25 aprile 2021

CASA DOLCE CASA?

Dolce sì ma non come prima


So che ormai non ne potete più. L’ennesimo articolo sul Covid-19! Tanto ormai siamo in zona gialla, dite giustamente voi, quindi poco ci cale … Eppure c’è un tema che il vostro amichevole architetto di quartiere ha già affrontato, ma che richiede un’ulteriore messa a fuoco. Quello della casa, della propria magione, oggetto di un uso (che sovente sconfina nell’abuso) assai intensivo in questi tempi strani ed interessanti.

cafiero

La maggior parte del dibattito verte su come dovranno essere costruite le nuove case, in modo da poter ottemperare alle esigenze che si sono palesate durante i lunghi mesi di smart working e D.A.D.

Boeri ci diche che fondamentali sono tre questioni, ovvero “la mobilità, che dovrà appoggiarsi esclusivamente su fonti rinnovabili; la forestazione, da portare avanti su tutto il territorio nazionale, a partire dalle 14 aree metropolitane; la transizione energetica, che dovrà prevedere una rete di imprese locali per la produzione di energia pulita”. Tutto questo si potrà fare “chiedendo alle aree urbane di salvaguardare la campagna agricola e i piccoli insediamenti sparsi nei territori delle aree centrali”. E Cino Zucchi sottolinea che “dobbiamo progettare e costruire edifici e spazi urbani che ci sopravvivano. Bisogna progettare spazi urbani e domestici molto ben definiti nei loro caratteri fondamentali, ma anche capaci di ospitare funzioni e ruoli diversi nel tempo”.

Tutto sacrosanto, ci mancherebbe. Ma forse sfugge ai dibattenti che la maggior parte di noi vive già in una casa. Di proprietà o in affitto, poco importa. Il punto è che a noi nessuno pensa. O meglio, le risposte che arrivano dalla politica, nazionale, ma soprattutto locale, sono in buona sostanza il potenziamento degli spazi pubblici, i servizi a 15 minuti e… i tavolini! Intendiamoci, anche io non vedo l’ora di sedermi all’aperto per bere un buon caffè o a mangiare un panino senza l’assillo di dover trovare una panchina libera o anche solo un panettone in cemento non troppo sporco, ma temo che queste misure, un po’ come l’urbanistica tattica e le ciclabili dipinte di viale Monza, andranno perdute nel tempo come lacrime nella pioggia (cit.).

Per quanto il settore edilizio sia in fermento e le nuove costruzioni residenziali non manchino, i dati parlano chiaro. A livello nazionale nel secondo trimestre 2020, nel comparto residenziale, vi è stata una forte diminuzione: – 25,6% per il numero di abitazioni e -18,4% per la superficie utile realizzata. E ancora peggio è andato il settore non residenziale, con un rilevante decremento (-41,3%) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quindi, per quanto si costruisca nuova edilizia (ma quanta di questa sarà sociale o convenzionata?), quella che dovrebbe risolvere il problema delle mutate esigenze abitative (sempre ammesso che questa venga progettata in modo “nuovo” appunto, cosa tutt’altro che scontata), la maggior parte di noi si dovrà tenere le “vecchie” case con tutti i loro limiti. Soprattutto in una città come Milano, in cui giustamente non si fa più consumo di suolo e al limite si procede per sostituzione del tessuto edilizio. Magari densificando un po’, ma non ditelo a voce troppo alta che altrimenti iniziano a strepitare i vari comitati di quartiere contro le torri che, orrore!, deturpano il nostro bel paesaggio fatto di casette di marzapane e mulini bianchi.

Sto divagando. Questo anno di clausure più o meno forzate ha messo a dura prova non solo noi, ma pure le nostre abitazioni. Tavoli da pranzo trasformati in scrivanie perenni con una media di due laptop e un tablet oltre ai 3 faldoni appoggiati a terra, cucine utilizzate come aule scolastiche virtuali, tra tabelline del 9 e sugo al pomodoro, lampade e abatjour piazzati strategicamente da novelli registi per illuminare i propri cari durante le famigerate riunioni in zoom (che sotto la camicia e la cravatta, se va bene, siamo in pantaloni della tuta…). Tutto questo in 80 mq. Per non parlare poi dei balconi, il cui utilizzo è stato scaglionato e oggetto di prenotazioni che nemmeno il Boeucc ai tempi d’oro.

Case usate 24 ore su 24, laddove prima si usciva la mattina e si tornava chi a pranzo e chi a fine giornata, lasciando un po’ di respiro alle nostre quattro mura domestiche. A proposito di respiro, vogliamo dire del deficit di salubrità nel tenere le persone chiuse nello stesso ambiente tutto il giorno, soprattutto nei mesi invernali in cui non sei proprio invogliato a spalancare le finestre. Tralasciando gli aspetti psicologici, ovviamente. Non so voi, ma questo anno di lockdown, mi è costato da molti punti di vista e per di più anche in termini di consumi. Bollette più care, causate da un utilizzo intensivo di elettricità e riscaldamento.

Vabbè ora che, come si diceva all’inizio, torniamo in zona gialla, tutto sarà come prima. Quindi, caro architetto, lei si sta agitando per nulla. Eh, no! Ormai vi conosco, quattro lettori, per quanto vi voglia bene, questa volta siete in errore. Nulla sarà più come prima. Purtroppo…e per fortuna!

Lo smart working, da soluzione emergenziale, sta diventando un’opzione sempre più strutturale. Anche perché si è visto che a parità di stipendi è aumentata la produttività (soprattutto nel privato) e sono diminuiti i costi (spese di mantenimento degli uffici, trasferte, etc.). Per molti non si tornerà indietro.

E per quanto la riapertura delle scuole proceda doverosamente, non è così scontato che quelle di livello superiore o le università non adottino modalità ibride almeno per i prossimi tempi.

Quindi il tema rimane. Viviamo in case per lo più inadatte, salvo pochi fortunati. Se non abbiamo gli occhi e gli orecchi foderati di un salume a scelta, ma anche di tofu per non offendere la sensibilità dei vegetariani, se non facciamo Struthio Camelus di cognome, se non abitiamo al 42° piano del Bosco Verticale (che ne ha al massimo 26), dovremo ammettere che la questione è aperta e va affrontata.

Come adeguiamo il patrimonio esistente? Non è facile. Il Super Ecobonus 110% (o comunque lo vogliate chiamare), con tutti i suoi arzigogoli burocratici e procedurali, va comunque nella direzione giusta. Riqualificare il patrimonio esistente, efficientandolo dal punto di vista energetico. Ma non basta. Perché si tratta di una misura shock, temporanea e non strutturale. Serve a far ripartire un settore in sofferenza, ma non può certo -e non deve- drogarlo per sempre.

Manca al momento il contributo dell’urbanistica e dei regolamenti edilizi.

A Milano abbiamo un PGT appena approvato, proiettato al 2030, passando per il 2026 e già in parte vecchio, superato dagli eventi di questo difficile anno. Dobbiamo confrontarci con un regolamento edilizio e con norme che penalizzano il cambio d’uso in determinati ambiti. È ragionevole prevedere che nel prossimo futuro avremo un patrimonio di metri quadri di terziario e commercio che rimarranno sfitti o inutilizzati e che si potrebbero convertire a nuove residenze, per venire in contro alle esigenze di cui sopra. Ma sono tutte operazioni piuttosto onerose in termini urbanistici, se non cambiano alcune norme. Se nel mio quartiere (quello dell’ottava Triennale) voglio allargare una finestra devo andare a mendicare il permesso in Sovrintendenza, il regno del diniego, grazie ad un provvedimento ad hoc regalatoci dal precedente ministro Bonisoli. A proposito, caro Comune, che fine a fatto il ricorso contro questa prepotenza ministeriale? È rimasto solo nei comunicati stampa o è andato avanti? Chiudo la parentesi personale e torno al tema, ampliando la scala.

A ben vedere questa emergenza sanitaria (che poi, scusatemi, ma se dura da più di un anno, perché continuiamo a chiamarla emergenza? Non capisco…) ha messo in luce molte delle nostre debolezze ed inadeguatezze. Soprattutto ha (di)mostrato quanto poco siamo capaci di reagire ed adattarci al cambiamento. Quanto poco siamo… lo sto veramente per dire? …resilienti!!

Lo osserviamo anche e soprattutto in campo urbanistico. Vero e proprio ambiente in cui vi sono più conservatori che ad un congresso texano dei Repubblicani. Se è vero che il concetto di standard è andato in pensione con la LR 12/2005, in realtà abbiamo solo iniziato a chiamarlo servizio (da monetizzare, per lo più). Forse è arrivato il momento di guardare le cose in modo diverso, parlando di carico antropico, di impronta ecologica, di orientare le scelte strategiche a qualcosa di più di un semplice greenwashing.

Penso che su questo ultimo tema Arcipelago promuoverà un dibattito, interessante e costruttivo.

Pietro Cafiero



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  1. Pietro VismaraMi scusi, ma in che senso le norme urbanistiche penalizzerebbero i cambi d'uso, che da anni sono completamente liberalizzati?
    28 aprile 2021 • 08:30Rispondi
  2. Cesare MocchiMah, è da sempre che i piani regolatori si occupano di servizi. Cosa c'è di male? Di che altro dovrebbero occuparsi?
    28 aprile 2021 • 10:11Rispondi
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