26 aprile 2020

I MOLTI ASPETTI DELLA RIPARTENZA

Un percorso accidentato ma praticabile


Il Covid-19 ci mette di fronte ad una serie di problemi che conoscevamo da tempo ma oggi la loro soluzione non può essere più rimandata. I tempi saranno lunghi ma non posiamo lasciar irrisolti i nodi di un territorio che nel bene e nel male nel suo insieme condiziona il futuro dell’intero Paese.

Foto di Elisa Tremolada

Foto di Elisa Tremolada

Caro Direttore, in risposta alla tua sollecitazione ho riflettuto sui temi che proponi nella prospettiva del dopo epidemia: la sanità lombarda, l’organizzazione del territorio, l’ambiente, il Modello Milano. Chiedi infine: “Come dovrebbe allora ripartire Milano? Con quali obbiettivi? A quali errori del passato si deve rimediare?”.

Per ogni idea che, a fatica, prendeva corpo, mi chiedevo: ma si potrà mai concretamente attuare? Il Paese si sta apprestando a incrementare in modo rilevante il suo già enorme debito pubblico per adeguare il sistema sanitario, sostenere il reddito delle famiglie e aiutare le attività produttive. Se si dovesse dar retta all’opposizione l’incremento del debito sarebbe senza limiti. Questi investimenti dovrebbero servire a riattivare un sistema Paese che presentava già punti deboli a partire dalle differenze di reddito, dai bassi livelli occupazionali, dalla presenza “organica” del lavoro nero – rivelatasi con l’epidemia un punto fragilissimo del Paese -, dall’evasione fiscale, dallo scarso finanziamento della ricerca scientifica (il più basso d’Europa).

Ci sarà bisogno di riforme che avranno costi politici e di interventi pubblici che avranno alti costi economici. In futuro l’amministrazione pubblica, e in particolare i comuni, esauriti gli interventi contingenti, finanziati dai provvedimenti straordinari e dall’Europa avranno, a regime, più problemi e meno risorse. Analoga condizione si prospetta per Milano. Da parte mia non ho certezze sul che fare e sento l’esigenza di vagliare qualsiasi idea all’esame di esperti e di confrontarle con altri.

Propongo quindi ad ArcipelagoMilano di raccogliere contributi di idee, farne una sorta di proposta programmatica per Milano e di sottoporla al dibattito degli esperti e dei lettori.

Ecco i miei punti di riflessione, non sistematici, in risposta alla tua sollecitazione.

L’Italia non è peggio degli altri Stati

Sospendo ogni valutazione sulla gestione sanitaria dell’epidemia. Vedremo alla fine, sulla base di dati certi, le valutazioni degli esperti sui sistemi sanitari delle diverse nazioni; sugli errori e i comportamenti virtuosi; ma soprattutto sulle debolezze dei sistemi sanitari, nazionale, regionali e in particolare della Lombardia.

Stupisce comunque il comportamento in generale delle diverse nazioni: nessuna evidentemente aveva un piano di prevenzione delle epidemie; tutte sono state prese alla sprovvista. Non solo: nessun governo, dall’Europa, agli Stati Uniti, all’Australia, ha preso atto di cosa stesse succedendo agli altri paesi, fino a che non sono stati costretti a muoversi dal crescere esponenziale dei decessi.

Eppure le epidemie sono sempre esistite. Gli scienziati prospettavano i rischi di epidemie particolarmente pericolose e prevedevano che la velocità di diffusione sarebbe stata elevata a causa della crescita esponenziale degli scambi internazionali. Ma nel mondo sviluppato le epidemie mortali sono state considerate un problema dei paesi sottosviluppati di cui si dovevano occupare l’OMS e le organizzazioni umanitarie.

L’imprevidenza, ovvero le visioni politiche di corto respiro, la scarsa considerazione del sapere scientifico, hanno accomunato tutti, democrazie liberali e regimi autoritari; le risposte all’emergenza sono state invece differenti e vedremo chi ha meglio operato. Come prepararsi per le future epidemie dovrebbe essere un tema internazionale, quanto meno europeo; ma a giudicare dai comportamenti correnti non c’è molto da sperare.

La Lombardia e il sistema sanitario

Perché il contagio si è diffuso di più in Lombardia rispetto alle altre regioni lo diranno, alla fine, gli esperti (a oggi 0,557 contagi per abitante in Lombardia contro la media nazionale di 0,244) Da pianificatore del territorio segnalo alcuni dati che potrebbero, seppure in piccola parte, spiegare la maggiore diffusione del virus in Lombardia1. In Italia il 48,6 % della popolazione esce quotidianamente dall’abitazione per ragioni di lavoro o studio; in Lombardia il 54%. Ma soprattutto in Lombardia il 53% dei pendolari esce quotidianamente dal proprio comune di residenza contro una media nazionale del 39%. E ancora in Lombardia l’8,6 % usa il mezzo pubblico che costringe alla prossimità sociale, contro il 4,7% della media nazionale.

Nella parte densamente urbanizzata della regione che comprende la città metropolitana di Milano, la Brianza e le parti di intensa urbanizzazione delle province di Varese, Como, Bergamo e Brescia, con più di 6,5 milioni di abitanti (sui 10 della regione), tali percentuali crescono ulteriormente (vedi la carta dei flussi pendolari del Piano territoriale regionale). Dunque l’intensità degli scambi tra comunità territoriali di base, in Lombardia è molto maggiore che nel resto del Paese.

Anche la mortalità in Lombardia è superiore alle altre regioni e agli altri Stati (i deceduti sui contagiati rilevati sono il 18,2 % in Lombardia contro il 12,7% della media nazionale; l’indice di letalità ovvero i deceduti sulla popolazione totale è dello 0,1 % in Lombardia contro lo 0,03% della media nazionale). Anche questo dato dovrà essere confermato sulla base di statistiche omogenee e vagliato dagli esperti che dovranno valutare come ha risposto il sistema sanitario regionale.

Mi chiedo solo se il rischio di epidemie non fosse previsto; in effetti la regione Lombardia aveva, sin dal 2009, un Piano Pandemico Regionale. Da informazioni di stampa sembra che tale piano non sia stato implementato e quindi non sia stato in grado di contenere la diffusione del Covid-19 a causa della riforma regionale che ha spostato le risorse e le competenze dai presidi territoriali (ASL) ai grandi ospedali (pubblici e privati). D’altra parte la concentrazione degli ospedali, con la chiusura di quelli più piccoli, rispondeva a criteri di ottimizzazione dei livelli di prestazione e di riduzione della spesa.

In un mio articolo di critica alla pessima riforma delle Province sostenevo che le regioni avrebbero dovuto programmare e legiferare e le province gestire; anche la sanità. La competenza provinciale avrebbe comportato un sistema sanitario più vicino al territorio. Insomma si dovrà ripensare all’organizzazione della sanità sul territorio, anche per prevenire prossime epidemie, individuando i potenziali focolai e dotare la regione di un piano di intervento per l’emergenza che coinvolga i comuni e integri i piani per la protezione civile.

Il “Modello Milano”: che fare dopo l’epidemia

Per dire se dopo l’epidemia dovrà essere superato il “Modello Milano” bisogna intendersi su che cosa sia il modello Milano, perché non è chiaro, di là dalla locuzione retorica. Milano ha visto una fase di sviluppo intenso e anomalo rispetto al Paese. Tale sviluppo è stato l’esito dell’azione delle forze produttive e finanziarie, a scala globale, della poliedrica organizzazione della società milanese e infine dell’azione dell’amministrazione pubblica. A Milano sono cresciuti la popolazione per immigrazione di giovani, i posti di lavoro, il numero di studenti universitari, il terziario avanzato e le sedi di imprese internazionali, le sedi e le attività culturali; il riuso di parti di città obsolete. A questo sviluppo l’area metropolitana non ha sostanzialmente partecipato e Milano non ha svolto il suo ruolo di capoluogo.

Certo è che il modello neo liberista mondiale che porta a forti squilibri nella distribuzione del reddito e all’esclusione sociale di parte della popolazione, coinvolge anche l’isola milanese: povertà e marginalità sono presenti anche a Milano. Non so dare un giudizio sull’efficacia dell’intervento del nostro Comune per contrastare tale deriva. Del resto su alcuni aspetti del welfare il Comune ha capacità di intervento con l’assistenza sociale, i servizi di base, le case popolari, ecc. Su altri aspetti, come l’offerta di lavoro, che a mio avviso resta il nodo centrale della condizione sociale, il Comune ha una capacità di intervento molto limitata, centrata più sul sostegno all’innovazione che all’offerta di massa.

Comunque va messo in conto che quando torneremo a regime dopo l’epidemia e dovremo ripagare il nuovo ingente debito che si assomma a quello immenso pregresso, le risorse dei comuni si ridurranno drasticamente.

Dunque non saprei giudicare il “Modello Milano” e come superarlo, però potrei azzardare qualche suggerimento alla maggioranza che lo governa su che azioni politiche intraprendere per i prossimi mesi:

Cominciare da subito a organizzare la fase 2 della gestione epidemica per la ripresa progressiva delle attività, discutendola con la città; far valere il peso politico di Milano proponendo un programma comune delle grandi città europee (generalmente governate da non sovranisti) perché l’Unione Europea intervenga per contrastare la recessione; elaborare una proposta di riforme istituzionali necessarie per la ripresa, a partire da una legge speciale per la Città metropolitana di Milano; cominciare a discutere con la città il programma amministrativo per le ormai prossime scadenze elettorali, alla luce della nuova situazione del Paese.

Impiegare il tempo “fermo” per progettare la città

In merito al “vaste programme2 proposto, proverò a dare qualche spunto, per quanto è di mia competenza. Prima dell’epidemia le prospettive di investimento immobiliare a Milano erano rilevanti. Il dibattito politico e culturale riguardava lo sviluppo edilizio: se sostenerne appieno la spinta o contenerlo perché incompatibile con l’ambiente e con le regole di trasformazione della città. E ancora che quota della rendita urbana, realizzata dalle iniziative immobiliari, riservare all’interesse pubblico e come utilizzare tale quota. Come fare dello sviluppo una risorsa per migliorare anche le condizioni ambientali della città, etc…

Ora ci si chiede se le previsioni del PGT siano ancora realistiche. Se, superata l’emergenza, (ovvero quando la popolazione mondiale sarà stata vaccinata contro il Covid-19 e gli Stati saranno in grado di scoprire e prevenire nuove potenziali epidemie) si ripristinerà il livello di attività precedente e quindi se tornerà agli stessi livelli la domanda di abitazioni, luoghi di lavoro e studio, di strutture ricettive… Se si attueranno i progetti di recupero degli scali ferroviari, o se resteranno vuoti ancora per anni. Se riprenderà l’operazione San Siro, o resterà ferma fino a quando gli stadi torneranno a riempirsi. Se bisognerà ridurre drasticamente l’affollamento dei mezzi pubblici riducendone la capacità di trasporto. Qual è il parere degli operatori economici rispetto alle prospettive della città? A giudicare dalle oscillazioni della borsa gli operatori economici fanno previsioni solo per il giorno dopo.

È comunque ragionevole pensare che il blocco o il forte rallentamento durerà per molti mesi, cioè fino alla vaccinazione di massa (e all’arresto o comunque al lockdown dei “no vax”). E dunque che fare in attesa della “normalità sanitaria”? Le decisioni sui grandi progetti, presentati dagli operatori privati, sono state assunte sotto la spinta di un mercato incombente. Ora che c’è una pausa forzata il mio suggerimento all’Amministrazione comunale è riassunto in tre punti.

1. “Pianificare e progettare”. Utilizzare questo tempo per ridare all’amministrazione il ruolo di progettista della città. Impegnare gli uffici tecnici a sviluppare l’analisi critica dei progetti presentati per i grandi interventi, gli scali ferroviari, le aree per le Grandi Funzioni Urbane, partendo dalle esigenze sociali espresse dalla città e dalle relazioni con il contesto urbano, senza condizionamenti sulle quantità edilizie fondate su un mercato incerto. Rivedere le coerenze o incoerenze tra la pianificazione della città e dei comuni confinanti, etc… E infine coinvolgere la città nella discussione. Non dimentichiamo infine che nel 2026 Milano ospiterà le Olimpiadi invernali.

2. Con la Città metropolitana. Verificare la coerenza tra PGT e il nuovo Piano territoriale metropolitano. Recuperare ritardi e mancanze nella pianificazione attuativa del Parco Sud. Progettare in concreto la rete verde (il milione di alberi promessi!) e blu (la rete di fiumi, canali e bacini idrici). Sviluppare in collaborazione tra Comune e Città Metropolitana, progetti di intervento pubblico ad alto valore ambientale, ma anche a grande intensità di lavoro e, perché no, un piano metropolitano per l’edilizia pubblica. Programmi finanziabili con fondi europei, non appena saranno chiare le modalità di accesso.

3. Anticipare. Chiedere ai promotori dei grandi interventi di iniziare, non appena la fase due della gestione epidemica lo consentirà, con demolizioni, bonifiche dei suoli e attuazione del verde; pensare agli usi provvisori di tali aree e chiedere che l’Europa finanzi operazioni di predisposizione delle aree per la loro rigenerazione.

Insomma dare il messaggio che la città non è travolta dall’emergenza; si ferma per quanto è necessario, ma pensa già al futuro.

Note a lato: la riforma della burocrazia

Una riforma a costo economico zero ma a costo politico elevato, da decenni invocata e mai risolta. Le catastrofi impongono decisioni rapide che il sistema istituzionale e politico normale non è in grado di assumere. Il nuovo Ponte di Genova (non più Morandi, ma Piano) sarà terminato fra poche settimane e sarà stato realizzato in pochi mesi dal Commissariato (Sindaco di Genova e presidente della Regione) con poteri speciali. I nuovi “ospedali Covid-19” ricavati dai locali delle fiere di Milano e Bergamo sono stati realizzati in regime di commissariamento straordinario, in pochi giorni. Con le procedure normali che dovrebbero garantire trasparenza, concorrenza, rispetto del paesaggio e dell’ambiente, consenso sociale, per realizzare queste opere ci sarebbero voluti anni.

Ora i provvedimenti economici del governo per sostenere le imprese e le famiglie colpite dal lockdown dovrebbero avere efficacia immediata. La burocrazia è dunque ancora una volta messa alla prova ed è già sotto accusa. L’apparato amministrativo, spregiativamente detto “burocrazia”, più che una casta è una classe: ha potere e interessi propri; incide sul sistema economico e sociale e, nella parte migliore, esprime anche valori in termini di interesse pubblico. Anche per questo non è facile riformarla. Ogni passaggio burocratico ha, in teoria, come fine l’interesse pubblico, ma lo stratificarsi dei processi genera un esito contrario all’interesse collettivo preminente.

La burocrazia del resto è organizzata e agisce sulla base della legge. Dunque la responsabilità finale di ricondurre l’azione della burocrazia all’interesse collettivo sta al legislatore che deve ripensare a fondo quale sia l’interesse collettivo preminente. Rapidità di esecuzione, trasparenza e valutazione di impatto: questi sono i termini contraddittori entro i quali il legislatore dovrà decidere dove sta l’interesse collettivo preminente.

Che criteri adottare? Per esempio: ridurre i campi di controllo dello Stato e ridefinire le priorità per l’interesse pubblico, priorità che mutano nel tempo: quasi mai l’interesse pubblico preminente stabilito cinquant’anni fa è lo stesso di oggi. Sostituire le autorizzazioni preventive con controlli a campione (sulla base degli interessi preminenti). Introdurre il “tempo” come parametro determinante e legittimante del processo decisionale, qualificare e potenziare gli apparati tecnici.

Riforma della burocrazia significa dunque riorganizzare l’abnorme apparato legislativo accumulatosi nei settanta anni di vita della Repubblica e nei cinquanta anni di attività legislativa delle regioni; una riforma di tale portata non può essere realizzata da un governo o da una maggioranza transitoria.

Quando si discuteva di riforma del Parlamento in occasione del referendum per la riforma costituzionale del 2016, proponevo che il Senato, senza vincoli di maggioranza e di fiducia al governo, avesse il compito di riformare l’intero corpo legislativo: un compito da svolgere in un arco temporale lungo, svincolato da scadenze programmatiche.

Dopo il fallimento del referendum costituzionale da più parti si chiede di riprendere la discussione sulla struttura istituzionale della Nazione, a partire dalla divisione dei poteri tra stato e regioni, rimessa in discussione dall’emergenza Covid-19. D’altra parte l’emergenza sanitaria ed economica costringe le forze politiche a concentrarsi sul che fare giorno per giorno. Si dice che dopo l’emergenza Covid-19 tutto sarà diverso. Vedremo.

Ugo Targetti

Lombardia – Piano territoriale regionale Flussi pendolari intercomunali

Lombardia – Piano territoriale regionale Flussi pendolari intercomunali

1Sono dati ricavati da “Gli spostamenti quotidiani per motivi di studio o di lavoro” – indagine ISTAT 2014 – Censimento 2011

2 La leggenda narra che durante un comizio o una parata, un cittadino abbia urlato all’indirizzo di Charles De Gaulle «Mort aux cons!», ovvero «Morte ai cretini!». Al che il Generale avrebbe risposto, imperturbabile, «Vaste programme…»

 



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  1. Francesco MolinariNessun commento è possibile. Il programma è necessariamente vasto. Non sembra di vedere forze rivoluzionarie sul terreno, almeno per ora. Pensiamo a riforme con mezzi pacifici? Sì, ma devono essere riforme radicali, riforme ... rivoluzionarie.
    4 maggio 2020 • 05:48Rispondi
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