30 novembre 2020

IL SUGGERIMENTO DI URSULA VON DER LEYEN

Investimenti e economia territoriale


Una sciagurata gestione del territorio lasciato in mano agli operatori immobiliari e all’intreccio tra questi ultimi e il mondo finanziario sono una palla al piede del futuro del nostro Paese. Ma nulla è ancora perduto.

Semplice e apodittico il suggerimento di Ursula, “l’Italia ha l’opportunità di decidere come sarà il suo futuro”. A prescindere dalle macro variabili psico-sociologiche, che lasciamo al buon cuore del professor De Rita, la qualità degli investimenti pubblici sarà dirimente. In Italia coesistono tre cerchi concentrici di crisi: quello globale-strutturale, il “declino delle opportunità di investimento”; quello contingente da pandemia, che ingloba il crollo del 2007-2008; la crisi del modello economico nazionale, da sempre subordinato a insostenibili posizioni di rendita.

de gaspari

Ora, grazie all’Europa, è avviata una decisa fase di accumulazione che, per quando indotta da avvenimenti esogeni, si annuncia di notevole entità. Tutti ne usciranno con debito accresciuto, ma resteranno i divari tra quelli che già avevano debito già alto e quelli che l’hanno visto crescere nell’occasione.

Dunque non c’è alternativa, il Paese dovrà uscire ben modificato da questa crisi. Se l’hardware per qualche tempo resterà più o meno lo stesso, il software deve cambiare. Occorre un linguaggio economico diverso e occorre inserire in un sistema secolare stagnante un dispositivo di crescita competitivo e di buona produttività. Soprattutto è necessario virare verso un modello di sviluppo in cui politiche economiche e politiche sociali siano davvero aspetti della stessa questione.

L’abbiamo detto e ridetto, la più grande impresa economica è la gestione del territorio. È la politica territoriale che produce ricchezza e miseria, che risolve i problemi e causa gli smottamenti. Se la crisi, nel lungo e nel breve periodo, è anche e soprattutto crisi degli investimenti, qualche considerazione in merito all’edilizia residenziale come categoria di beni capitali può essere di qualche utilità. Non è affatto scontato che le case siano da considerarsi sempre e comunque beni di investimento1.

La spesa delle famiglie in abitazioni viene in definitiva compensata con contrazioni del consumo corrente2, via via maggiori col diminuire del reddito. E solo una interpretazione superficiale del fenomeno induce alla conclusione che alla contrazione del consumo corrisponda una equivalente accumulazione di risparmio, vuoi in pura liquidità vuoi in quasi-moneta immobiliare, come la letteratura economica sembrerebbe suggerire. Ciò che accade è che il mancato consumo dovuto alle spese per la casa si riversa nel mare magno del “risparmio abortivo”, configurandosi in definitiva come un caso di massiccio trasferimento di ricchezza dai consumatori ai rentiers, per di più compensato da perdite nette da parte degli imprenditori sia dal lato della domanda sia dal lato del risparmio visto come fonte degli investimenti.

“Il piccolo sporco segreto degli economisti”, consistente nella consapevolezza che la massiccia creazione di moneta da parte delle banche centrali viene intercettata dalla finanza speculativa finendo il più delle volte con l’alimentare bolle immobiliari, andrebbe universalmente svelato con adeguati strumenti comunicativi come imperativo a salvaguardia delle lodevoli finalità sottese alle operazioni di quantitative easing.

Se da un lato il salvataggio del sistema bancario, messo in ginocchio dalla eccessiva compromissione col settore immobiliare, è da considerarsi obbligato, d’altro canto andrebbe sperimentata una via d’uscita alternativa al tradizionale rifinanziamento delle posizioni debitorie, che riproduce in definitiva le stesse distorsioni che hanno portato alla crisi. È qui che politiche economiche, territoriali e di welfare trovano la loro naturale saldatura.

LA gestione delle sofferenze immobiliari, che riguardano quasi il 50% degli NPL, deve diventare un tema centrale, per il governo e per le amministrazioni locali. Nel non lontanissimo 1995 il 19% delle passività famigliari era dovuto ai mutui abitativi, ma la quota è via via cresciuta fino ad attestarsi, già attorno al 2005, su valori superiori al 40%. Questo semplice dato ci fa comprendere come il rifinanziamento delle ipoteche e la rivalorizzazione dei crediti deteriorati si tradurrà inevitabilmente in un pesante aggravio di costi a carico delle famiglie, con ripercussioni sul reddito e sulla domanda interna.

Sta passando nel disinteresse più totale, quando non sia pubblicamente sollecitato e accompagnato da parole di ammirazione, un imponente processo di rivalorizzazione finanziaria degli asset immobiliari, che sfocerà prevedibilmente in una bolla più grande di quella del 2007-2008, incorporandone e dilatandone le conseguenze. E Milano ne sarà l’epicentro.

Che a questo processo di rivalorizzazione corrisponda la rettifica del “modello di business” di fondi e di grandi player del Real Estate (che potrebbero addirittura riacquistare a prezzo di saldo i loro stessi debiti e relative ipoteche), che integrano il tradizionale trading immobiliare col trattamento degli NPL, dovrebbe far riflettere per quanto mostra come il settore sia capace di adeguare i propri comportamenti ai mutamenti economici (verrebbe da dire ai disastri che esso stesso ha provocato…), a differenza dei soggetti pubblici, stato, regioni e comuni, che faticano a connettersi.

Nel 2016 Romano Prodi3 ipotizzò l’acquisto da parte dello stato di mutui ipotecari per una decina miliardi, proposta che pare essere stata definitivamente abbandonata. Solo Milano sarebbe in grado di provarci. Perché no? In linea generale non si deve considerare particolarmente virtuosa l’economia di un paese la cui produzione complessiva, il Pil, sia eccessivamente condizionata dal settore immobiliare (Harvey). Vale un po’ quello che Keynes rilevava a proposito del ciclo ottocentesco, fortemente condizionato dal settore agricolo (ciclo di Jevons). Con la differenza non trascurabile che, mentre il ruolo delle fluttuazioni dei raccolti venne infine ridimensionato dalla rivoluzione industriale e dall’internazionalizzazione dei mercati, il ruolo del mattone come fattore caratterizzante la crescita economica pare invece crescere ai tempi nostri, soprattutto in Italia, condizionandone in negativo anche la produttività complessiva, che da un quarto di secolo è stagnante.

Occorre riorientare l’intera attività edificatoria in funzione della domanda reale, anche riguardo all’emergere di nuovi soggetti (immigrati, giovani, ecc.) e alla complessiva trasformazione del paesaggio sociale del Paese, riguardo ai prezzi, alle tipologie abitative, alle condizioni proprietarie e di locazione. Politiche di basso profilo localistico, magnificate dalla propaganda municipale, del genere housing sociale, pur utili nel fronteggiare alcune emergenze, sono del tutto inadeguate come politica di transizione verso un modello economico più moderno e competitivo, e si configurano più come moltiplicatore volumetrico di operazioni in corso che come reale politica alternativa.

È un vero paradosso dei nostri tempi che l’unico settore in cui sarebbe auspicabile la pratica del just in time è il solo dove vengono inopinatamente accumulate “scorte di magazzino”, non solo manufatti da cantiere, ma soprattutto prodotti finanziari specifici del settore (ipoteche, crediti, piani urbanistici sovradimensionati, diritti edificatori, ecc.), con ripercussioni pesanti in tutte le fasi del ciclo economico4.

Mario De Gaspari

1 Keynes sostiene che l’edilizia residenziale vada considerata tra gli investimenti per l’impegno che richiede il farsi carico dell’acquisto di una casa, perché le case vengono acquistate tramite risparmio (senza riflessi significativi sul consumo corrente) e perché si considera che vengano concesse in affitto. Fisher arriva alla stessa conclusione per via diversa. Posto che è impossibile fissare una linea precisa tra beni di consumo e beni di investimento, le case andrebbero, secondo questo autore, catalogate tra gli investimenti perché il loro acquisto corrisponde all’acquisto di una rendita in cambio del detenere liquidità. Come si vede, considerazioni che si implicano a vicenda e condizioni ben lontane dalla realtà italiana.

2 Un’analisi davvero pertinente riguardo alla realtà italiana si trova nella Nota aggiuntiva alla relazione sulla situazione economica del Paese 1961 di Ugo La Malfa (in realtà suggerita da Claudio Napoleoni), dove si sostiene che parte della spesa per abitazioni sostenuta nella fase di ricostruzione andrebbe più opportunamente imputata al settore dei consumi individuali.

3 L’articolo di Prodi, Mutui e sofferenze: una proposta per aiutare banche e famiglie, si trova in Il Messaggero del 10/7/2016. Si calcolava che, con una spesa di 10 miliardi, pari alla metà del fondo salva banche, lo stato potrebbe acquistare mutui in sofferenza dando sollievo a 250.000 famiglie in difficoltà e al tempo stesso liberando le banche di crediti problematici (forse a prezzi concorrenziali rispetto a quelli corrisposti dai fondi speculativi).

4 Keynes dimostra come lo smaltimento delle scorte eccessive accumulate durante il boom fu la causa degli insuccessi iniziali che vennero imputati al New Deal, che solo al compimento di quel processo fu in grado di mostrare la sua validità.



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