8 maggio 2021

LE DONNE NEL SISTEMA SANITARIO LOMBARDO

Favola senza lieto fine


Da qualche tempo, perlomeno nel cosiddetto mondo occidentale, si è diffusa una notizia che non potrebbe essere più falsa. Fermi lì: non sto parlando di Biancaneve. Parlo di un’altra storia, forse ancora più immaginaria; quella bella fiaba secondo cui non esisterebbero più discriminazioni retributive e di avanzamento di carriera tra uomini e donne… sicuramente non in Italia, probabilmente neanche altrove.

Copyright: Robert Neubecker, nytimes.com

Un settore che, all’apparenza, potrebbe confermare questa – in gergo tecnico-giornalistico – bufala, è quello della sanità. Come riporta uno studio dell’OMS pubblicato nel 2019, le donne costituiscono il 70% della forza lavoro impiegata nel settore sanitario a livello mondiale. Questa femminilizzazione del settore potrebbe indurci a pensare che, di conseguenza, la parità di genere sia oramai un dato di fatto nelle corsie degli ospedali e degli ambulatori.

Sorpresa: purtroppo per me, e per chi col mio genere si identifica, la parità è ancora lontana, anche per dottoresse ed infermiere. Sarebbe bello, e anche comodo, poter misurare le disuguaglianze di genere in modo assoluto: più donne ci sono in un settore, in un CdA, in un Parlamento, più saranno tutelati i loro diritti e soddisfatti i loro bisogni. Una bella fiaba, appunto.

La disuguaglianza di genere, come sottolineato dall’EIGE (Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere), non è un indicatore semplice come il tasso di disoccupazione o il PIL di un Paese; si tratta di un indicatore composito, fatto da diversi altri indicatori (disuguaglianza economica, sociale, politica…) poi sommati l’uno all’altro… un po’ più complicato di Biancaneve, vero? Un esempio concreto di indicatore composito è quello del gender pay gap, o divario retributivo di genere per i meno esterofili.

Nella sua versione più semplice, questo indicatore ci restituisce una statistica media riguardo le retribuzioni relative di uomini e donne: per esempio, dai dati UK 2019, si deduce che – in media – per ogni pound guadagnato da un uomo, una donna guadagnava 83 pence. O, in altri termini, il 17% in meno. Ma il gender pay gap può essere analizzato molto più approfonditamente che con una semplice media aritmetica. Lo si può analizzare a parità di qualificazioni, come fatto nel grafico qui sotto dall’Institute for Fiscal Studies nel 20181. Com’è evidente, mentre negli ultimi 30 anni il divario retributivo nelle categorie meno qualificate (“GCSEs”, l’equivalente della nostra maturità) si è quasi dimezzato, è rimasto sostanzialmente stabile per le categorie più qualificate (“Degree”, qualificazioni universitarie), la cui parte femminile viene pagata il 20% in meno dei colleghi uomini.

dati IFS 2018,

dati IFS 2018, disponibile a questo link 

E non finisce qui. Il divario retributivo diventa ancora più interessante (e deprimente) se lo si osserva lungo la vita di una persona. Di una donna, ça va sans dire. Nel caso dell’istogramma che trovate in coda al paragrafo, la donna in questione è laureata. Ma questo non la salva: se parte quasi alla pari coi colleghi maschi – da 18 a 25 anni il gender pay gap è al 6% di media -, ancor prima di avere un figlio si ritrova ad essere pagata quasi il doppio in meno (10%) e dopo il primo figlio il divario triplica di dimensioni (16%).

dati IFS 2018, elaborazione mia

dati IFS 2018, elaborazione mia

Fatta quest’introduzione, la seguente citazione non dovrebbe risultare sorprendente: non vi è la matematica certezza che le percentuali crescenti di occupate nel settore medico-sanitario implichino un avanzamento nella parità di genere, scrive ancora Sofia Castoldi, borsista di a Lombardia, l’ente lombardo per il raggiungimento degli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda ONU 2030.

Una lettura del suo report basta per convincersi che questa certezza non solo non è matematica, è assente. Le donne, pur costituendo gran parte della forza lavoro del sistema sanitario lombardo (il 68,1% nel 2017, dati Ministero della Salute), continuano a non essere pienamente coinvolte nella sua direzione ed organizzazione. Castoldi riporta che, nel 2018, solo l’11% delle donne ricopriva incarichi di dirigenza di Struttura Semplice (S.S.) contro il 22% degli uomini. Traduco: un uomo ha il doppio delle possibilità di giungere a un incarico dirigenziale rispetto ad una donna. Guardando i dati relativi ai dirigenti di Struttura Complessa (S.C.), il quadro peggiora nettamente – anche perché la classificazione delle strutture ospedaliere in semplici e complesse è relativa alla loro grandezza, e gli incarichi di dirigente S.C. tendono ad essere più prestigiosi. In questo caso, le donne dirigenti sono meno del 2%, contro il 10% degli uomini: in pratica, un uomo ha cinque volte più probabilità di essere selezionato per un incarico dirigenziale.

Questa segregazione verticale (la difficoltà di accesso alle posizioni apicali) può essere solo in parte imputata alle differenze demografiche (tra i medici senior la percentuale di donne è inferiore (sono il 37% nella fascia 55-59 anni) mentre nella fascia 35-39 anni rappresentano il 64% del personale medico SSN, Rapporto OASI 2019): la disuguaglianza di genere non è un fenomeno lineare, e non andrebbe studiata come tale. Si interseca ad altre discriminazioni (economiche, etniche, culturali, religiose) in maniera complessa. L’istituzione dei Comitati unici di garanzia (CUG) nel 2011, organismi destinati ad occuparsi di benessere organizzativo e parità negli enti pubblici, poteva essere un buon primo passo per iniziare a raccogliere dati sulle discriminazioni lavorative in ambito medico-sanitario in un senso più ampio, e per agire di conseguenza.

Ma quel primo passo non è stato seguito da un secondo, da un terzo, e le donne impiegate come infermiere, dottoresse, odontoiatre e ricercatrici nel sistema sanitario (pubblico e privato) sono state travolte dalla pandemia di Covid-19 senza un argine che attutisse l’impatto. Poiché costituiscono la maggioranza del personale delle ATS (e dunque dei medici di base), e la stragrande maggioranza del personale infermieristico, le donne hanno sostanzialmente tenuto in piedi il Paese durante quest’anno surreale.

L’hanno fatto anche se, come potete “divertirvi” a visualizzare cliccando qui, in Italia le donne sono ancora protagoniste nel prendersi cura di casa, figli e parenti fragili. Nurse24 riporta che il 30% dei professionisti sanitari ha scelto di separarsi dalla famiglia durante la pandemia: chissà se queste separazioni avranno, in parte, evidenziato l’impari distribuzione del carico di lavoro domestico tra uomini e donne nelle famiglie italiane? Quel che è certo è che il settore sanitario ancora non riesce a considerare le istanze delle donne valide al pari di quelle maschili (si veda per esempio la resistenza all’utilizzo di contratti part-time nelle professioni di prestigio). Questo nonostante le donne siano estremamente presenti in tale settore in rapporto alla loro partecipazione al mondo del lavoro, come evidente dalle mappe qui di seguito.

donne come % della forza lavoro, 2019. The Lancet

donne come % della forza lavoro, 2019. The Lancet

 

donne come % della forza lavoro nel settore sanitario-sociale, 2019. The Lancet

donne come % della forza lavoro nel settore sanitario-sociale, 2019. The Lancet

donne come % di ricercatrici e ricercatori, 2019. The Lancet

donne come % di ricercatrici e ricercatori, 2019. The Lancet

La naturale conclusione è che il sessismo del settore sanitario lombardo ed italiano non è casuale, come un raffreddore che passa col tempo e il passare delle generazioni; si tratta un sessismo sistemico, un cancro difficile da estirpare perché ha le sue metastasi nella cultura, nel pensiero e nelle istituzioni. Ma con una classe politica che ancora crede nelle favole, sarà solo merito delle donne impiegate nel settore – e si spera, anche dei loro colleghi – se questo divario sarà colmato.

Elisa Tremolada



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  1. fiorello cortianaSolo le donne, con le loro lotte e la loro vigilanza possono affermare la pari dignità della loro differenza e l'applicazione dei diritti conquistati. Non c'è l'eccezione per cui 'il settore sanitario ancora non riesce a considerare le istanze delle donne valide al pari di quelle maschili' questo accade ovunque le donne non esercitino un diretto protagonismo.
    21 maggio 2021 • 15:29Rispondi
  2. Elisa TremoladaMi perdoni se sono diretta: questa modalità di pensiero è esattamente ciò che sta rallentando il raggiungimento di una reale parità di diritti e opportunità. Il problema della rappresentanza femminile nei luoghi di potere, siano essi sanitari o meno, è anche e soprattutto un problema degli uomini. Perchè? Perchè fino a che vivremo in una società sessista, il potere ricadrà, anche senza merito, nelle mani degli uomini. C'è un gran bisogno di alleati, di comprendere che questo problema è di tutti e che almeno metà delle istanze femministe (di un certo tipo di femminismo) sono e saranno sempre volte anche allo studio e alla decostruzione del mito della mascolinità tossica. Fino a che anche gli uomini non si renderanno protagonisti di questo cambiamento, non vedo nessuna possibilità di progresso. L'articolo tenta di sottolineare questo fatto, facendo notare che in un SSN dove la maggioranza è donna (mi pare un diretto protagonismo quello delle infermiere e dei medici di base donna, o solo i primari sono protagonisti?), comunque certe istanze restano inascoltate.
    25 maggio 2021 • 10:58Rispondi
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