5 giugno 2020

CITTÀ PER TUTTI MA NON A PIEDI

Lettera al direttore


Il dibattito sulla “ripresa”, a Milano, ha visto tra i suoi protagonisti la mobilità – extra e intraurbana -, ma pare ci si sia dimenticati di un attore fondamentale: il pedone. Chissà se c’è ancora posto per lui nella scacchiera milanese?

bosio DEF

Gentile Direttore, leggo sul numero del 26 maggio di ArcipelagoMilano il suo editoriale e scopro di non essere l’unico a restare allibito leggendo, non tanto della proposta avanzata in piena crisi sanitaria dalle società calcistiche sul futuro dello stadio Meazza (e nuove edificazioni), quanto dell’interesse espresso dal Sindaco, che apprezzando il progetto avanza esclusivamente qualche riserva sulla quantità dei diritti edificatori.

La pandemia in corso, non conclusa e di cui non siamo in grado di prevedere l’esito, consiglierebbe di spostare l’attenzione dai diritti ad alcuni obblighi inderogabili. Il primo di questi è la distanza tra le persone, ovvero la quantità di spazio aperto effettivamente fruibile necessario a ciascuno di noi. Uno spazio adesso ben modesto, costituito da marciapiedi che in alcuni casi non rispettano la profondità minima imposta delle leggi del 1989, diventati percorsi ciclabili e luoghi per bere in piedi una tazzina di caffè.

Il PGT di Milano è un documento che ci racconta di una città con ambizioni di capitale europea, dove gli spazi verdi fanno da cornice ai nuovi complessi edilizi e ai prossimi ambiti generati della trasformazione degli scali ferroviari (e delle caserme?). Il tutto collegato da cinque linee metropolitane e da una robusta rete di superficie del trasporto pubblico. Poi verranno anche le piste ciclabili. Adesso, le metropolitane servono il 20% dell’utenza pre-virus e le biciclette corrono sui marciapiedi.

Nel continuo richiamo alla modernità, all’innovazione e a una mobilità funzionale si è persa memoria del fatto che la mobilità urbana non è solamente quella su ferro e su gomma, ma è soprattutto quella pedonale. Peccato che di essa nel PGT non si faccia cenno, dimenticanza imperdonabile per un documento che guarda oltre i confini locali. Imperdonabile anche perché, mentre il PGT di Milano tratta della mobilità pedonale soltanto in due pagine della relazione, tante città in Europa e negli Stati Uniti dedicano a questo argomento studi approfonditi e impegnativi programmi di medio e lungo periodo, nella consapevolezza che una città che ignora l’importanza della trama stradale intesa come vetrina di funzioni urbane e generatrice di paesaggio è una città destinata a vedere nel tempo disfarsi i nodi dell’eccellenza sui quali ha scommesso e investito.

Nei prossimi mesi (pochi o tanti ancora non ci è dato di sapere) saremo obbligati a spostarci sempre di più a piedi. Lo faremo incrociando le altre persone su marciapiedi stretti, talvolta dissestati e occupati dai cassonetti dei rifiuti e dagli automezzi in sosta abusiva. Avremmo potuto farlo lungo percorsi disegnati da filari di alberi, all’interno di spazi rinnovati nell’uso e nella bellezza, mantenendo tra le persone le distanze necessarie senza il rischio di essere investiti da ciclisti alla ricerca di alternative alle inesistenti ciclopiste.

La decisione di non attuare il lockdown compiuta dalla Svezia – scelta che non ha sicuramente giovato alla salute della popolazione – ci ha consegnato immagini delle vie di Stoccolma piene di persone, mostrandoci strade e piazze a misura di pedone, progettate sulla base sulla base di studi approfonditi, di programmi dettagliati e ben articolati, di scelte coraggiose e lungimiranti come quelle del programma The Walkable City, predisposto dall’amministrazione cittadina nel 2010 e la cui completa realizzazione è prevista nel 2030. Di una cosa occorre essere consapevoli: affrontare il tema della mobilità pedonale ponendola al centro della strategia del progetto urbano comporta una profonda revisione dell’impostazione del PGT di Milano per quanto concerne obiettivi, quantità, qualità, priorità.

A iniziare dal rapporto casa-lavoro, attualmente fondato sulla concentrazione della funzione direzionale all’interno di megaliti presentati come immagine della modernità, frutto invece di una concezione del lavoro che già negli anni Sessanta del secolo scorso il cartoonist Franck Dickens, illustrando le vicende dell’arguto impiegato Bristow della multinazionale Chester-Perry, metteva con britannico humor alla berlina. Come non cogliere l’anacronismo di concentrare centinaia di persone all’interno di un unico edificio quando la diffusione delle reti internet consente di connettersi e lavorare a distanza di migliaia di chilometri? Quando lo scambio di dati con il proprio vicino di scrivania avviene attraverso un computer che, a secondo del comando che gli viene inviato, può trasformarsi in scrivania dell’ufficio vendite piuttosto che della direzione marketing e che può collegare in videoconferenza persone tra loro lontane.

Esistono, oltre al lavoro all’interno del grande edificio e a quello dentro la propria abitazione, altre modalità, che possono essere adottate riconsiderando il modo di usare la città. Allora perché non avvicinare il lavoro, quando possibile, alle persone? Se le grandi banche, anziché erigere torri gugliate alla maniera neogotica, avessero reinventato l’utilizzo degli spazi delle agenzie dismesse, sarebbe oggi possibile per tanti dipendenti raggiungere il luogo di lavoro senza la necessità di utilizzare il trasporto pubblico o, peggio, l’automobile.

Dunque, il piano della mobilità pedonale come mappa per la reinvenzione dei luoghi del lavoro, del commercio e del tempo libero. Ha avuto ragione il Sindaco Sala a minacciare seri provvedimenti contro l’eccesso di assembramenti, ma la moviola non è l’effetto di un fenomeno naturale come lo sciamare delle api, bensì il prodotto della concentrazione di ristoranti, birrerie, bistrot in pochi luoghi, oggettivamente incoraggiata dagli indirizzi del PGT. Inoltre, allargare e dilatare gli spazi pedonali significa moltiplicare le occasioni per una mobilità più dolce, per una socialità meno aggressiva e offrire, soprattutto ai più giovani, un senso di appartenenza a tutta la città e non soltanto a pochi iper-luoghi.

Qualora Milano iniziasse oggi a sviluppare un programma per la mobilità pedonale, redatto con principi analoghi a quelli dei piani delle grandi città europee e americane, i suoi risultati finali si avrebbero non prima del 2040. Già da questo momento, tuttavia, un primo embrione di ritrovata pedonalità potrebbe essere realizzato in tempi relativamente brevi. Il dibattito sulla riapertura dei Navigli ha visto partecipare il Comune più per cortesia di rito che per effettiva convinzione, anche perché la suggestione che aveva portato all’approvazione del referendum, sviluppandosi in progetto ha fatto sorgere in non poche persone dubbi e perplessità.

Di questo disegno di abbellimento non strategico della città potremmo fare adesso un impiego utile e strategico, rinunciando a quello che sarebbe comunque un simulacro di via d’acqua per trasformarlo in un esemplare primordiale di città per i pedoni. Ci sarà sempre tempo, all’interno di un processo di rinnovamento della città, per ritornare al progetto originale.

Infine, soltanto un cenno a quella che è la madre di tutte le questioni e che necessiterebbe di ben altro approfondimento, impossibile senza riprendere la riflessione su alcune vicende dell’urbanistica italiana, dalla progetto di Codice dell’Urbanistica dell’INU del 1960 alla legge per l’edificabilità dei suoli del 1977 (Bucalossi) passando per il progetto di riforma urbanistica Sullo del 1962.

Quella che la legge definiva concessione è diventata diritto edificatorio e i criteri di partecipazione e collaborazione ispiratori della legge lombarda per il governo del territorio hanno sancito una sostanziale dipendenza degli indirizzi urbanistici della città dagli interessi delle proprietà di terreni liberi oppure occupati da edifici industriali, da lungo tempo dismessi e privi di qualsiasi valore d’uso. All’acquisizione di un area destinata a servizio pubblico deve necessariamente corrispondere una quantità edificabile. Se questo principio fosse stato applicato mezzo secolo fa, oggi non avremmo il Parco Nord Milano o, quantomeno, lo avremmo di dimensioni assai più contenute e circondato da edifici.

Una città preparata per affrontare crisi epocali come quella in atto dovrà disporre di maggiori spazi non costruiti e la sua trasformazione dovrà attuarsi con indici di edificabilità ridotti rispetto agli attuali. Agli amministratori pubblici e ai progettisti competerà riscoprire il reale significato di standard urbanistico, evitando una volta per tutte di associare in un edificio “verde” la bellezza alla reale utilità.

Ci sarà chi, da una ritrovata preminenza dell’interesse pubblico su quello privato, subirà qualche danno economico. Ma, in una stagione – che non si prospetta breve – durante la quale ai produttori saranno richiesti sacrifici straordinari, sarà consentito chiedere qualche rinuncia anche a chi produttore non è e deve il proprio successo economico a un puro effetto di rendita.

Un cordiale saluto,

Elio Bosio

 



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  1. Claudiacondivido pienamente con rammarico
    10 giugno 2020 • 15:41Rispondi
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