6 febbraio 2024

I CONTI COL FASCISMO

Un problema da risolvere per tutta la sinistra


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La destra al governo e i più recenti episodi di apologia fascista riportano d’attualità una vecchia e irrisolta questione, i conti col fascismo. La discussione, pur faticando ad elevarsi al di sopra del grado zero, almeno nell’ambito strettamente politico, aleggia come un’ombra. C’è ancora chi impreca sull’amnistia di Togliatti o chi, più raffinato, si rammarica del mancato lavacro invocato da Concetto Marchesi.

Immancabile, ma anche a questo proposito non si va troppo per il sottile, il confronto con l’esperienza tedesca dove la questione, forse in maniera tardiva, è stata pur tuttavia sistemata una volta per tutte. In Italia invece, nonostante una guerra civile che per certi versi è proseguita anche dopo il 25 aprile, la questione del fascismo è rimasta in sospeso, derubricata nel campo della morale o al più della giurisprudenza.

È innegabile che in Germania, a prescindere dal periodico riemergere di gruppi neonazisti, la condanna del nazionalsocialismo sia entrata nelle coscienze in maniera più profonda. Va però detto che, anche se può sembrare irrealistico, in Italia le condizioni per regolare i conti col fascismo, sul piano ideologico, teorico e della coscienza collettiva, sono sempre state e sono più complicate che non in Germania.

Le difficoltà non vanno addebitate solo all’efferatezza del nazismo, ma in buona parte all’esistenza del cosiddetto fascismo di sinistra, o fascismo sociale, e alla mancata realizzazione della seconda rivoluzione. Si tratta di una questione mai stata presa in seria considerazione dai partiti di sinistra, con gravi effetti ottici distorsivi, in particolare rispetto alla questione sociale, che a un certo punto hanno preteso fosse una faccenda di loro esclusiva pertinenza. Oggi poi, soprattutto a causa dei pastrocchi liberisti e clientelari del governo stesso, si rischia addirittura di considerare la questione irrilevante o di considerarla già risolta di per sé[1].

Ritenendosi coperte sul terreno dello stato sociale, le sinistre si sono per così dire rilassate e, proprio quando la crisi del capitalismo globale si è scaricata pesantemente sui ceti popolari, si sono ritrovate separate dal proprio popolo. Mentre i ceti medi andavano a ingrossare a dismisura le fila del nuovo proletariato post-industriale, a sinistra abbiamo dovuto prendere atto che sì ci eravamo sì specializzati a battagliare su terreni a noi tradizionalmente poco famigliari, ma che avevamo abbandonato il campo principale.

I segnali, non solo elettorali, che quel campo lo stava occupando l’avversario erano sempre più numerosi e dolorosi, ma ormai era quasi impossibile tornare indietro. Così ci si è fermati all’enunciazione dell’epifenomeno più vistoso o allo stigma ripetitivo dell’avversario: la questione delle periferie, dove all’enunciato sono per lo più seguite iniziative strumentali e ridicole o il populismo, come se definizioni, inappuntabili dal punto di vista politologico, fossero  ontologicamente dotate di efficacia politica.

Si badi, il problema della seconda fase della rivoluzione si era presentato anche in Germania, anzi lì era stato posto in maniera ancora più cruciale dal momento che i nazisti non avevano né un re né un imperatore cui dovessero render conto, ma era stato presto risolto in maniera radicale nella Notte dei lunghi coltelli.

In Italia, invece, l’equivoco, o l’inadeguatezza dell’analisi, sulla vera natura del fascismo si è trascinato a lungo, condizionato fin dall’inizio da tutta la discussione sul corporativismo che, non va dimenticato, aveva ripreso vigore e consenso, come via nazionale alla soluzione della questione sociale, presso il mondo cattolico dopo la promulgazione dell’enciclica Quadragesimo anno del 1931 e, qualche anno più tardi, con gli apprezzamenti che le misure economiche adottate dal fascismo ricevevano dagli Stati Uniti del New Deal.

Le difficoltà della sinistra nel fronteggiare la destra sul terreno dello stato sociale vengono dunque da lontano e sono strettamente correlate al periodico riaffiorare di una questione nazionale, specialmente in occasione di crisi economiche globali. Tratteggiando la mentalità europea durante il periodo della grande depressione di fine Ottocento, Schumpeter sosteneva addirittura la complementarietà tra lo spirito della riforma sociale e le tendenze imperialistiche: “L’epoca non si comprende finché non si tien conto di coloro per i quali l’autoesaltazione nazionale e la Sozialpolitik non furono che due facce della stessa medaglia”[2].

Per un periodo abbastanza lungo, alle naturali difficoltà, da parte della sinistra, di conciliare l’internazionalismo con la riforma sociale su base nazionale[3] si aggiungeva, anche se in realtà il problema era il medesimo considerato da un altro punto di vista, il persistere di un’ideologia rivoluzionaria che, in coerenza con le ideologie crolliste, induceva a vedere nella crisi economica l’occasione per il ribaltamento degli assetti sociali, più che un’opportunità per correggere in senso riformistico le istituzioni capitalistiche.

Sintomi e esiti di questa impasse di carattere ideologico, una crisi di governamentalità nel linguaggio di Foucault[4], furono alcuni avvenimenti che si vennero a determinare a livello internazionale e nazionale.

Sul piano internazionale la teoria del Socialismo in un paese solo, adottata da Stalin a partire dal ’24, spiazzava i partiti comunisti e socialisti, per quanto soprattutto i primi non si azzardassero a lamentarsene, mentre sul piano interno l’Appello ai fratelli in camicia nera del ’36, “una coglioneria” come l’avrebbe definito di lì a poco lo stesso Togliatti che l’aveva sottoscritto di malavoglia, con l’invito a far fronte comune contro i “pescicani capitalisti” e soprattutto con la dichiarazione che “i comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919”, avrebbe gravato oscuramente sulle possibilità per il Partito Comunista di regolare i conti col fascismo sul piano ideologico.

In aggiunta a tutto questo bisogna infine considerare che, col superamento della diarchia e con la nascita della Repubblica Sociale, lo stato corporativo cominciava a prendere forma, quantomeno sotto il profilo del disegno giuridico e istituzionale. Ma c’è di più, l’antipartitismo presente tra alcune forze del CLN spingeva alcuni a considerare in maniera non del tutto negativa le nuove forme di rappresentanza o di democrazia diretta che la Repubblica Sociale veniva istituendo, condizionandone la compiuta comprensione politica.

Al punto che, pur tra molti contrasti e contravvenendo al principio della defascistizzazione dello stato, dopo il 25 aprile si procedette al salvataggio dei Consigli di Gestione, uno dei principali istituti del corporativismo di Salò. Vero è che questi avrebbero avuto vita breve e che non sarebbe mai riuscito l’auspicato compimento istituzionale del combinato disposto tra i Consigli di Gestione e il Cnel, perché quest’ultimo avrebbe visto la luce quando ormai dei Consigli era sparita ogni traccia, ma il fallimento dell’esperimento difficilmente avrebbe potuto essere considerato una vittoria per la sinistra[5].

Vero è anche che il Partito Comunista e Togliatti in particolare hanno sempre privilegiato di gran lunga il ruolo del partito e dei partiti nel governo, a differenza, per esempio, dal Partito d’Azione più orientato verso una linea di complessità istituzionale svincolata dai maneggi della partitocrazia, ma resta il fatto che le difficoltà ad affrontare in maniera convincente la questione del fascismo erano diventate quasi insuperabili, soprattutto per un Partito avvezzo a ponderare col metro della storia ogni risoluzione e finanche ogni singola parola detta o scritta e per una politica che nel suo insieme necessariamente era orientata alla semplificazione binaria[6].

Repubblica o Monarchia, Parlamentarismo o Presidenzialismo, Stati Uniti o Unione Sovietica, queste e di questo tenore erano le alternative che la politica nazionale e l’Italia del dopoguerra si trovavano ad affrontare. Per tutti era ormai riscoccata l’ora delle scelte di campo. La situazione internazionale, l’Europa e l’Italia stavano diventando oggettivamente manichee e non c’era tempo per le sottigliezze interpretative.

Il fatto però è che anche dopo, a ricostruzione avvenuta e a stabilità acquisita, il tempo sarebbe stato fuori squadra, vuoi per le sopraggiunte urgenze della battaglia politica, vuoi perché la compromissione col fascismo della cattedra di alcuni statisti di alto rango sconsigliava il riportare d’attualità la questione, vuoi perché il fascismo pareva stigmatizzato abbastanza. Più avanti lo stragismo e il terrorismo di destra avrebbero resa del tutto anacronistica una riedizione del dibattito sulla Terza via. I fascisti restavano in ogni caso fuori dall’arco costituzionale e tanto poteva bastare.

La questione sarebbe invece tornata d’attualità, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, seppur con una piega tutta interna al capitalismo, venendosi, per così dire, costituzionalizzando per opera di autori di area democratica e liberale. Così anche l’opzione della Terza via sembrava definitivamente sottratta alla destra corporativa e diventava una faccenda di un certo interesse per una sinistra alla ricerca di un marchio rinnovato. Ma i conti col fascismo non erano per niente regolati, anche se la violenza, le leggi razziali e la guerra restavano argomenti validi per mettere drasticamente fine alle discussioni ogniqualvolta sarebbe stato necessario.

Per renderci conto che la semplificatoria stigmatizzazione dei fascisti come i cattivi della storia non era sufficiente abbiamo dovuto così aspettare che arrivassero al governo, quando ormai tutto era troppo complicato, troppa acqua era passata sotto i ponti e la sinistra era diventata troppo pigra e scoraggiata per rimettere mano a una questione così ispessita. Col tempo purtroppo diventerà tutto ancora più complicato, soprattutto se sarà la destra al potere, nel contesto della crisi che sta vivendo l’Europa ordoliberale, a riportare all’ordine del giorno la questione sociale e la politica dei corpi intermedi e se la sinistra non sarà in grado di proporre una nuova versione del Welfare State come criterio di legittimazione dello stato moderno.

Mario De Gaspari

[1]  Vedremo se le prossime elezioni europee, magari con la configurazione di un nuovo assetto politico, non presenteranno un conto salato a quel che resta delle forze di sinistra.

[2] J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Vol.III, Edizioni Scientifiche Einaudi, 1960.

[3] Si ricordi che la risposta, tardiva e in clamoroso contrasto con lo spirito del tempo, al connubio tra Riforma sociale e Questione nazionale, fu la strutturazione rigidamente centralistica della Terza Internazionale che nel Congresso dell’agosto 1920 imponeva ai partiti aderenti di assumere la comune denominazione di Partito Comunista (di questo o quel paese), Sezione dell’Internazionale Comunista.

[4] M.Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2005.

[5] A questo proposito ricordo che, ancora durante le lotte contrattuali dei primi anni Settanta, non era raro ascoltare il richiamo ai Consigli di Gestione quando la discussione scivolava sul ruolo che avrebbero potuto assumere i neonati Consigli di Fabbrica in alternativa alle obsolete Commissioni Interne.

[6]  Per chi desiderasse immergersi nello spirito del tempo suggerirei la lettura di Un partito non stalinista, Marsilio, 2004, di Bruno Grieco, figlio di Ruggero.



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