3 agosto 2020

SPORT, SAN SIRO, OLIMPIADI: MILANO CITTÀ ANTISPORTIVA

l tradimento di un’antica tradizione travolta dall’esternalizzazione e dalla privatizzazione


La vicenda dello stadio di San Siro è un altro emblema delle contraddizioni che da oltre un secolo accompagnano la crescita di Milano, una città che all’insegna di uno sviluppo miope ha sacrificato la più ricca rete di navigli, che dopo la guerra non ha ricostruito i suoi antichi quartieri, che ha sacrificato verde urbano e campagna, ha cancellato il trasporto metropolitano del “gamba de legn”, non ha saputo elaborare un progetto territoriale equilibrato.

Targetti

La vicenda dello stadio di San Siro si sintetizza nel fatto che il Comune non vuole perdere i circa dieci milioni di entrate per l’uso dello stadio da parte delle due squadre milanesi e quello che appare un braccio di ferro (per chi crede in Sala) tra Sindaco e società di calcio, in realtà è una sceneggiata che ha lo scopo di attrarre simpatie e voti.

Il Comune di Milano deve cercare soldi per il suo apparato municipale che, seppur ridotto in modo drastico in un ventennio di tagli, è pur sempre uno dei più numerosi d’Italia. A fronte delle mancate entrate a causa del coronavirus (Sala ha detto oltre 400 milioni), la città non può permettersi di perdere anche i soldi di San Siro.

E questo è il ricatto dei due club. C’è chi afferma apertamente, come il consigliere di “Milano in Comune” Basilio Rizzo, che Sala stia facendo campagna elettorale e ora si dichiara contrario per attrarre i voti dei settori più sociali della città, ma poi, passate le elezioni e magari rieletto, di fronte a un progetto leggermente ritoccato con qualche arbusto e un campo giochi per i bambini, dirà che va bene e che non c’è soluzione migliore rispetto a quella proposta da Inter e Milan e concordata con lui. Ma in Consiglio Comunale Basilio Rizzo non è l’unico contrario al progetto del nuovo stadio e anche nella maggioranza e nel partito di riferimento del Sindaco si alzerebbero mani contrarie.

Il progetto perorato dalle squadre di calcio è coerente con la mentalità generale maturata durante il lungo periodo delle amministrazioni di destra: cemento, appariscenza e ruolo passivo dei cittadini, con i centri commerciali e le “movide”come luoghi di vita. Col lungo periodo di centrodestra Milano ha perso la sua antica vocazione sociale, vocazione che non è stata minimamente rispolverata né con Pisapia, né con Sala. E i nuovi esponenti del Partito Democratico, cresciuti nell’era dalla de-ideologizzazione, in realtà hanno nell’ideologia del profitto la radice del loro pensiero. Milano ha privatizzato pressoché tutti i servizi comunali e lo sport rientra perfettamente in questo processo.

Gran parte delle strutture sportive milanesi (tra cui lo Stadio di San Siro, il Vigorelli, la “città dello sport” del Lido, la piscina Cozzi, il centro sportivo Giuriati, i centri balneari Romano, Caimi, Ponzio, e molte altre strutture), sono state costruite in gran parte in periodo fascista, quando la città contava il 60% degli abitanti attuali.

Una seconda spinta sportiva, ampiamente minore rispetto a quella del periodo fascista, s’è avuta negli anni dal 1955 agli anni ‘70 con la costruzione di alcuni centri sportivi e le piscine rionali, quando il nuoto era considerato “lo sport più completo” e quasi un diritto sociale e la popolazione raddoppiò rispetto a quella di metà anni ‘20. Tra gli ultimi impianti costruiti ci sono il centro sportivo Saini (anni ’70), il palazzetto dello Sport, crollato sotto la neve nel 1984, e il centro sportivo Carraro costruito nella prima metà degli anni ‘80 con oneri di urbanizzazione (di un insediamento “borderline” di Ligresti).

Con la deindustrializzazione della città e la sua metamorfosi terziaria, lo sport ha perso il suo senso sociale e gli impianti sportivi, pur di proprietà comunale, di fatto sono stati via via privatizzati. Il Comune ha ceduto a federazioni e società sportive numerosi impianti che prima erano gestiti dall’ex colosso di emanazione comunale, il Centro Milanese per lo Sport e la Ricreazione, divenuto poi Milanosport nel 1993.

Ora lo storico centro sportivo Pavesi è della FIPAV, il campo XXV Aprile della Federazione Badminton e Cus Milano-ProPatria, il campo Giuriati del Cus Milano-Pro Patria, il centro sportivo Bonacossa della Federazione Tennis Tavolo, il Kennedy alla FIBS, la palestra Cappelli Sforza della Polisportiva Garegnano e così via.

Queste gestioni private hanno teso a sviluppare le proprie attività pur mantenendo spazi polivalenti. In questo modo Milano si è liberata dell’onere di un servizio che ha ritenuto erroneamente secondario e un genere voluttuario per i cittadini e non ha più elaborato una politica sportiva coerente con le esigenze reali della città e magari proiettata in un futuro che dovrà essere molto diverso rispetto al modello di vita dominante fino ad ora.

La cessione delle strutture sportive milanesi a Federazioni, Enti di promozione sportiva o Club non ha impedito che emergessero i problemi maturati nel tempo e che richiedevano interventi di ristrutturazione e riqualificazione, specie in relazione alle norme di sicurezza degli impianti; costi che spesso sono stati scaricati sui gestori.

Le ristrutturazioni dei centri sportivi da parte del Comune si sono spesso accompagnate a contenziosi legali e fallimenti delle imprese vincitrici delle gare d’appalto, che hanno prolungato i tempi in modo insopportabile. In questa situazione le norme per gli appalti fanno la parte del leone: vince chi propone i prezzi più bassi e così poi i lavori sono fatti con materiali scadenti o non vengono finiti o non sono a norma.

Per tali ragioni il Palalido è rimasto chiuso per 6 anni, il campo XXV Aprile ha visto posare una pista non a norma e la struttura per le gare indoor per le gare veloci – pure non a norma – è chiusa da tre anni e soffre le ingiurie del tempo e dell’abbandono. Problemi e lungaggini ci sono per il centro sportivo Kennedy, il centro balneare Ponzio, mentre il centro sportivo Carraro è chiuso da quasi due anni (e si prospetta che lo rimarrà per almeno altri due) in attesa che il TAR risolva il contenzioso tra ditte pretendenti ai lavori di riqualificazione. Questi sono solo alcuni dei centri sportivi che hanno problemi con la città. Ma ci sono altri problemi, come contratti di gestione diversi (gestori che pagano di più e altri che pagano di meno), diverse tariffe per l’uso degli impianti del medesimo tipo o tariffe uguali per impianti molto diversi (ad esempio per le dimensioni delle palestre).

Milano si è dimostrata politicamente miope proprio in prospettiva di una società del XXI secolo, nella quale un sempre più elevato grado di sedentarietà e “asocialità” anche sul lavoro (vedi l’isolamento con lo smart working) generano problemi per la salute psicofisica di un numero sempre più elevato di persone, problemi che devono essere affrontati – pena gravi ricadute socioeconomiche – con un’adeguata disponibilità di spazi di vita e movimento svolti socialmente e all’aperto.

Le palestre private, infatti, pur soddisfacendo parte delle esigenze delle persone, riscontrando quindi un notevole successo, mancano degli elementi essenziali della vera socialità che caratterizza gli sport svolti negli spazi all’aperto e verdi. Sì, perché anche l’aspetto ambientale naturale è importante per la salute psicofisica.

Gli amministratori di Milano degli ultimi trent’anni, coerenti col pensiero unico del “business”, e quindi convinti che la modernità consistesse e potesse venire solo dalle attività private, hanno abbandonato il campo dello sport come indispensabile mezzo e luogo di formazione psicofisica e sociale, assegnando il nome di sport alle attività delle palestre private e assegnando loro quel ruolo che esse non potranno mai svolgere, cioè sostituirsi alle attività sportive classiche o allo sport moderno come lo conosciamo dall’800.

Infatti, al termine del periodo di lockdown, tra le prime notizie date dagli uffici stampa del sindaco Sala spiccava quella della ripresa dello sport mostrando in TV, ad accompagnare il messaggio per un paio di giorni, immagini di palestre private. Messaggio che in tal modo è diventato, col più potente mezzo di informazione-formazione, promozione commerciale e formazione “culturale” di massa.

Povertà culturale e affari sono l’accoppiata che caratterizza l’attività fisica contemporanea che si sublima nelle palestre private: culto narcisistico, da specchio, dell’immagine del corpo senza fini di prestazione individuale o di squadra, senza senso di appartenenza a un gruppo, senza percorsi agonistici, senza quegli aspetti emozionali individuali e di squadra legati al momento agonistico, alla vittoria o alla sconfitta, senza il rispetto delle regole, senza il fair-play, senza l’emozione o la paura di trovarsi davanti a un pubblico. E si potrebbe andare avanti ancora. Sia chiaro, la “palestra” è più che lecita, ma non è sport e solo una parte di coloro che le frequentano cercano un equilibrato benessere psicofisico.

Lo sport è ben altra cosa e si caratterizza in tutta quella serie di aspetti che la palestra non ha. Ma è per queste caratteristiche che lo sport è un formidabile mezzo di formazione individuale e sociale e come tale dovrebbe essere visto e sostenuto con mezzi e strutture adeguate da coloro che governano il territorio o la nazione.

Lo straordinario ruolo sociale dello sport nelle grandi città europee e nostrane è stato esaltato dalle nuove immigrazioni, che per noi hanno preso consistenza verso la fine del secolo scorso, con i quartieri delle periferie urbane che sono andati riempiendosi di giovani provenienti da paesi extra-europei e dall’Europa dell’Est. Con gli sport questi giovani hanno in primo luogo socializzato con i loro coetanei accettandosi reciprocamente e abbattendo il muro culturale che ancora esiste per molti dei loro genitori, hanno imparato la nuova lingua, si sono inseriti socialmente; compiti sociali che solo la scuola ha potuto affrontare in modo più intenso.

Ma se pressoché tutti i paesi della Comunità Europea si sono trovati pronti a favorire questo percorso grazie a una maggiore cultura sociale dello sport e una buona dotazione di impianti sportivi aperti a tutti, così non è stato per il nostro Paese, dove la proposta di “cultura fisica” prevalente è quella della palestra privata e quindi, in primo luogo per ragioni economiche, respingente per i giovani d’origine straniera, specie per africani e latinoamericani. Inoltre, in Italia, anche la dotazione di spazi sportivi liberi è molto ridotta rispetto alle esigenze e le società sportive di periferia compiono sforzi notevoli per proporre un’attività sportiva adeguata.

A conferma che Milano non ha più la sua storica vocazione sociale, per ciò che riguarda lo sport c’è il problema delle tariffe comunali che impongono prezzi molto elevati per l’utilizzo delle strutture sportive, obbligando i Club a proporre quote associative di diverse centinaia di Euro, col risultato che anche lo sport di base presenta talvolta dei costi notevoli che molte famiglie non possono affrontare. Assenza di spazi e costi elevati sono le ragioni per le quali nei quartieri di periferia ci troviamo di fronte a frotte di giovani quasi inerti che vagano senza meta o si “parcheggiano” su panchine, marciapiedi o in qualche locale.

Alcuni esempi “esterofili” permettono un confronto utile a comprendere la situazione. In Svizzera ci sono, sparsi su tutto il territorio della Federazione, oltre 500 percorsi vita. Nati nel 1968, sono stati uno strumento fondamentale per costruire una cultura fisica che fa della Svizzera uno dei Paesi più sportivi e più sani in Europa.

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Inizio anni ’70: bambini e giovani sui percorsi vita

Inizio anni ’70: bambini e giovani sui percorsi vita

 

Negli anni ’90 è stato elaborato il progetto “Sport e Giovani”, che ha visto costruire in tutto il territorio elvetico numerosi centri sportivi rivolti ai giovani. Un esempio mirabile di struttura sportiva polivalente è il Centro sportivo nazionale della gioventù Tenero (CST), situato sulle sponde del lago Maggiore, nei pressi di Locarno. Il 60% dei giovani svizzeri pratica sport nell’ambito del progetto nazionale Sport e Giovani. I risultati sono notevoli sia in ambito preventivo per la salute e l’efficienza fisica, sia in ambito agonistico.

Centro sportivo Federale di Tenero

Centro sportivo Federale di Tenero

Nel territorio comunale di Monaco di Baviera, città delle dimensioni di Milano, ci sono oltre 50 piste di atletica leggera aperte al pubblico, mentre a Milano attualmente sono 5 di cui una solo in stato accettabile e utilizzabile per competizioni. È lo stesso numero di piste di Nancy, città francese di centomila abitanti, dove sono tutte in ottimo stato e a costi “popolari”.

Anche con gli impianti per lo sport di vertice e di spettacolo sportivo Milano non è propriamente una città europea, ma una delle città con la più scarsa dotazione sportiva di rango internazionale: non ci sono le piscine olimpiche, non c’è un velodromo, non c’è un palazzetto dello sport polivalente, manca uno stadio olimpico. In merito a quest’ultima struttura il modello di riferimento per il futuro è sempre lo Stadio Olimpico di Monaco di Baviera, immerso in un parco con molte strutture per lo sport e il tempo libero. È semi interrato e quindi sporge poco dal livello del terreno e ha un ridotto impatto ambientale. Il fatto che sia semi interrato comporta che le vie di uscita, collocate a metà tribuna, permettano un rapido flusso di uscita del pubblico. La copertura delle tribune è con una tensostruttura leggera, anch’essa a ridotto impatto ambientale, facilmente smontabile.

Con l’Olympiastadion di Monaco, ancora assoluta avanguardia secondo i concetti attuali di impatto ambientale, siamo ai Giochi olimpici del 1972!

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Le scelte di un’Amministrazione comunale non sono solo politiche, ma hanno anche un senso “pedagogico” per i cittadini; vale a dire che dettano ai cittadini quali comportamenti assumere in quello specifico campo. A Milano si persegue un modello sportivo proiettato verso la creazione di un cittadino passivo, tifoso, consumista, preferibilmente che pratichi una narcisistica attività fisica di palestra.

Siamo su concetti antitetici rispetto a quelli dello sport vero, che prevede autodisciplina, lealtà, “fair play”, senso di squadra, perseguimento di prestazioni in un leale confronto con i compagni. Lo sport dunque, secondo l’idea originaria di Thomas Arnold, fatta propria dal barone De Coubertin, ha una straordinaria valenza educativa e sociale. Così pensano ancora in molti, ma non coloro che credono che dallo sport si debba trarre esclusivamente profitti. Milano dalla fine del 1900 ha scelto questa seconda strada, che si concretizza nel risparmio della pubblica amministrazione a vantaggio dei privati, come da nuova “regola aurea” di questo scorcio di inizio XXI secolo.

Milano, prima fra le città italiane, nel 2019 aveva decretato l’emergenza climatica e ambientale. Ma poi molte scelte dell’Amministrazione sono andate in senso contrario e la vicenda di San Siro ne è una dimostrazione. Così, nel progetto di un nuovo stadio, anziché ideare soluzioni ecocompatibili con spazi verdi e di reale benessere fisico, si fanno progetti faraonici come quelli che si vedono negli Emirati Arabi o come visto per i Giochi olimpici di Pechino, i quali però vanno assolutamente in senso contrario alle reali esigenze di un rapporto equilibrato tra uomo e ambiente e di una popolazione in piena salute psicofisica.

Anche il nuovo San Siro rientra nelle nuove tendenze del “business” sportivo, con centri commerciali e vita passiva o al massimo di moda dello sport, dove comunque il cittadino è mero consumatore e lo sport è veicolo di una concezione esattamente contraria rispetto a quella originale di educazione e formazione individuale e sociale; concezione più che mai attuale per chi ritiene che l’essere umano debba essere il fine.

L’idea che va per la maggiore è che propugnare concezioni e obiettivi “classici” dello sport sia mero conservatorismo. In realtà è il contrario: la concezione sedicente moderna e affaristica dello sport è vecchia, perché tende a rendere l’uomo passivo e ne peggiora la vera qualità della vita. È una concezione che non sa cogliere le esigenze reali della società attuale, che in modo sempre più urgente reclama un’umanità cosciente del suo rapporto con l’ambiente e partecipe alla realizzazione di questo rapporto.

Per concludere, i Giochi Olimpici di Milano hanno lo stesso significato antitetico ai concetti dello Sport, alle dichiarazioni di una Milano ambientalista e rivolta al benessere dei cittadini. In Olimpia si radunavano i campioni che giungevano da tutto il modo ellenico per competere lealmente (in realtà qualcuno barava), ciascuno con le proprie forze. Pur essendo attività agonistiche assolutamente individuali, tutti gli attori dei Giochi dovevano stare “a raccolta”, vivere insieme per il periodo olimpico allenando il corpo e lo spirito.

I Giochi di Milano-Cortina sono una diaspora, una dispersione in tutto il Nord-Ovest di sportivi e pubblico. Cosa assolutamente contraria allo spirito olimpico ma coerente con lo spirito del denaro e che costerà cara ai cittadini e al territorio. Ma questa è un’altra storia, sulla quale ritorneremo.

Luciano Bagoli



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  1. walter moniciMilano non esiste più. Chiamatela Dubai
    5 agosto 2020 • 11:41Rispondi
  2. luigi caroliComplimenti Luciano Bagoli. Hai scritto un articolo bellissimo dimostrando un'invidiabile conoscenza degli impianti sportivi di Milano. Sala, eletto grazie alle bugie su Expo narrate dai giornaloni, non merita di essere rieletto. Per le periferie ha fatto zero.
    7 agosto 2020 • 15:04Rispondi
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