23 aprile 2024

UN CONCERTO DA DIMENTICARE

Al Conservatorio per le Serate Musicali


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La ricordavo come un mito. Quando ho saputo del suo recital a Milano mi sono precipitato ad ascoltarla. Quanti concerti dal 1992 ad oggi, quasi ogni anno, da sola o in duo con un altro mostro sacro, la violoncellista Natal’ja Gutman! E sempre tutti entusiasmanti…

Ėliso Konstantinovna Virsaladze, 81 anni portati con molta disinvoltura, aveva tenuto a Milano l’ultimo concerto nel novembre del 2022, dedicandolo alla memoria di Marco Vallora, il critico d’arte e musicale torinese scomparso pochi giorni prima, e aveva suonato Beethoven e Schumann, il suo repertorio preferito. Lunedì scorso, 15 aprile, era al Conservatorio per le Serate Musicali, con un recital che prometteva emozioni a non finire. Ha suonato i 6 “Momenti Musicali” opera 84 di Schubert, poi la Sonata numero 1 opera 1 di Brahms, due pezzi di Liszt (da “Consolations” e da “Tre Studi da Concerto”), e ha concluso con la Sonata n. 7, la “Stalingrado”, di Prokof’ev.

Questa georgiana dall’aspetto un po’ legnoso, poco incline ai salamelecchi e poco sorridente, apparteneva alla schiera dei grandi pianisti, maestri e concertisti internazionali, che poco a poco stanno scomparendo e che sembra non vengano più sostituiti dalle nuove generazioni. È un mondo che ormai appartiene solo ai ricordi e che lascia intravvedere quel “declino dell’occidente” di cui non abbiamo voglia di parlare ma è quotidianamente sotto i nostri occhi.

Ascoltando la Virsaladze, l’altra sera, mi ha pervaso profondamente la sensazione di declino; più esattamente la sensazione che sia diventato molto difficile dire qualcosa di nuovo frugando nel repertorio della musica classica. L’abbiamo consumata tutta, ne abbiamo raschiato il fondo, non siamo più in grado di farvi germogliare la poesia o trovarvi l’anima dell’universo che vi vedeva Hegel. La  lettura della Virsaladze è stata fredda, meccanica, priva di anima e di poesia. Un po’ più espressiva in Schubert, che ha ripreso abbastanza felicemente nel bis, ma del tutto “tecnica” in Brahms e in Prokof’ev. 

La sua freddezza mi ha colpito soprattutto nella sonata di Brahms, che è stata una delle prime opere che fecero scrivere a Schumann, sul suo “Neue Zeitschrift für Musik” di Lipsia, quel famoso articolo del 23 ottobre del 1853: «…io pensavo che un giorno sarebbe apparso, improvvisamente, qualcuno chiamato a render palese in modo ideale la più alta espressione del tempo, qualcuno che ci avrebbe apportato la perfezione magistrale non attraverso uno sviluppo graduale del suo ingegno, ma di colpo, come Minerva, quando uscì interamente armata dal capo di Cronide. 

Ed è venuto questo giovine sangue, alla culla del quale hanno vegliato Grazie ed Eroi. Si chiama Johannes Brahms…». Mentre la Virsaladze ci inondava di note prive di pathos e di empatia nei confronti dell’autore, mi domandavo come sarà stata l’esecuzione del ventenne Brahms davanti a Schumann, che ne aveva già quarantatré e che era giustamente ritenuto un grande Maestro.

L’aridità di cui ho detto si è manifestata anche nella Sonata di Prokof’ev, detta la Leningrado, indicata da molti come il suo capolavoro pianistico, dove sono concentrati i caratteri salienti della sua musica, vale a dire i potenti contrasti fra la violenza ritmica-percussiva e la sensualità melodica quasi romantica. Poulenc definiva il pianismo di Prokof’ev fatto ad «immagine della sua mano lunga e muscolosa, del polso d’acciaio, fatto per lo staccato e per i grandi accordi volanti» da cui derivava quello stile percussivo ed esuberante, quella sonorità asciutta e tagliente (in flaminioonline.it)      

La Sonata n. 7, una delle pagine più eseguite di Prokof’ev, insieme alla n. 6 e alla n. 8 fa parte del trittico delle Sonate cosiddette “di guerra”, che per la loro intensità e per il periodo di composizione sono state lette come un resoconto dei terribili avvenimenti dell’epoca. Il movimento finale, che l’autore indica con “Precipitato”, è una sorta di aggressivo moto perpetuo nel singolarissimo ritmo di 7/8. L’ irregolarità della battuta, e la ripetizione ossessiva del modulo ritmico, sono la principale attrattiva di questa pagina estremamente impegnative per un pianista. L’esecuzione della nostra concertista è stata impeccabile dal punto di vista tecnico, ma del racconto e dell’angoscia dell’autore era scomparsa ogni traccia, come si fosse trattato di un puro esercizio per mettere alla prova e dimostrare la padronanza della tastiera.

Come dicevo è andato tutto un po’ meglio in Schubert, in cui la Virsaladze si è mostrata più a suo agio e si è lasciata quasi (direi … inevitabilmente!) trascinare dalla sua melodicità.

Resta da domandarsi cosa stia accadendo, dove risieda la difficoltà di ritrovare lo spirito del tempo cui appartengono i capolavori della musica classica; sembra quasi che nei confronti della musica, come accade peraltro per altre arti, sia in corso un processo più o meno consapevole di “adeguamento” alla sensibilità contemporanea e giovanile, con una specie di pudore verso il sentire di altre epoche. Un esempio evidente di questo processo è l’accelerazione delle esecuzioni, l’improvvida abitudine di andare sempre più veloci. Nel caso della Virsaladze questa attitudine non si è espressa attraverso la velocità ma con una evidente ed esibita asciuttezza. Sarà questa la corretta chiave di lettura?

Paolo Viola 

 



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