) Alexander Romanowsky, ben noto alle cronache milanesi per aver suonato alla Scala, in Conservatorio per la Società del Quartetto, e in diverse altre occasioni (per MITO, al Castello Sforzesco, ecc.).

Non si capisce come Rachmaninov abbia potuto essere contemporaneamente un grande pianista, un grande direttore d’orchestra e un grande compositore; una storia pressocché unica, soprattutto se si pone mente alla sua vita tutt’altro che tranquilla, esule volontario e sofferente, ramingo di Paese in Paese, di città in città senza trovare pace, perennemente divorato dalla nostalgia della sua Russia, e spesso alle prese con problemi economici, familiari e di salute.

Giovedì scorso il ciclo è iniziato con il Concerto n. 1 in fa diesis minore op. 1 che ha una storia molto lunga: il primo tempo nasce come saggio scolastico nel 1890, quando Rachmaninov diciassettenne era ancora allievo del Conservatorio moscovita, ma la partitura fu completata solo nel 1899. Molto tempo dopo, nel 1917, ormai quarantaquattrenne, decide di rimettervi mano, ne modifica radicalmente il secondo e il terzo tempo, e ne rivede completamente l’orchestrazione. Quell’anno è un momento chiave della storia della Russia e della vita del compositore: fu l’anno della rivoluzione bolscevica e dei grandi disordini politico-sociali culminati nel fatidico ottobre, e fu anche l’anno in cui Sergej Vasil’evič suonò per l’ultima volta in concerto a Mosca (era il 26 febbraio) e in cui (il 23 dicembre) lasciò l’amato Paese, che non vedrà mai più, iniziando una peregrinazione – prima in Europa e poi negli Stati Uniti – che durerà 26 anni, fino alla sua scomparsa in California.

Nel programma di sala di un Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia del 2015, Enrico Girardi ricorda la seguente dichiarazione di Rachmaninov: «La musica deve esprimere il paese di nascita del compositore, i suoi amori, la sua religiosità, i libri che l’hanno influenzato, le pitture che ama; la somma delle sue esperienze». Ma il suo primo concerto per pianoforte e orchestra, l’unico che ho potuto ascoltare di questo ciclo, sembra negare clamorosamente quell’assunto; privo di qualsiasi riferimento alla musica russa, piuttosto già occhieggiante al mood americano, il suo virtuosismo funambolico è talmente straniante da diventare stucchevole. Si assiste al concerto con l’animo con cui si ascolta un candidato a un concorso pianistico per valutarne le capacità tecniche. Non sembra neppure essere uscito dalla penna del compositore che negli stessi anni – rispettivamente nel 1901 e nel 1909 (il quarto Concerto, meno noto, è del 1926) – scriveva i meravigliosi Concerti n.2 e n.3, molto amati dal pubblico fin dal loro primo apparire.

Vorrei poter plaudire l’esecuzione del trentanovenne Romanowsky, pianista dalla carriera originale (i concerti per strada durante il Covid, il recente concerto fra le macerie di Mariupol…) iniziata con la vittoria al Concorso Busoni nel 2001, a soli 17 anni, e sviluppata fra Russia e Italia. Ma in un’occasione come questa è stato molto difficile farsi un’idea delle sue qualità interpretative: ha una tecnica diabolica con la quale affronta – con sorprendente disinvoltura – la massa di note che si accalcano vertiginosamente nei tempi veloci del Concerto (Vivace il primo tempo e Allegro Vivace il terzo, ma anche l’Andante del secondo tempo non scherza quanto a difficoltà tecniche) senza sbagliarne una (o meglio sbagliandone veramente pochissime!). Peccato che abbia scelto due bis (Rachmaninov e Skriabin) ancora sostanzialmente virtuosistici.

Il concerto di Rachmaninov era preceduto da due pezzi che avremmo volentieri fatto a meno di ascoltare: una cattiva trascrizione per orchestra della “Petite Suite” di Debussy e la versione orchestrale di “Ma mère l’oye” di Ravel. Due brani che sono due capolavori quando vengono eseguiti nell’originale versione per pianoforte (nel caso di Ravel per pianoforte a quattro mani), ma di assai scarso interesse se eseguiti nelle versioni orchestrali. Che – inutile dirlo – benché contemporanei al suo Concerto, non hanno assolutamente nulla a che fare con l’opera del maestro russo. Appartengono a un mondo e a un’epoca – a dispetto del calendario – totalmente diversi. Poco da dire sulla direzione di Flor, che si è espresso ovviamente più con le esecuzioni delle musiche dei due francesi piuttosto che con quella con cui ha accompagnato il pianista. Di lui abbiamo già detto più volte e questo concerto non ci ha fatto cambiare idea.

Resta invece da sottolineare che suonare e dirigere i quattro concerti del grande Rachmaninov (grande anche fisicamente, visto che raggiungeva i due metri di altezza!) a distanza di 3-4 giorni uno dall’altro è un’impresa molto ammirevole, per non dire epica, e bisogna dare atto ai due protagonisti – e perché no anche e soprattutto all’orchestra – di essere musicisti generosi e coraggiosi. Chapeau.

Paolo Viola



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