7 giugno 2020

LA DISTOPIA DELL’ELEFANTE

Riflessioni prima e dopo il Covid-19


La cronaca di quel che succede in Paesi a miglia di chilometri da noi ci fa riflettere sul loro mondo e sul nostro e sulla parsimonia che non è dolorosa rinuncia ma coscienza del nostro destino

beltrami filippo3

Il fatto: muore un elefante dopo aver ingerito un ananas al quale erano stati legati degli esplosivi. La notizia si diffonde in tutto il mondo attraverso i consueti canali di comunicazione. La vicenda ha particolari elementi, tali da renderla degna dell’attenzione dei più: per calmare il dolore atroce provocato dagli esplosivi, l’elefante ha probabilmente cercato l’acqua, e lì in piedi, nel letto di un fiume, è morto. Si legge infine che l’animale era anche in attesa di un cucciolo, morto come la madre.

Di per sé la notizia ha tutto quello che serve per farci uscire dai gangheri: 
– la cattiveria congenita dell’essere umano, immutata anche dopo le tribolazioni del virus: pensavamo di uscirne migliori e invece forse è vero proprio il contrario.
– l’ennesimo attentato da parte dell’uomo nei confronti di una natura bonaria e selvaggia per definizione, che vediamo scomparire sotto i nostri occhi, e nei confronti della quale siamo dei corruttori senza rimorsi e senza rimedi. “Meritiamo l’estinzione”, si dice spesso.
– La crudeltà del gesto, ma anche la spettacolarità di questa morte specifica: la bestia è morta in piedi e nell’acqua che aveva disperatamente cercato per lenire il dolore.
– Non da ultimo, anzi forse per primo: l’elefantessa era incinta e anche il cucciolo è morto. Omicidio doppio e doppiamente crudele.

Con le ore emerge un dato significativo: non si è trattato di una bravata di qualche essere sciagurato, degno – secondo un’opinione corrente – di una morte possibilmente atroce come quella della sua vittima, e che appagherebbe tuttavia la nostra sete di vendetta. L’ananas mortale non è stato offerto all’elefante. La bestia, che aveva evidentemente scelto di avvicinarsi agli spazi dell’uomo, ha ingerito involontariamente una trappola che gli abitanti del luogo utilizzano abitualmente per difendere le coltivazioni da parte dei cinghiali. Trappole che fanno parte sistemica nel processo produttivo dell’agricoltura locale, e per la difesa della quale la morte dell’elefante è un episodio del tutto accidentale.

Una prima riflessione: ogni giorno l’essere umano provoca distruzioni e danni al mondo vegetale, animale così come a quello inorganico. Ogni giorno. A noi di questi fatti ne giunge una parte assolutamente esigua e irrisoria. Sui meccanismi tipici e sui canali della comunicazione quotidiana si è detto di tutto, e difatti quest’avvenimento – relativo quasi esclusivamente ai risvolti di tipo emotivo che suscita nei lettori – è stato raccontato e confezionato a nostro uso e consumo.

Per noi, a corto forse di ideologie nelle quali riconoscerci, che ormai agiamo quindi quasi esclusivamente attraverso pulsioni emotive, noi che auguriamo a priori e comunque la morte a tutti gli anonimi sciagurati, che abbiamo teoricamente cara la difesa degli ecosistemi in pericolo, che umanizziamo ogni animale col quale entriamo in contatto, a partire dai cani e dai gatti.

Per noi che reagiamo alle notizie con la consapevolezza primordiale di un bambino. Per noi che immediatamente pubblichiamo disegni e vignette strappalacrime, nelle quali appunto tentiamo di riportare e ridurre sempre e comunque il regno animale attraverso paradigmi antropologicamente domesticati e riconoscibili. Quel meccanismo che io chiamo della “elevator music”: ogni brano musicale, anche il più complesso, innovativo, controverso mai creato, una volta raggiunto un livello imprecisato di successo commerciale, viene rielaborato, riscritto e reinterpretato, e finisce col diventare una rassicurante melodia di sottofondo.

Come ascoltare una fantomatica cover stucchevole e ammiccante di Rock in the Casbah nei centri commerciali del Medio Oriente. Una domesticazione che divora tutto. L’enorme complessità del regno animale è ridotta a nostro uso e consumo, edulcorata attraverso l’approccio superficiale dei tempi.

Spezzo una lancia. I gatti non piangono: se hanno gli occhi pieni di lacrime, vanno portati dal veterinario. I cani, se appoggiano la fronte al muro, non stanno facendo atto di contrizione per aver rovinato il divano, ma sono affetti da una malattia mortale che va curata immediatamente. Il leone gioca con gli uomini solo perché ha la pancia piena: potendo scegliere, avrebbe preferito starsene per i fatti suoi, invece che elargire abbracci all’umano di turno.

Lo stesso vale per tutti i rettili: di nuovo, la bambina che gioca col boa nel soggiorno di casa deve solo ringraziare che il serpente abbia mangiato da poco. Credo insomma che prima di piangere, tutti noi collettivamente dovremmo ridare dignità agli animali, indistintamente: da quelli di casa ai pinguini dell’Antartide. Smettere di vessare gli animali domestici con i nostri capricci, creare meno sofferenze possibili a quelli di cui ci dobbiamo inevitabilmente nutrire – se abbiamo canini da millenni purtroppo un motivo ci sarà – e tenere le giuste distanze da tutti gli altri.

Lasciamo in pace gli animali. Salvo poche eccezioni, essi ci temono o sono assolutamente disinteressati alle nostre vicende, ai nostri bisogni. Potrà sembrare triste, ma sì, non siamo generalmente benvoluti. Facciamocene una ragione, anche perché i motivi sono assolutamente evidenti. Ogni anno costringiamo miliardi di animali a vite miserevoli, dolorose, infernali. Ma piangiamo per l’elefantino mai nato.

Detto questo: la notizia, che riguarda poi il tema reale dei modi con i quali i contadini del Kerala difendono le proprie coltivazioni, è in verità molto più inquietante della vicenda della povera elefantessa. Anonimi cinghiali, maschi, femmine, anche incinte evidentemente, i loro cuccioli, e forse non solo questi, fanno la stessa fine – ogni giorno – del singolo pachiderma, la cui morte diventa rilevante solo perché si sono verificate delle condizioni assolutamente casuali.

Noi, che dal Kerala siamo anche fisicamente distanti, non dobbiamo competere con altre specie animali per arrivare a fine mese: se il cinghiale si mangia il raccolto, questo non ha alcun effetto sul nostro stipendio; sul loro invece sì. I contadini del Kerala sono, ovviamente, più poveri di quanto non immaginiamo, e non devono o possono soprattutto essere etichettati secondo una dicotomia semplicistica tra buoni e cattivi. Sono il penultimo anello di un sistema che sottrae agli animali il loro habitat, che combatte per produrre sempre di più a costi sempre minori, e che permette a noi, ultimi consumatori, di mangiare la bistecca. Ma cosa lo dico a fare: non è una novità

Mentre il nostro mondo globale e connesso si duole giustamente di fronte alla povera elefantessa e alla sua fine terribile, in molte zone del mondo altri esseri umani, molto meno globalizzati e connessi, conducono la propria battaglia per un’esistenza decorosa esattamente come facciamo noi, e con mezzi se non consentiti, certamente tollerati o volutamente ignorati nella loro pericolosità oggettiva. Le zone coltivate si allargano – a discapito degli habitat ricchi di flora e fauna non domesticati – e devono queste essere quindi anche difese con i mezzi a disposizione: a disposizione sul posto, oggi, non nel palazzo delle Nazioni Unite fra sei mesi. 

Questi confini sempre più labili mettono l’uomo in crescente contatto con specie animali che, potendo scegliere, rimarrebbero volentieri il più lontano possibile da noi, ma con i quali, proprio per il progressivo mutare dei confini, sembra siamo destinati invece a condividere anche ospiti pericolosi se non mortali come – sembra – sia stato per il caso del Covid 19.

Se il virus non ci ha reso genericamente migliori, potrebbe forse darci invece oggi la possibilità di ripensare al nostro atteggiamento nei confronti di queste notizie, e soprattutto al modo in cui ci vengono presentate.

Cercare di essere, mi permetto, certamente disgustati da certi avvenimenti, ma tentando tuttavia anche e soprattutto di mettere in relazione singoli episodi con fenomeni di scala e portata certamente maggiori. La risposta alla morte tragica dell’elefantessa incinta non dovrebbe avere come conseguenza una caccia alle streghe verso il disgraziato di turno: qui non sono ragazzini annoiati che buttano pietre dal cavalcavia e ai quali si augura spesso l’applicazione della legge del taglione.

Qui è un sistema produttivo globale che non può più permettersi di sopravvivere con queste modalità, anche perché appunto produce morti tra gli animali, povertà tra gli esseri umani, oltre ovviamente alle ben note pandemie: siamo – pare – sopravvissuti a questa, non so quante altre ce ne potremo permettere.

Se il virus non mi ha cambiato, anche se continuo probabilmente a essere il solito spocchiosetto saccente che qualcuno di voi forse conosce, un paio di cose credo di averle imparate: si sopravvive benissimo anche mangiando e bevendo di meno, viaggiando e spostandosi di meno, comprando vestiti quando serve, uscendo meno la sera; e si sopravvive meglio informandosi di più e meglio, scrivendo, disegnando, passando parte del proprio tempo da soli, o con pochi: spendere meno facendo cose che, mal che vada, hanno costi economici irrisori.

Prima di tacciarmi di buonismo ipocrita, ricordo a chi mi legge che queste sono conclusioni personali e soggettive, che ben si guardano da voler suggerire ricette o imporre ad altri stili di vita di tipo restrittivo, rispetto al diritto al pursuit of happiness di ognuno di noi. Temo tuttavia che il prezzo da pagare per poterci permettere il nostro stile di vita corrente passi anche per la morte di questo elefante, ed è un prezzo del quale io per primo mi vergogno.

Filippo Beltrami Gadola



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