3 ottobre 2023

MILANO A 30 ALL’ORA E POI?

Un esempio di idee confuse


 Copia di Copia di rification (2)

È da molto tempo che si parla del limite di 30 chilometri all’ora in città: iniziarono gli olandesi, nel 1976, inventando i woonerf (tradotti come “aree condivise”) aree nelle quali la strada doveva essere condivisa tra pedoni, ciclisti, auto, però a bassa velocità: 30 all’ora appunto.

In questi woonerf, che caratterizzavano le aree residenziali, la carreggiata per le auto era spesso resa sinuosa, e l’ingresso con “castellane” che limitavano la velocità, e vi era un’abbondanza di parcheggi per i residenti.

Ben presto questo sistema si diffuse in Danimarca, Svezia, Austria, Svizzera, Germania, Francia, Gran Bretagna. In pochi anni i woonerf, chiamati in vario modo, sono diventati il sistema più diffuso per gestire la mobilità nelle zone residenziali. Pochissimi casi in Italia, ove questo sistema, oltre a garantire vivibilità ai quartieri, avrebbe consentito una drastica riduzione degli incidenti.

Mi ricordo che, durante il mio servizio come assessore nella Giunta di Milano, abbiamo utilizzato questa tecnica in un quartiere a lato degli impianti della Stazione Centrale, ove avvenivano molti incidenti, che ben presto cessarono. Un altro esperimento fu realizzato a San Siro, ma i residenti si opposero con animosità, volevano guidare velocemente anche dentro il loro quartiere.

Dopo avere chiamato queste zone “Isole ambientali” nel 2003 si era anche pubblicato, a cura dell’Agenzia della Mobilità, un testo di progetti pilota per le isole ambientali (inutile cercarlo ora tra le pubblicazioni dell’Agenzia, è stato espunto insieme a molti altri). Tuttavia questi esperimenti non ebbero seguito e Milano rimase molto indietro nei confronti della gran parte delle città europee.

A distanza di 47 anni dalla prima formulazione di questo sistema di qualità ambientale, l’Italia ne è ancora fortemente carente, e Milano lo è ancora del tutto.

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La tecnologia di queste zone trenta, nel resto d’Europa, consente anche di tracciarvi piste ciclabili costruendo itinerari in totale sicurezza, diversamente da quanto avviene a Milano, ove le piste ciclabili sono realizzate lungo le strade di grande traffico, in spregio alle esigenze di sicurezza, o, forse, nell’assai pericoloso tentativo di limitare le auto tramite la coabitazione con le biciclette. (Il più forte scacciato dal più debole…chi ne sta facendo le spese?).

A Milano poi vennero le aree C e B, che però non ebbero alcun effetto ai fini della sicurezza e della qualità della vita nei quartieri e, a quanto pare dai dati di oggi, nemmeno molta efficacia nel tentativo di limitare i volumi di traffico in ingresso alla città. Ora si vuole passare alla città a trenta all’ora, però senza avere prima fatto tutti quei passi che avrebbero profondamente cambiato la mobilità automobilistica e migliorato la vita nei quartieri.

Penso che per Milano questa trasformazione non sarà semplice. La gran parte delle grandi città europee, oltre ad avere realizzato nei quartieri opere analoghe alle isole ambientali, ha anche realizzato un consistente aumento delle infrastrutture per la mobilità, linee ferroviarie urbane, metropolitane, autostrade urbane (prendendo ad esempio solo alcune città di minore taglia: le autostrade urbane E47 a Copenaghen, A 10 ad Amsterdam, con le sue diramazioni). Senza parlare della metropolitana e delle tante stazioni ferroviarie di Londra, o del Metrò o del RER di Parigi

Cosicché i grandi volumi di mobilità vengono prioritariamente smaltiti da queste infrastrutture e le strade urbane ospitano gli spostamenti di più breve distanza e quelli non comprimibili.

Il fatto è che Milano ha interrotto il suo sviluppo infrastrutturale: il progetto del secondo passante – l’infrastruttura che, insieme al primo, avrebbe portato i passeggeri da ogni stazione della Lombardia direttamente a Milano – è stata cancellata da tempo; la M4 (pur riconoscendo che era difficile da realizzare) non è ancora completa; ora per la M6 si favoleggia di un tracciato tutto urbano trascurando la grande direttrice di pendolarismo entrante da via Ripamonti già prevista dal PUMS milanese (Piano Urbano della Mobilità Sostenibile). Quindi dovremmo ancora sopportare grandi flussi dall’esterno a fronte dell’eccesso di investimento riversato su una linea di quartiere, che non avrebbe la possibilità di attrarre grandi masse di passeggeri (forse -ma difficilmente- congestionata nelle ore di punta ma quasi vuota in quelle di morbida).

Tangenziali, autostrade e le principali strade statali sono tutte in grave deficit di capacità ed alla mattina i pendolari devono sopportare lunghe code per entrare in Milano. Ma le strade non vengono riqualificate a maggiore capacità (forse per paura che vengano usate di più).

Chi sono questi cittadini che vengono a lavorare a Milano in auto e perché non si fanno investimenti per loro? Dei paria? Persone indesiderate?  O non sono forse lavoratori residenti lontano dalle linee di trasporto pubblico o artigiani che devono trasportate i loro strumenti, o lavoratori con altre consistenti motivazioni, ma che danno comunque il loro contributo alla ricchezza di Milano?

Nonostante questo la quantità di auto che entra in Milano è diminuita, secondo i rilevamenti fatti dal Comune, le autovetture sono circa 400.000 (negli anni ’70 erano 700.000) mentre sono aumentati i mezzi commerciali, ovviamente, visto lo sviluppo delle consegne a domicilio. Questo significa che gli investimenti finora fatti per passante e metropolitane hanno avuto effetto e che quelli ancora da fare potrebbero dare un ulteriore analogo contributo.

Non va dimenticato il sistema di parcheggi d’interscambio che in tutte le grandi città del mondo è strategico: a Milano esistono solo i parcheggi di ATM, ce ne vorrebbero di più e molto capaci in tutte le stazioni ferroviarie della Lombardia, invece sono totalmente assenti o di ridicola capacità. Ne risulta che chi non risiede vicino alla stazione o a una linea di trasporto che vi dia accesso, dovrà utilizzare l’auto.  Inoltre alle stazioni esterne mancano parcheggi custoditi per le biciclette. Cosicché per molti pendolari l’auto è l’unica scelta. Eppure, in tutte le grandi città del mondo parcheggi di grande capacità per le stazioni sono i più strategici per convogliare la mobilità automobilistica sui mezzi pubblici.

In questo scenario, passare subito ai 30 all’ora in città, senza aver fatto tutto il necessario per ridurre ulteriormente il traffico in ingresso e quello interno, cosa che invece è stata fatta dalle città estere che lo hanno realizzato, appare simile a mettere il carro davanti ai buoi.

La differenza di velocità tra i 50 Km/h e tra i 30 Km/h è del 30%. Tuttavia la velocità media del traffico in Milano è spesso di 30 Km/h e anche meno, soprattutto nelle aree centrali. Ma non dovunque.

Imporre il 30 all’ora su tutte le strade significa che anche nei tratti in cui si può procedere a 50 Km/h si avrà una riduzione del 30% di velocità, che non sarebbe un gran problema, però si avrà contem­poraneamente una riduzione del 30% di capacità. E questo formerà ulteriori code.

Questo è il tipico atteggiamento italico, trascurare tutti i necessari passi intermedi, per poi abbracciare con ardore la soluzione finale ritenuta salvifica, che salvifica, ma non per colpa sua, non potrà essere.

Perché non si è iniziato a mettere in sicurezza i quartieri con isole ambientali a 30 all’ora e le piste ciclabili all’interno, realizzare le infrastrutture di trasporto pubblico previste e trascurate da diciotto anni, gli interscambi con la necessaria capacità e le strade di capacità sufficiente. Poi sarebbe stato tutto più facile, anche per il limite a 30 all’ora. Il mio timore è che, con misure che impacciano sempre più la mobilità, ci si stia preparando un futuro come quello delle grandi metropoli, dove i cittadini di ceto medio vengono espulsi. Un esempio è Londra, dove un professore ordinario dell’Imperial College, famosa facoltà d’inge­gneria, deve vivere a 30 Km da Londra per il costo degli affitti.

Oppure come New York e, a questo proposito, lasciate che mi dilunghi con un aneddoto.

Una volta sono andato alla Metropolitana di New York insieme al presidente di MM. Abbiamo scoperto che gran parte dei lavoratori sono italiani di origine (all’ingresso delle officine di Coney Island dicono “buongiorno” ma proseguono in inglese perché non conoscono l’italiano: è solo un segno di distinzione di classe) il Presidente era un wasp e il capo della sicurezza un irlandese.

Tranne il presidente (che abitava a Manhattan) tutti abitano a Queens, quartiere in buona parte italo-americano, ben al di fuori della rete metropolitana, cenano alle 5 del pomeriggio per alzarsi in tempo e raggiungere in auto gli uffici di Brooklyn.

L’ingegnere che ci accompagnava era un dirigente di alto livello quale capo della progettazione: quando andava a ispezionare la commessa di 700 treni allora fatta dalla città di New York alle officine Kawasaki (uniche a poter assumere una commessa così grande), tutti tremavano perché una mancata approvazione di quel lotto sarebbe stato un danno mortale per l’azienda costruttrice.

Tuttavia, tornato a Queens, la sua vita era quella del travet che doveva svegliarsi prima delle cinque del mattino per giungere in tempo agli uffici di Brooklyn.

E’ questo il futuro che ci aspetta? Milano non è mai stata così e sono convinto che la maggioranza dei milanesi non voglia che lo sia.

Ecco, io temo che la Giunta Sala, con questa inerzia, ormai anche entrata nel costume milanese, a non intraprendere le necessarie azioni per lungo tempo per poi buttarsi sull’ultima trovata, il trascurare le necessarie infrastrutture, e con l’indefessa volontà di costruire sempre maggiori quartieri per ricchi, ci riservi un futuro simile a quelle città in cui le famiglie di medio ceto sono espulse e costrette a viverne ben al di fuori. In quell’area urbana lombarda che dovrebbe avere grandi e veloci infrastrutture per legarla alla città centrale, ma non le avrà.

Ma io ormai sono piuttosto anziano, forse farò in tempo a non vedere tutto ciò.

Giorgio Goggi



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  1. costante portatadinocome sempre molto d'accordo. vivendo a Varese, ho cominciato a pensare se la 'gentification' di Milano possa avere riflessi positivi su Varese e in generale la zona nell'area dell'ora di treno. Per Varese mi sono detto che è più un pericolo che non un 'opportunità, significherà aumento degli affitti, effetto dormitorio, inazione urbanistica del comune. occorre cominciare a pensare secondo la scala delle MEGAPOLI, se non della MEGALOPOLI, , migliorando i trasporti pubblici, ma anche distribuendo servizi ed opportunità anche oltre i confini metropolitani.
    4 ottobre 2023 • 00:01Rispondi
  2. PietroUn grande esempio di saggezza e di visione strategica fu negli anni '60 la costruzione della Metropolitana 2, che non si fermava con miopia ai confini urbani di Milano ma proseguiva molto all'interno dell'hinterland, fino a Cologno e Gessate. Quanto traffico di pendolari ha assorbito da quegli anni! Poi, più niente. Milano ha continuato a scavare metropolitane al suo interno, ma nulla fu realizzato per scaricare i flussi veicolari, specie nella fascia Nord- Nordovest!
    4 ottobre 2023 • 10:20Rispondi
    • Andrea GiorcelliC'era già un trenino da decenni, le "Linee celeri dell'Adda", ecco perché fu possibile realizzarla velocemente, la linea ferroviaria esisteva già.
      6 ottobre 2023 • 12:51
  3. Andrea GiorcelliLa differenza di velocità tra i 50 Km/h e i 30 Km/h è del 40%, non 30%.
    4 ottobre 2023 • 10:59Rispondi
  4. valentino ballabioDue esempi del caso: 1) La linea verde, giunta a Cologno Nord nel 1981, avrebbe dovuto proseguire a breve per Vimercate. Poi l'improvvida invenzione della provincia della Brianza ha bloccato tutto. Ora si rimpiange il vecchio tram soppresso appunto 40 anni or sono. 2) L'area dismessa della Falck di Arcore, adiacente alla ferrovia avrebbe potuto fornire un grande parcheggio di corrispondenza spostando di 500 m. la allora vecchia e fatiscente stazione. Naturalmente, con tanto di giunte PD, l'area è ora coperta da edilizia privata!
    5 ottobre 2023 • 10:06Rispondi
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