8 aprile 2021

LA OLA DELLE CURVE NORD-SUD SI È RIALZATA CON LA PANDEMIA

Come ricostruire l’equilibrio identitario?


Partiamo dall’argomento di “naturale” interesse per Arcipelago. Poi vediamo di allargarlo. La terza fase della pandemia – quella che ha innescato e portato in attuazione il cambio di governo e la riprogettazione del piano vaccinale e del piano economico-finanziario europeo – ripropone, per altro come le due fasi precedenti, un “problema Lombardia” (per alcuni media), ovvero un problema “Milano-Lombardia” (per altre voci in campo).

rolando

Presentandosi i due soggetti politico-istituzionali di segno opposto, è evidente che si tratta di critiche che arrivano da fonti diverse. Dall’interno della regione le due parti si sparano contro secondo le regole.

Il centrosinistra mostra il segno dei tempi circa il lungo e logorato ciclo venticinquennale del centro-destra in regione. Al contrario il centro-destra lamenta quella che considera “pretestuosità politica” degli attacchi e soffia su presunte inadeguatezze delle città. Dati, curve, ritardi ed errori restano a mostrare che di fronte a Covid-19 tutto il mondo è stato paese. Se poi agli errori si dovesse sommare dell’altro, oggi in forma di ipotesi, soprattutto il “caso Lombardia” assumerebbe un rilievo molto più forte.

Nella vicenda anti-pandemica appare evidente che fare i moralisti senza competenza è inammissibile. Ma si fa strada anche il pensiero che il giudizio finale che si faranno paesi e popoli sarà più in ordine all’umiltà che siamo capaci di mettere in campo, anche per difenderci, rispetto al livello di insulti che riceviamo e a volte restituiamo ma soprattutto rispetto alla dolorosa condizione generale.

Una parte d’Italia – a proposito di Milano e della Lombardia – tende a non sottilizzare rispetto a questa o quella parte politica. Quando essa attacca – ovvero quando politici, media e cittadini stessi sbottano contro il “nord” si mira di solito ai due “modelli”:

  • quello lombardo per fare un verso ironico al conclamato autocompiacimento formigoniano delle “eccellenze lombarde” rimasto poi nelle bandiere leghiste;

  • quello milanese – antica storia – che traspare in risposta al “po’ i vegnen chi a milàn, terrùn” di danziana memoria (senza mai ricordare che quella canzone popolare ha tutto l’attacco impegnato a magnificare la canzone napoletana).

Ovviamente c’è di più. Tra cui c’è il “percepito” di una idea di sé che vorrebbe mantenere – a Milano e in Lombardia – un perenne disallineamento rispetto all’identità nazionale. Quella costruita a partire dall’800 attorno al modello dello sviluppo industriale in cui il triangolo Milano-Bergamo-Brescia ha trainato un’idea di sé e alla fine anche un’idea della Lombardia come “altro” rispetto all’Italia. Italia intesa per metà come il bel giardino (mare, monti, chiese, musei, paesaggi, limoni, eccetera) e metà come “arrangiarsi all’italiana” che è una filosofia che al nord piace poco e che è fuori dai confini dell’etica del lavoro educata al ritmo delle fabbriche.

Fa impressione tuttavia che questo schema – che poteva ancora valere fino agli anni 80 – sia ancora in piedi, tanto nell’immaginario quanto nella conflittualità emotiva, quaranta anni dopo. Anni che dovevano essere investiti per ricomporre nei nuovi processi economici anche radicalizzazioni pre-razionali figlie di storie mal digerite. Ma queste radicalizzazioni sono servite ad alimentare nuove forme di organizzazione del consenso, al nord come al sud. Con evidente consolidamento degli stereotipi.

L’onda lunga degli stereotipi

I processi reali infatti sono molto cambiati. Le dinamiche post-industriali hanno avvicinato i modelli territoriali italiani. Le migrazioni interne (dagli operai del passato agli studenti di oggi) hanno ibridato largamente città e territori. Il turismo di massa nazionale e internazionale ha spostato equilibri (culturali, produttivi e dei servizi) in tutte le regioni italiane. Alcune distanze che riguardano la qualità sociale si sono però accentuate. In ogni caso l’onda lunga degli stereotipi ha mantenuto al nord come al sud la sua ombra lunga. Così che una grave e prolungata crisi sanitaria, che dovrebbe primariamente produrre sentimenti principali di “égalité” e di “fraternité”, fa invece affiorare vecchie insopportabilità, alcuni rancori e un modo di rimestare con eccessi di “rivalsa” ogni fatto di cronaca che finisce per riguardare tutto e tutti e che invece viene connotato da una parte come “problema del nord” dall’altra parte come “problema del sud”.

C’è sempre da dire che i sentimenti di solidarietà si sono pure palesati, sia a nord che a sud. Basti ricordare la mobilità dei medici di tutta Italia a sostegno dei loro colleghi lombardi nella prima fase ovvero la riuscita identificazione promossa dai vertici istituzionali italiani riguardo a Bergamo come nodo simbolico generalizzato della vicenda italiana.

Sarebbe ora interessante spostare la discussione su come è stata e come viene gestita la contraddizione identitaria in questo complesso e anche interessante periodo di storia italiana, rispetto al perdurare o allo stemperarsi di stereotipi del tutto fuori moda. Il governo “sudista” Conte ha fatto qualcosa al riguardo? Il governo “nordista” Draghi segnala nette attitudini più di recente?

Non vorrei qui sostituirmi alla percezione di chi mi legge in questo momento. Ognuno vede risposte a modo suo. Mi limiterei a dire che gli atti, le parole, gli eventi, le proposte espressamente mirate a comprendere, ridurre, levigare, smontare, la diatriba identitaria italiana (antica come la stessa Italia geografica), era ed è mestiere di pochi, di pochissimi. Perché esso è un mestiere difficile, che richiede senso della Storia, senso dello Stato, senso della trasformazione identitaria dei processi migratori. E richiede anche governo del cambiamento culturale e un approccio critico alla trasformazione mediatica.

Là dove governano gli incendiari non vincono di certo i pompieri. Dunque la mappa delle pregiudiziali ha forse chiaroscuri ma la tendenza mostra gruppi dirigenti che appaiono spesso più al traino che alla “riparazione” di questa componente. Che invece conta molto nelle nostre vicende. Che pesa sugli esiti reputazionali. Quindi pesa su uno dei valori importanti dell’uscita dalle crisi.

La mia impressione – vorrei qui aggiungere – è che anche i gruppi dirigenti lombardi e milanesi abbiano mostrato non sufficiente attenzione a questo fenomeno. Che pure, in questa fase, non favorisce ma anzi punisce un territorio che sta pagando già il prezzo più alto della pandemia italiana.

Come per tutte le questioni su cui è sotteso il razzismo (le migrazioni in primis) è diffusa l’idea che sia meglio parlarne poco perché a muovere “certi argomenti” si rischiano voti e consensi. Sarebbe così lungo l’elenco delle occasioni mancate. E sarebbe lungo l’elenco delle funzioni – dirette e indirette, concrete e simboliche, reattive e progettuali – di ciò che va sotto il nome di governo del brand pubblico. Che resta cosa che aiuterebbe molto a capire e a mettere in campo interpretazioni più sottili delle ole di curva che si sentono. Diciamo creando una partita di comunicazione pubblica, per lo più non compresa e per lo più non giocata.

In realtà la partita che si gioca leggendo le dinamiche sociali della pandemia è più o meno la stessa della fase cruciale del Risorgimento e dello stesso biennio della Resistenza: ne verrà fuori una poltiglia di localismi o si esprimerà (questa volta incorporando anche l’identità europea) una nazione più forte?

A fine Expo la voce più diffusa a Milano e in Lombardia era che, preso il volo questo pezzo d’Italia, il sud – sempre più raccontato come un “disastro” – ormai era spacciato. Tanto che la stessa espressione usata dal presidente Mattarella in chiusura di Expo “Milano motore dell’Italia” veniva in parte considerata una nuova opportunità ma in buona parte anche respinta al mittente (caso mai correggendo la parola “motore” con la parola “modello”). Altri appunti, questi, che tornano a galla quando la storia si ribalta e quel “modello” mostra falle o problemi.

Non perdere l’occasione

E’ vero che alcuni politici, al nord e al sud, aizzano elettorati attorno a questo tema. Così come è vero che alcuni giornali (soprattutto al sud) si stanno sperticando nelle invettive perché confidano nell’effetto calcistico del sollevare le tifoserie contro lo spadroneggiamento delle squadre del nord. Ma per mantenere la miglior chiarezza è anche vero che l’idea di non essere in grado di comprendere al nord l’occasione che ci si sta presentando per una revisione profonda degli eccessi di autocompiacimento del recente passato, preferendo continuare a allungare il brodo delle “eccellenze incomprese”, è pure un argomento di insufficienza.

Il tavolo nazionale della convergenza attorno al bisogno di abbassare le penne di fronte al cambio di paradigma imposto da Coronavirus è infatti anch’esso poco visibile.

Dove sono gli intellettuali che dovrebbero e saprebbero fare questa battaglia? Dov’è la Rai-servizio pubblico capace di trasformare in positivo l’accompagnamento correttivo rispetto a questo continuo strattonamento di vecchie incomprensioni? Dove è la cucitura culturale (che a rifletterci sembrerebbe naturale) tra l’esigenza di convivenza e lunga resilienza che Coronavirus ci imporrà ben dopo la fine del 2021 e il dualismo italiano costituito dalla tenacia del lavoro e dall’arte di arrangiarsi?

Chi scrive ha avuto per qualche tempo la delega del proprio ateneo ai rapporti inter-universitari (Crui) in cui non è un mistero che lo scontro delle due filiere nord e sud è all’ordine del giorno ma finora non ci sono state le risorse e gli investimenti per creare in un quell’ambito così delicato per la formazione delle classi dirigenti un laboratorio, che l’allora presidente della Crui e poi ministro Gaetano Manfredi aveva intuìto, proprio di ristrutturazione culturale dei pregiudizi.

Va detto anche che i segnali di scambi emotivi o polemici che riflettono stereotipi non sono stati dirompenti né nella prima fase acuta del 2020, né nel quadro delle proseguite tensioni Stato-Regioni su cui, rispetto a nord e sud, è in fondo l’Italia del centro che ha avuto i comportamenti migliori (1). Pur trapuntando le cronache di una continua effervescenza. Così da lasciare una scia di parole, articoli, battute che costituiscono un richiamo sempre pronto a trasformarsi. Soprattutto a fronte dei contesti confusi e con disuguaglianze strutturali (scuola, assistenza, sanità, lavoro, con mappe storicamente a colori diversi).

L’apparente occasionalità di episodi non commendevoli non deve infatti rassicurare. Proprio la crescita di paura, solitudini e timori veri (salute, reddito, gestione delle famiglie) rischia di prolungare la curva di rischio. Il tema del dissidio nord-sud (verbale, umorale, antico, non autorevolmente revisionato), può diventare ogni giorno un pretesto per fare arretrare le lancette del nostro orologio evolutivo. La riserva di protesta assicurata dal razzismo interno italiano in questo momento non è a portata di zolfanelli. Ma solo perché gli appuntamenti elettorali non sono immediati. Noi sappiamo bene che quella riserva è sepolta dappertutto in Italia e sappiamo che le “basi logistiche” sono tanto al nord quanto al sud.

Il rammendo strategico

E’ arrivato intanto il settecentenario della morte di Dante Alighieri a renderci manifesto ciò che già avevamo abbastanza intuito ai tempi del nostro liceo: la terribile, grande, storica disunità d’Italia. Una realtà profonda, radicata, viscerale, palmo a palmo nel nostro territorio, in cui lo stereotipo nord-sud a volte è niente rispetto allo stereotipo “Firenze-Siena” o a quello “Pisa-Livorno”. Dante ci ha disegnato una marea di inaudita violenza di cui la cantica dell’Inferno è un grido potente rispetto alle poche cose (non pochissime) che l’unità d’Italia dal 1861 a oggi ha saputo promuovere per rimescolare profondamente le carte.

La crisi sanitaria e, diciamo pure, sociale e politica in cui oggi Milano e la Lombardia debbono ricollocare immagine, relazioni e soprattutto interpretazioni è tuttavia sfidante. Anche se il sicuro appuntamento elettorale autunnale per Milano e la ipotesi di anticipazione di scadenza elettorale per la Regione non fanno certo pensare ad una improvvisa saggezza culturale che si impadronirà del nostro modo di discutere, di valutare e di eleggere.

Eppure grandi voci del nostro patrimonio culturale e civile (parlo per la parte lombarda, ma hanno pari forza le fonti meridionali) da Alessandro Manzoni a Cesare Beccaria (per stare nell’ambito di una famiglia) o da Carlo Cattaneo a Filippo Turati (autore di una non nota “questione meridionale”); ovvero dall’età di Bianca Maria Visconti (e la sua gestione senza pregiudizi della diplomazia culturale aperta agli italiani) all’età moderna di Anna Kulisciof, Alessandrina Ravizza o Ersilia Majno – ci offrirebbero magnifici spunti simbolici per dimostrare, a noi stessi e all’Italia, che proprio nel momento delle verifiche il tema di utilizzare la piattaforma della crisi per migliorare il nostro ruolo nella percezione identitaria collettiva lo possiamo e lo sappiamo esprimere all’altezza dei problemi.

Oltre – con ripetuti esempi al presidente Mattarella, Mario Draghi ha certamente intùito a questo riguardo. Ma forse non ha tempo. Basterebbe uno stimolo per sintonizzare alcune possibilità di aprire un capitolo di “uscita italiana” dalla pandemia che non peserà come le disuguaglianze vaccinali, come lo stuolo delle piccole imprese che non riapriranno o come l’assalto del virus alle Rsa, ma però ricostituiranno l’asse verticale del Paese come un regalo all’Europa, al Mediterraneo e a noi stessi.

Stefano Rolando

1 Ne ha scritto in questo senso nel pieno lockdown del 2020 Isaia Sales su Limes (Uniti ma fragili. Cosa ci insegna il virus, 13.5.2020): “Contro pronostici e razzismi finora il Sud ha tenuto, mostrandosi ligio e solidale. Non così i politici regionali, che però deludono anche al Nord. La débâcle della sanità lombarda non ispira ancora rivalsa. La favola della carità̀ mafiosa. Dobbiamo ripensare l’Italia”. Manca ancora il bilancio aggiornato.



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  1. guido tassinaricaro Rolando, una piccola aggiunta (spesso trascurata, persino in un sito come questo dedicato all'urbanistica) all'analisi: la trasformazione di Milano in "città universitaria" (come Bologna ecc. quarant'anni prima) ha prodotto un'enorme rendita immobiliare per le famiglie mianesi che potevano comprare case, molto prima dell'arrivo di airb'n'b ecc. In più o meno parallelo all'arrivo di immigrati stranieri (meno dell'un per cento degli abitanti prima del '90, ora circa il 25%). Sicché una notevole fetta di milanesi ha vissuto propriamente di questo, e, di conseguenza, poco o punto interesse a usare risorse pubbliche (alias tassazione o contributi a la piano casa fanfani, banalizzando) per case popolari per gli immigrati (che fossero connazionali o meno)
    22 aprile 2021 • 12:06Rispondi
  2. Annalisa FerrarioGli stranieri però sono il 20%, non il 25. Comunque è vero che c'è chi lucra sugli affitti alti per le case per poveri, è sempre successo, anche all'estero. Maggior ragione per promuovere un intervento sul tema (se si è di sinistra o in generale attenti alle classi disagiate, vero...)
    24 aprile 2021 • 21:49Rispondi
  3. guido tassinaricara Ferrario, sì e no: gli stranieri residenti sono circa il 19%, a cui vanno aggiunti i non censiti, gli invisibili, i "clandestini", (stimati in altro 2%), e i transeunti, non interessati alla residenza (altro 2 o 3%), che comunque incidono sul mercato immobiliare. Comunque grazie della risposta, l'importante è esserci compresi sulla sostanza
    27 aprile 2021 • 17:00Rispondi
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