23 aprile 2024

QUESTIONE MORALE E/È QUESTIONE POLITICA

Vexata quaestio nella teoria e nella prassi politica


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Quarant’anni fa, giusto alle elezioni del Parlamento europeo, per la prima e unica volta il PCI superò la DC. Non si trattò di una vittoria politica ma essenzialmente morale, indotta dall’emozione per la improvvisa perdita sul campo di Enrico Berlinguer. Era il 1984, anno orwelliano, che avrebbe tracciato una significativa inversione di tendenza nel modo di concepire e praticare la politica.

Fino alle conseguenze attuali ove resta in sospeso, in un clima di sfiducia e disaffezione astensionistica, la domanda critica: la questione morale è tuttora questione politica?

Vengono allora in soccorso le lungimiranti intuizioni circa la “etica laica” di Piero Gobetti e lo “spirito pubblico” di Antonio Gramsci, per il quale inoltre il partito ovvero il “moderno principe” è “banditore della riforma intellettuale e morale”. La conquista di solide “casematte” nella cultura diffusa e nel sentire comune precede e condiziona i movimenti della politica.

Il che non significa disconoscere il valore dell’autonomia della politica stessa, che deve giustamente rifuggire l’appiattimento sulla morale o tanto meno sulla religione. Altrimenti cadiamo nello “Stato etico” o persino nella teocrazia più o meno dichiarata.

Viviamo nella patria di Machiavelli che per primo riconobbe le ragioni proprie della politica, distinte dalle false coperture moralistiche. Tuttavia i mezzi spregiudicati (il Principe deve “simulare e dissimulare”, “usare la golpe ed il lione”, ecc.) sono messi a servizio di un fine eticamente valido (“il bene dello Stato”) non del potere fine a se stesso.

Poi si può disquisire nel merito circa il “bene dello Stato”, ma vale il principio che l’esercizio del potere è un mezzo, non è fine a se stesso, autoreferenziale – come si dice oggi – quando non finalizzato a interessi particolaristici, familistici e personali.

Altrimenti il primato assoluto della politica, il “totus politicus” di stampo giacobino, porta alla distorsione uguale e contraria: la convinzione che il potere politico possa prevaricare giustizia, garanzie, regole, anche in democrazia mediante un’impropria “dittatura della maggioranza”.

Vale allora la lezione di Norberto Bobbio che riconosce un rapporto di autonomia senza separazione, di reciproca feconda influenza tra etica e politica. No allo Stato etico che le identifica e no alla “cieca prassi” del potere che le estranea. Si alla “etica pubblica” ovvero alla politica orientata ai valori ed ai principi costituzionali, non sottomessa al sistema di potere ed all’intreccio con traffici ed affari più o meno leciti.

Anche nella concezione sociologica di Max Weber la contraddizione dialettica tra  “etica dei principi” ed “etica della responsabilità” può trovare sintesi in una politica che sappia compiersi con “passione e discernimento”.

Il citato Machiavelli è tuttavia causticamente ripreso dal Guicciardini, teorico dello scetticismo opportunista ovvero della cinica indifferenza tra “Franza e Spagna”, che vuole riportarlo spietatamente alla “realtà effettuale” dei propri tempi.

Proviamo allora per gioco a rovesciare l’immaginario che nel film di Troisi e Benigni “Non ci resta che piangere” proietta la coppia di amici-nemici nell’Italia rinascimentale, intenti nel fallace esperimento di modificare il corso della storia.

Immaginiamo che la coppia di amici-nemici Machiavelli-Guicciardini riviva il presente.  La nota disputa potrebbe pertanto attualizzarsi più o meno così: Machiavelli ammonirebbe i vari “duca Valentino” che popolano il panorama partitico-politico-istituzionale contemporaneo con il richiamo alla “virtù degli antichi” ovvero, oltre che ai già citati Gobetti e Gramsci, i gruppi dirigenti dei partiti del CLN, protagonisti della Resistenza ed autori della Costituzione repubblicana.

Ma il fantasma di Guicciardini avrebbe buon gioco a rinfacciargli la pretesa che l’attuale ceto politico possa recuperare la statura morale e culturale dei padri costituenti: sarebbe come esigere che “un asino faccia il corso di un cavallo”!

Ci troviamo allora avviluppati in una spirale perversa; nella dannata ipotesi che il ceto politico attualmente occupante partiti e istituzioni sia strutturalmente negato a fuoriuscire da un debilitato “stato di cose presente”? Lo spartiacque è rintracciabile negli anni ’80, al volgere del “secolo breve”, con il venir meno della generazione della guerra e del dopoguerra, della Resistenza e della ricostruzione, che non a caso è stata definita “irripetibile”.

La traiettoria della storia patria è allora ben rappresentata dalla parabola del PCI, definito da Pier Paolo Pasolini, ancora alla metà degli anni ’70 come “una società sana dentro una società malata”. Dunque una società prima che un partito! Il riferimento alla “diversità” del PCI partiva dunque dalla base, dal mondo della solidarietà e della militanza nelle sezioni di quartiere,  nelle cellule di fabbrica e nelle organizzazioni di massa.

Enrico Berlinguer è l’interprete e la guida di questa fase straordinaria, che trova il suo apice negli anni ’70, malgrado le insidie dell’estremismo e le tragedie del terrorismo, e si traduce in una vera egemonia che porta, nonostante la permanente esclusione dal governo, ad una serie fondamentale di conquiste e riforme sociali e civili, alcune ancora sopravvissute altre svuotate e rovesciate dagli anni ’80 in poi

Ed è tuttavia proprio da Milano che, nella seconda metà degli anni ’70, parte la controffensiva. Da qui Bettino Craxi, rovesciando l’impostazione etico-politica di Berlinguer, instaura una prassi di conquista ed esercizio del potere ad ogni costo. Il “totus politicus” emerge con prepotenza, la coerenza etico-ideologica viene irrisa e accantonata, sostituita dal legame con talvolta opachi poteri forti, economici e non solo.

A Milano pertanto avviene il battesimo di una nuova fase politica che, complice il mutamento del contesto internazionale, avrà dagli anni ’90 (superata la parentesi di Mani pulite) la fastosa celebrazione della “seconda repubblica”.

La politica, abbandonata l’etica, abbraccia il mercato. Sciolti i partiti storici, i nuovi si assimilano a ditte ed aziende, la propaganda si adegua alla pubblicità commerciale, la comunicazione diventa esibizione, la selezione dei quadri obbedisce alla legge mercantile: la moneta cattiva scaccia quella buona!

Ma tornando a Milano e dintorni bisogna ammettere che l’auto-elogio del PCI quale partito diverso e irreprensibile deve fare un passo indietro. Il modello craxiano fa breccia in una parte consistente del quadro dirigente e intermedio. Lo stile spregiudicato e decisionista genera invidia e tentativi di imitazione.

La sottaciuta impazienza verso il pensiero e l’azione di Enrico Berlinguer, orientate a indicare un diverso modello di sviluppo economico e sociale insieme ad una concezione alta e onesta della politica, diventa esplicita. Emerge la corrente, presto divenuta dominante negli organi dirigenti, autodefinitasi ottimisticamente “migliorista”.

Non mancarono le resistenze di una parte del quadro attivo, e da una larga base ancora partecipe e impegnata. Prova ne sia, tra le altre, la formazione controcorrente di diverse “giunte anomale” nei comuni della provincia, motivate dalla ribellione verso l’acquiescenza ai metodi spregiudicati e abusivi dell’alleato socialista.

Il sussulto legalitario ed anche giustizialista (la rivoluzione non è un pranzo di gala) innescato dall’arresto del Mariolo, ha rappresentato comunque l’opportunità per una possibile svolta etico-politica, presto soffocata e contraddetta da un rapido Termidoro, da una pronta ricomposizione del tessuto profondo del paese reale e amorale.

Con la dissoluzione dei partiti storici, e con l’esaurimento del movimento d’opinione che aveva sostenuto l’effimera bandiera delle “mani pulite”, si ricade dalla padella craxiana alla brace berlusconiana.

Questa volta per altro con una opposizione debole, talvolta degenerata in larvata acquiescenza. Il congresso PDS “bulgaro” del ’96-97 approvò pressoché all’unanimità le tesi di D’Alema che avevano ridotto a tre righe su trenta cartelle proprio la trattazione della questione morale! Mentre a Milano prendeva avvio l’irresistibile ascesa del compianto Filippo Penati, nonché – nell’ombra – del sodale Antonio Panzeri, europarlamentare di  lungo e venale corso.

Tornando ad oggi si riaffacciano elezioni europee, con un campo minato da una politica poco morale e da una morale alquanto impolitica…

Valentino Ballabio



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