17 maggio 2022
GLI ALPINI E LA MODERNITÀ
Da Rimini a Nikolajevka, nodi identitari irrisolti tra memoria e presente.
17 maggio 2022
Da Rimini a Nikolajevka, nodi identitari irrisolti tra memoria e presente.
Rimini e Nikolajewka, fatti lontani nel tempo e nello spazio, incommensurabili e distanti. Eppure, una chiave di lettura li potrebbe coglie come segnali concordi di crisi, o passi falsi, nel rapporto tra gli alpini e la modernità, costrutto culturale di riferimento che tiene insieme i molteplici valori essenziali su cui si regge ed evolve la società del nostro tempo.
Vale la pena approfondire questa connessione, ardua certo, ma stimolante.
I fatti di Rimini sono noti: le donne della città, a centinaia, lamentano battute, frasi, atteggiamenti, comportamenti, sessisti. Provano a sminuire senza esito i rappresentanti dell’ANA (Associazione Nazionale Alpini), ed i loro difensori d’ufficio: erano solo battute innocue, forse un po’ esuberanti, e poi abbiamo sempre fatto così ed almeno questo pare purtroppo vero. “Erano scherzi goliardici, perfino alcune donne sorridevano”, ignorando, poveri bestioni, che il sorriso della donna può essere la gelida corazza fiorata dietro cui nasconde disagio, disgusto, imbarazzo, umiliazione, fastidio.
Quel sorriso è il codice comunicazionale, l’obbligata tattica di combattimento, elaborata dalle donne in epoche segnate dalla minorità sociale, per eludere, sviare, evadere, da relazioni indesiderate. Ai sorrisi in pubblico seguivano rabbia impotente e pianti in privato, oggi sempre meno però, che la donna non rimane zitta ma grida, si unisce e denuncia. Le testimonianze sono univoche: il clima del raduno nazionale degli alpini, in diversi momenti e luoghi, appariva insopportabile, tra il “detto” ed il silenzio dei molti attorno. La questione è sociale e culturale, prima che giudiziaria o politica.
Estemporanee flatulenze verbali di pochi avvinazzati o l’emergere in superficie di una sub-cultura diffusa ed ancora resistente al cambiamento culturale nei rapporti tra uomini e donne? Al Sindaco di Trieste che straparla di normali “complimenti del maschio verso la femmina”, si aggiunge il fuoriclasse del comico-situazionismo, che urla “giù le mani dagli alpini”. Ma è proprio delle loro mani che si discute! L’onda lunga del Papeete ancora non lo abbandona. Conclude Alessandro Sallusti che arringa contro la sinistra genuflessa a “quattro acide e frustrate femministe di sinistra in cerca di pubblicità”.
La teoria delle “mele marce” vorrebbe scagionare l’intera associazione dall’accaduto, ma appare funzionale a scantonare dalla questione più profonda, rappresentabile come crisi di fronte al cambiamento. Un disagio che rimanda a sedimentate identità socio-culturali, dove il segno del patriarcato marca ancora a fondo la cultura di un territorio, pur così cambiato negli ultimi decenni.
Alpini e montagna sono un binomio inscindibile di storia, vita, senso. Un luogo, la montagna, segnato profondamente da valori millenari, scolpiti nella carne viva dei montanari. Etica del lavoro, cultura materiale e voglia di fare, individualismo del merito, fortissimo senso della comunità e dell’appartenenza, ma anche chiusura al diverso, attaccamento proprietario, visione patriarcale dei rapporti tra i sessi e nella famiglia. Stabilità che degrada in fissità, sociale e culturale.
Un’identità comune alle popolazioni che abitano l’intera regione alpina, un sistema di valori che, a parte l’eccezione della comunità valdese, è iscritto per intero sotto il segno di una visione conservatrice. Gli alpini sono figli di questa storia e di questa geografia e gran parte dei loro eccezionali meriti, in tempo di guerra e di pace, originano da questo panorama unico di valori e di esperienze. Avviene però che parte di quegli stessi schemi valoriali, che pure li hanno resi protagonisti di episodi indimenticabili nei conflitti mondiali, nelle emergenze sismiche ieri ed oggi sanitarie, possono fare loro da schermo nell’ adesione al cambiamento imposto dalla modernità, indigesta ancora in alcuni essenziali passaggi.
Sono profondamente mutate le società locali, il vincolo familiare appare più che incrinato: nelle valli, il tasso dei suicidi è molto più alto che altrove, pervade un senso di infelicità profonda, non compensato dall’incremento senza paragoni nell’accesso ai beni materiali. Può essere attrattivo allora rifugiarsi nelle rassicuranti ma sempre più artificiali rappresentazioni della vita e dei valori di una volta, portando questa tensione insoddisfatta anche nell’esperienza associativa, dove la riproduzione in vitro della vita cameratesca offre “opportunità di senso” sempre meno praticabili anche nei piccoli centri di montagna. Un rito consolatorio, ricordo di un walhalla perduto, dove il machismo residuo dell’alpino dell’oggi cerca conferme di sé nel ricordo cristallizzato dell’alpino di ieri, del suo mito, della società che lo esprimeva, inevitabilmente riproducendo lo schema patriarcale. Il maxi-raduno annuale degli Alpini porta con sé non solo i valori e le memorie più sacre dell’epopea bellica ma anche valenze ambigue, accentuate nei loro effetti inaccettabili dalla autoassolutoria logica del branco e dalla caduta alcolica dei freni inibitori.
Una “curvatura” valoriale generata ed impressa dalle difficoltà del singolo e della comunità locale a reggere lo spirito dei tempi, cui ha saputo corrispondere, dopo il tramonto della Democrazia Cristiana, quella Lega che nacque e prosperò al suo esordio proprio nelle valli alpine e prealpine lombarde, dove tuttora domina incontrastata.
Una curvatura che, nel solco di altri contesti simili regionali (Baviera, Tirolo.), si cerca ora di ridislocare, con operazione di lunga lena, nella narrazione che la destra odierna cerca di imprimere sulle vicende nazionali dell’ultimo secolo, compromettendo comprensione e condivisione dei fatti fondativi della Repubblica. Un’operazione politico culturale che non solo non è all’altezza della modernità, ma prova a negarla, rimodulando e revisionando la costellazione dei valori e dei riferimenti identitari.
Così accade che si proponga il 26 gennaio per la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”, data scelta dalla Lega con scientifica intenzione revisionista, una trappola in cui è caduto stupidamente anche il PD.
Nikolajewka fu la più tragica sconfitta nella storia degli Alpini: circa 40.000 uomini, su poco più di 60.000, rimasero indietro nella ritirata in terra russa, morti nella neve, dispersi o catturati, pochissimi tornarono a casa. Una tragedia immane, dove se è vero che gli alpini scrissero pagine di eroico sacrificio individuale, è ancora più vero che la strage fu l’esito finale e lo stigma disastroso della criminale guerra di aggressione scatenata contro la Russia da Hitler e Mussolini. Non a caso Mattarella, nel promulgare la legge istitutiva, coglie il pericolo revisionista, tira le orecchie alle Camere e chiede che le Forze Armate nazionali siano celebrate con un’unica data comune.
Intanto il danno è fatto: l’art. 1 recita che con il 26 gennaio si promuovono “i valori che incarnano gli alpini nella difesa della sovranità e dell’interesse nazionale”. Sovranità e non Patria come sempre finora e perché? E poi sua difesa sul Don, invadendo un altro paese? Nascondendosi dietro l’epopea degli alpini, si slitta semanticamente e simbolicamente da “Patria” a “Sovranità”, e si procede alla riscrittura della storia e dell’identità nazionale, alla reinvenzione della modernità, degradandone il profilo. Questo, mentre il Presidente dell’ANA se ne compiace, incurante delle critiche severe di Liliana Segre. La storia diviene così il luogo dove tutto si confonde, e dove le cifre etiche dell’eroismo a Nikolajewka o della condanna delle Foibe sono spregiudicatamente poste a servizio di un nuovo racconto che mistifica ed equipara, non pietà e ricordo, ma giudizio storico politico e valori.
Come tante italiane ed italiani, non possiamo non amare gli alpini, ne veneriamo il sacrificio, ne apprezziamo il forte impegno solidale, ma oggi ci interroghiamo con qualche preoccupazione sul rapporto della loro Associazione con la modernità ed i suoi valori, attardata come sembra nel superamento della cultura patriarcale ed ambiguamente vicina alla memoria patria riletta sotto il segno sovranista.
Giuseppe Ucciero
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