5 marzo 2024

LA FASHION WEEK E L’IDENTITÀ DI MILANO

Lusso e affari contro lavoro e casa: che tipo di città vogliamo in futuro?


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Dovrei sentirmi un pessimo frequentatore della mia città, dal momento che non mi sono accorto che una settimana fa Milano celebrava la sua fashion week. Non me ne sono accorto e non tanto perché nessuno stilista (si dice ancora così o torniamo al popolare e consacrato “sarto”?) si è mai sognato di invitarmi alle sue sfilate, ma anche perché, malgrado il mio occhio sia allenato, non ho notato poderose folle transeunti da una sfilata all’altra e neppure manipoli di affannate modelle.

Forse pioveva e la pioggia occulta, nasconde: tutti corrono al riparo. Forse di “week” ce ne sono troppe, tra vestiti, motociclette, mobili e affini, persino libri e ogni volta il chiasso è eccessivo, il trionfalismo è stucchevole (e suona falso), e quanto si può leggere è roba da ufficio stampa guidato da ufficio pubblicità, seguendo la via maestra del “più” di fronte ad ogni numero: con il “fashion” crescono i visitatori italiani, crescono quelli stranieri, aumentano gli incassi, lo shopping va che è una meraviglia, il buyer d’oltreconfine (si chiamerebbe semplicemente: acquirente) è entusiasta.

I numeri tengono testa agli entusiasmi: sessanta milioni di indotto, sessantamila visitatori italiani, cinquantamila stranieri, ciascuno dei quali avrebbe speso per il suo soggiorno milanese in media  1394 euro, non uno di più non uno di meno. Neppure tanto per un soggiorno come si deve a Milano, 1394 euro suddivisi tra ristoratori, tassisti, negozianti in genere e affittacamere da airbnb.

Verrebbe da chiedere a vantaggio di chi vanno tutti questi numeri. Comunque di una ristretta cerchia di cittadini milanesi: quanti gestiscono un ristorante, quanti possiedono un alloggio da mettere a reddito, quanti guidano una macchina da noleggiare. Gli altri, pure cittadini milanesi che gradirebbero attenzione, si meriteranno traffico più caotico, prezzi in salita, pigioni insostenibili, probabilmente una città meno ospitale per chi ci deve vivere e lavorare, una città del lusso che vorrebbe lasciare la maggioranza alla finestra. Tutto già scritto e detto.

La questione però mi sembra un’altra: quanto si andrà avanti così? Quanto la nostra fashion week  e le altre settimane garantiranno tanto movimento, tanto volume d’affari, tanti ospiti? Anche le nostre “settimane”, come è capitato altrove, hanno i giorni contati?

Restiamo nella moda. Il sistema delle sfilate ha qualcosa di antico, due secoli di storia. Lo inventano negli Stati Uniti all’inizio dell’Ottocento, Parigi diventa presto il centro internazionale. Negli ultimi decenni quel mondo si è ritrovato infine nelle celebrate “settimane”, organizzate tra febbraio e marzo e tra settembre e ottobre in quattro capitali: New York, Londra, Milano, naturalmente Parigi, che riprese in grande stile l’esempio americano con le sue Semaine des défilés di inizio Novecento, quando i venditori assumevano le modelle perché indossassero i vestiti nei ristoranti di lusso, agli ippodromi, nelle sale da tè.

Curiosità: leggo che il calendario ricalca quello daella corte di Luigi XIV, che trasformò Parigi nel centro dell’industria tessile di lusso, proponendo nuovi tessuti, sete e arazzi, due volte all’anno, secondo una anticipatrice strategia di marketing per vendere di più, invogliando a comprare le stoffe perché erano nuove e non perché servivano. Intuizione più che del Re Sole del suo ministro, Jean-Baptiste Colbert, resuscitato con il suo “mercantilismo”, in chiave italica, non molti governi fa, da Giulio Tremonti. Le Semaine des défilés hanno fatto scuola perché nel tempo se ne sono inventate altre, da Tokyo a Mosca, da Mumbai a Stoccolma.

Il “macchinario”, costoso e complicato (basti pensare alle liti che divampano quando si tratta di stabilire il calendario delle sfilate), è ovvio che alla lunga cominci a sentire il peso degli anni, anche, al di là della spettacolarizzazione, delle scenografie, dei fuochi d’artificio, delle novità comparse tra i due millenni. Soprattutto l’impianto soffre un confronto assolutamente insostenibile con il “nuovo”, tecnologico e culturale, che avanza: dalla rapidità della produzione e dalla disponibilità continua di nuovi prodotti di fronte a una domanda mai doma alla possibilità di vedere la “merce” e di acquistare online; dalla comparsa di inediti attori del mercato che si chiamano blogger, influencer, Ferragni e compagnia alla stessa decadenza della stampa tradizionale (che, nel caso, sopravvive in un malsano connubio tra informazione e pubblicità: guai a criticare un brand, cioè un marchio, ne va dell’inserzione pubblicitaria e quindi del bilancio del giornale).

Con l’aggiunta di uno scenario che riassume difficoltà dell’economia, globalizzazione della produzione, invadenza della grande distribuzione che ha imboccato in modo massiccio la strada del commercio a distanza (con la conseguente incontrollata e continua scorribanda di furgoni che distribuiscono scatole e scatoloni).

Per ora sembra che si conceda ben poco al pessimismo, ma dell’esaurimento progressivo di un’esperienza bisognerà alla lunga tenere conto, non tanto per un settore in sé e per sé, un settore che troverà altre vie e le sta già trovando per mantenersi in salute, quanto per la città che non potrà reggere all’infinito l’immagine disneyana che ha cercato di attribuirsi e di cui le “settimane” sono un momento importante, manifesto efficace per i turisti di tutto il mondo, ciascuna con le sue caratteristiche. La “moda” vive ad esempio di una esclusività di massa: numeri grandi, ma accessi selezionati.

Il “mobile” ha provato a mobilitarsi nelle periferie, prima Lambrate, quartiere mutato progressivamente e che, di ristrutturazione in ristrutturazione, ha cancellato molti spazi espositivi, poi il parco e alcuni edifici dell’ospedale militare di Baggio, luoghi misteriosi, che si sono aperti per breve tempo al pubblico, rivelando costruzioni di pregio e angoli affascinanti. Luoghi misteriosi tornati tali a esposizione conclusa, con grande dispiacere e con una possibile riflessione a proposito a quanto di nuovo si costruisce e a quanto di vecchio e pregevole si abbandona.

Crisi o non crisi, le “settimane” hanno contribuito a cambiare, soprattutto nel suo versante effimero, l’immagine della città e soprattutto la sua “sostanza”, intesa come uso, come fruizione e fruitori. A questo punto, oltre le felici apparenze di un turismo interno ed esterno, da mostre o da shopping, forse si dovrebbe decidere: quale Milano immaginiamo per il nostro e suo futuro, scegliendo tra Disneyland e una metropoli, che sia espressione di una società varia, diversificata, accogliente, che offre lavoro e casa?

Ammesso che si voglia decidere e non si preferisca invece “lasciar fare”, assecondando le aspirazioni del “mercato”, un “mercato” che sembra sostenuto più dal mattone che dal pret-a-porter, uniti comunque nell’esaltare, secondo conniventi interpretazioni, la modernità e la dinamicità di Milano. Come se il profilo dei grattacieli integrasse le fogge degli abiti, dettando la nuova fisionomia della città che fu delle fabbriche e degli operai, imprimendo quel carattere di allegra movida che fa tanto di successo e di benessere.

Forse sarebbe il caso, con i piedi per terra, di ragionare di un organismo complesso, che per difendere la sua identità (e la sua bellezza) non può vivere solo di lunapark e di mense all’aria aperta e di airbnb, ha bisogno invece (scusateci dell’eventuale salto logico) di retribuzioni più alte e di abitazioni meno care, meno “impossibili”, perché spazio domestico e spazio lavorativo possano integrarsi, perché Milano sia un luogo per tutti, vitale per la giustizia che esprime e per la solidarietà che sa offrire.

Oreste Pivetta



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  1. AdaAssolutamente condivisibile.La citta' dei pendolari siano essi quotidiani o "settimanali" ma per i residenti ? Vogliamo una citta' turistica svuotata dagli abitanti e riempita di bar e ristorazione ?
    6 marzo 2024 • 12:28Rispondi
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