13 aprile 2020

IL RITMO PENSABILE

Come restare esclusi in una città che si dichiara “attrattiva”


Una riflessione sul concetto di esclusione e sui tanti miti di Milano città frenetica che emargina il pensiero. La frenesia come falsa intelligenza. Il ruolo della comunicazione distorcente.

Foto di Nicolò Maraz (dettaglio)

Foto di Nicolò Maraz (dettaglio)

Vivo a Milano da 49 anni dei 50 che mi sono sinora toccati in sorte. Da un anno mi sono spostato un po’ fuori città, accampandomi temporaneamente in un fazzoletto di campagna tra Cernusco e Brugherio, in una sorta di autosospensione volontaria dalla città, ancorché usando la Martesana come cordone ombelicale che mi tiene connesso alla mia famiglia e alla mia piccola ditta, che produce cornici di senso per opere varie dell’ingegno umano… vabbè dai, facciamola semplice: ho un’agenzia di comunicazione.

L’ho fatto per tanti motivi, alcuni decisamente poco interessanti dal punto di vista del discorso pubblico. Tuttavia, uno in particolare penso possa suscitare interesse, ed è proprio di quello che vi vorrei qui brevemente parlare. È un motivo che ho messo a fuoco dopo che esso aveva prodotto i suoi effetti sulle mie decisioni.

Mi ha folgorato “sulla via di via Ampere” (dove lavoro), durante uno dei miei quotidiani spostamenti su e giù dal cordone di cui sopra, sotto forma di una scritta comparsa su un fondoschiena in movimento, in un video che voleva essere motivante e che si è trasformato in uno dei più sciagurati epic fail della comunicazione social e politica di Milano.

Non so perché gli autori di quel maldestro video (sciatto nella forma e stereotipato nella sostanza) abbiano deciso di far comparire quella scritta, “RITMI IMPENSABILI”, proprio su un deretano in movimento. Forse pensavano all’espressione “muovi il culo!”, la forma esortativa più sgarbata in circolazione, come sottotesto ideale per la città dove “se sta mai coi man in man” o forse, semplicemente, volevano dare ancora più enfasi alla prevalenza del concetto di ritmo rispetto a quello di pensiero.

Ed è precisamente questo uno dei motivi per cui a un certo punto ho sentito questo impulso fortissimo a scappare, il più vicino possibile, ma pur sempre fuori, dalla mia Milano: la sensazione di essere rimasto incastrato dentro un insensato loop di ritmo senza pensiero, che ti fa correre verso qualcosa che non vuoi ma che ti convinci valga la pena comunque raggiungere, a patto di arrivarci con un paio di chiappe opportunamente rassodate. In pratica: non importa dove vai, l’importante è che ci arrivi in una forma invidiabile.

Ecco, sì, “invidiabile”. Che vuol dire che te la procuri principalmente perché qualcuno te la possa invidiare. È lì il bello. Un aggettivo che declina un sentimento orrendo, ma che assume connotazioni positive e aspirazionali nel significato corrente (corrente, proprio come il didietro del video).

E non è il solo aggettivo ad aver subito questa curiosa metamorfosi di significato, sapete? Nello stesso destino è incappato, ancora più clamorosamente, l’aggettivo “esclusivo”, che viene da “escludere”, il contrario di “includere”, un atteggiamento generalmente stigmatizzato (o almeno così siamo abituati a insegnare ai nostri figli). E invece nient’affatto, cosa c’è oggi di più invidiabile di un posto, di un servizio o di un vantaggio “esclusivo”? Laddove, si badi bene, lo sfizio non sta nel fatto di poterselo permettere, ma in quello – molto più godurioso – di escluderne gli altri.

Perché Milano, al netto dei tanti cha cha cha che ci cantiamo e ci suoniamo, alle volte mi pare stia correndo esattamente dietro a questo modello: essere una città inclusiva nella forma (tutti possiamo farne parte) ma esclusiva nella sostanza (figurati se tu – povero, anziano, lavoratore precario – puoi farne davvero parte, al massimo ci puoi pulire casa o portare il cibo a domicilio, in bicicletta, sotto la pioggia). E se tanti non se ne sono ancora accorti è semplicemente perché non ne sono ancora stati esclusi. Oppure perché, ancora più semplicemente, considerano l’esclusività qualcosa di desiderabile, se ne hai accesso, o di invidiabile, se ti è preclusa, in un contesto di ascensori sociali bloccati.

Ed è proprio in questa orgia di aggettivi negativi che si riconvertono in punti cardinali delle nostre nuove, più o meno confessabili, ambizioni che si annovera l’ennesima celebrazione di questo istupidimento collettivo che è il mito – mai morto – della Milano dinamica, viva, piaciona e autocompiaciuta che spaccia per “miracoli” cose che altrove verrebbero considerate come vite ordinarie, e la sua estatica narrazione di questi ritmi, pensa un po’, “impensabili”. Che, letteralmente, “non ci puoi neanche pensare” da tanto sono indiavolati, frenetici, pervasivi. In una parola: escludenti.

E allora niente, ho pensato di autoescludermi un po’ (solamente un po’, perché al dunque Milano non è in realtà come vuole la leggenda e – con buona pace dei cantori dei suoi ritmi disumanizzanti – non lo sarà mai fino in fondo). Quindi mi sono decentrato soltanto quel tanto che bastava per riattivare la circolazione del pensiero, risorsa preziosa di cui talvolta Milano pare voler fare a meno, presa com’è a correre appresso a non si capisce bene cosa.

Sto leggendo un libro di Sally Rooney. A un certo punto scrive:Ieri sera stavamo attraversando Phoenix Park in taxi e abbiamo visto un sacco di cervi. Prima di continuare per la loro strada hanno indugiato e osservato il taxi. A me quando gli animali indugiano fa sempre strano perché sembrano così intelligenti, ma magari è perché associo l’indugio al pensiero”.

Ecco, in fondo questo vorrei per Milano, facendo finta di credere che volere qualcosa per Milano abbia davvero un qualche senso. Che indugiasse, almeno per un attimo, davanti al bivio che sta raggiungendo di corsa, anche ora che è ferma ma pare non essere in grado di pensare ad altro che a una ripartenza. Un bivio che da una parte ci porta a un rettilineo portentoso, di quelli che sono la gioia di chi in Formula 1 ha un motore più potente degli altri, che ci conduca dritti dritti alle prossime fantasmagoriche olimpiadi invernali; dall’altra ci conduce per una strada tortuosa, che porta a un reticolato di bivi, davanti a ciascuno dei quali indugiare ogni volta, per tutto il tempo necessario, dentro a un ritmo pensabile.

Mauro Mercatanti



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