25 aprile 2020

LA COMPLESSITÀ DEL DOPO

Affrontare clima, inquinamento, trasporti urbani …


galli

Viviamo da settimane un’esperienza surreale inedita, bloccati in casa da un nemico invisibile e feroce, che sembra non risparmiare nessuno. E questo tempo sospeso, insieme alle dolorose immagini che lo accompagnano, offre anche importanti occasioni di meditazione.

Fra le domande di questo periodo ce n’è una ricorrente: come sarà la nostra città, il mondo, una volta superata la pandemia del Covid-19? Sarà meglio o peggio di prima? Il ritorno alla normalità ci farà dimenticare che proprio quella “normalità” ha scatenato l’emergenza terribile che stiamo attraversando e di cui ancora non si vede la fine?

Qualcuno ritiene che questa esperienza lascerà il segno, che ci cambierà dentro in meglio, perché fino a quando non ci scottiamo, non capiamo. Vorrei poterlo sperare, ma non credo che lo sarà necessariamente. E vorrei sperare soprattutto che una ritrovata consapevolezza ci supportasse rispetto ad altre emergenze incombenti, sinora trascurate, a livello globale non meno che locale, in tema di inquinamento, ambiente, ‘climate change’, su cui sono prevalsi negazionismi e disinformazione, nonostante decenni di sostanziosi report scientifici e di appelli inascoltati (anche) degli scienziati ad indicarci il pericoloso avvicinarsi di un “punto di non ritorno” per gli equilibri del nostro ecosistema e ad ammonirci sulla necessità di un deciso cambio di rotta, prima che sia troppo tardi.

Non si tratta di impartire lezioni “col senno di poi”, ma di comprendere gli errori commessi per modificare i comportamenti ed agire consapevolmente nel modo più intelligente possibile nel nostro immediato futuro, verso un green new deal necessario per la nostra esistenza.

Secondo un recente studio dell’università di Magonza, nel 2015 il solo inquinamento atmosferico ha causato 8,8 milioni di morti premature, facendo registrare una riduzione dell’aspettativa di vita media di 2,9 anni, per dire. Ma tutto ciò non fa rumore. Abbiamo letto anche di uno studio della Società italiana di medicina ambientale insieme alle Università di Bari e Bologna che mette in relazione l’inquinamento atmosferico con la diffusione del Coronavirus e che spiegherebbe la maggiore letalità della malattia nel catino padano, area notoriamente fra le più inquinate d’Europa. Difficile verificare ora questi dati: è però certo che l’inquinamento nuoce alla salute e che qualsiasi virus opera in modo sinergico con le condizioni che incontra, quindi è ragionevolmente intuitivo che un organismo indebolito da condizioni ambientali critiche opponga minore resistenza a qualsiasi agente infettante.

L’accostamento delle emergenze ecosistemiche alla pandemia non paia allora fuori luogo. Da un punto di vista di metodo, chiama in causa la nostra capacità di cogliere l’importanza dei temi e l’urgenza di affrontarli ora, perché “la casa brucia”. Ma il legame esiste anche sul piano dei contenuti: siamo parti di un unico sistema complesso, nel quale la salute di ogni elemento – sia esso umano, animale o ambientale – è strettamente interdipendente da quella degli altri, secondo un approccio necessariamente interdisciplinare e circolare (cd. approccio One Health). Il 75% delle terre emerse e il 66% dei mari e degli oceani risulta significativamente alterato dall’azione dell’uomo: la distruzione degli habitat naturali è alla base anche di fenomeni come quello che stiamo vivendo.

Se accettiamo di considerare “normali” (magari perché apparentemente lontani) i 20 gradi in Antartide, i fenomeni climatici estremi, gli incendi che divorano grandi foreste in Australia, Amazzonia, Africa, lo scioglimento dei ghiacciai e persino del “permafrost”, le isole di plastica galleggianti nei mari e negli oceani, ma anche un modello di sviluppo che celebra il consumo di suolo nelle città, la cementificazione, la progressiva espansione delle aree antropizzate, lo sfruttamento intensivo delle risorse, l’incontenibile diffusione di una mobilità alimentata da combustibili fossili, relegando ai piani di medio-lungo periodo le revisioni dei nostri stili di vita… è lecito attendersi che l’attuale emergenza pandemica sia solo un timido segnale di avvertimento.

Da milanesi ci siamo cullati a lungo nell’idea ottimistica di vivere in una splendida isola felice come nel migliore dei mondi possibili: un modello Milano che, fra nuovi skyline ed espansioni volumetriche attese, qualcuno ha pensato potesse essere inarrestabile (#Milanononsiferma). Nel giro di poche settimane abbiamo sperimentato dal vivo, anche a Milano, una drammatica perdita di certezze e il mondo intero ha vissuto la scoperta di una estrema fragilità, non solo dal punto di vista sanitario, ma anche sociale, economico, ambientale. Una fragilità che pareva sino a poco prima impensabile.

Abbiamo quindi toccato con mano, e non attraverso simulazioni o letture “visionarie”, come il nostro benessere sia strettamente collegato a quello dell’ecosistema nel quale viviamo. Il senso di questa fragilità non deve essere dimenticato ed è bene anzi che rimanga come monito, perché siamo parti di un tutto: siamo dentro al sistema, non fuori né sopra. Per questo, mettendo da parte l’abituale voracità di risorse, l’agenda politica deve essere riscritta e orientata in modo coerente alle urgenze che abbiamo davanti: questa è l’unica risposta intelligente e seriamente ottimistica.

Cosa può quindi insegnarci la terribile esperienza dell’epidemia di Covid-19?

Che senza una partecipazione consapevole di tutti i cittadini, dunque in mancanza di un’intenzione comune, il perseguimento del bene collettivo rischia di diventare impossibile. Che la partecipazione non può limitarsi ad essere accomodante, ad attribuire deleghe in bianco a chi amministra, a ratificare decisioni prese altrove, magari confondendo interessi pubblici e privati, ma deve invece essere esigente e pretendere coerenza nella difesa dei beni comuni. Che dobbiamo prenderci cura dell’ambiente, poiché noi non possiamo vivere senza di esso né contro di esso. Che occorre ripensare complessivamente i nostri comportamenti, anche rispetto ad abitudini individuali consolidate: l’azione collettiva cioè non basta se non supportata e sostenuta da quelle individuali. Che non possiamo pensare di avere sempre tempo davanti per affrontare cambiamenti importanti, perché a volte gli eventi possono precipitare all’improvviso trascinandoci nell’incubo: il tempo è una risorsa scarsa. Il senso dell’urgenza deve illuminare la nostra consapevolezza.

Ad esempio, proprio ora che si sta discutendo di come far ripartire gradualmente le attività, occorre pensare all’impatto che ci sarà sulla mobilità. Il trasporto pubblico rischia di subire un duro contraccolpo e molti riterranno più sicuro muoversi in auto: significa più traffico, più inquinamento, più insicurezza sulle strade. In assenza di interventi pubblici, questo ci farebbe precipitare indietro di anni. Per questo, come proposto da Paolo Pinzuti e condiviso anche da altri, proprio ora che il traffico è ridotto, il Comune deve procedere rapidamente, entro poche settimane (non mesi o anni), a dotarsi di una “rete ciclabile di emergenza”, tracciando semplici corsie in segnaletica, per garantire sicurezza a quanti vorrebbero iniziare a usare la bici ma ancora hanno paura, non solo per il virus ma soprattutto per il traffico, consentendo a Milano di diventare ciò che finora non è riuscita a essere, se non a parole: amica della bici e della mobilità attiva.

Prendo a prestito per concludere le parole di Gaël Giraud, secondo cui sarebbe una pericolosa trappola quella di limitarci a ripristinare semplicemente il modello economico di ieri, accontentandoci di migliorare in modo marginale il nostro sistema sanitario per far fronte alla prossima pandemia. È urgente capire che la pandemia Covid-19 non solo non è un cosiddetto «cigno nero» – era perfettamente prevedibile, sebbene non sia stata affatto prevista dai mercati finanziari onniscienti –, ma non è nemmeno uno «shock esogeno». Essa è una delle inevitabili conseguenze dell’Antropocene. […] È soprattutto la distruzione della biodiversità, in cui siamo da tempo impegnati, a favorire la diffusione dei virus.

Oggi molti ne sono consapevoli: la crisi ecologica ci garantisce pandemie ricorrenti. Accontentarsi di dotarsi di mascherine ed enzimi per il prossimo futuro equivarrebbe a trattare solo il sintomo. Il male è molto più profondo, ed è la sua radice che dev’essere medicata. La ricostruzione economica che dovremo realizzare dopo essere usciti dal tunnel sarà l’occasione inaspettata per attuare le trasformazioni che, anche ieri, sembravano inconcepibili a coloro che continuano a guardare al futuro attraverso lo specchietto retrovisore della globalizzazione finanziaria. Abbiamo bisogno di una reindustrializzazione verde, accompagnata da una relocalizzazione di tutte le nostre attività umane (“Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19”, La civiltà cattolica).

Eugenio Galli

Con il Covid-19 sono “venuti al pettine” tutti i problemi del nostro futuro sul pianeta. La soluzione dipende da chi ci governa, ma anche da noi. Il Covid-19 è solo la prima delle pandemie che ci colpiranno.



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