7 marzo 2020

SCIENZA E POLITICA: BIANCO E NERO?

Spunti per mediare tra panico e menefreghismo


Università di Manchester, aula R204.1, poco più di un anno fa. Un professore poco stimolante e un orario spiacevole (venerdì alle 9 del mattino) causano un drastico calo della mia attenzione per il corso “Science, Technology and Democracy”, con l’aiuto della celebre motivazione: “tanto, è facile”. Così facile che quel corso finisce pure per rovinarmi la media. Forse, se avessi saputo cosa sarebbe successo nei primi mesi di questo 2020, avrei prestato un po’ più d’attenzione.

Già, perché se c’è un evento che rientra a pieno titolo in questa strana materia di studio a metà tra le scienze politiche, quelle biomediche e quelle statistico-informatiche, è proprio l’epidemia di COVID-19 attualmente in corso.

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Basta raccontare la sua breve storia per rendersene conto: il virus, dicono con certezza, “nasce” in Cina, ma la Cina non diffonde la notizia del crescente numero di contagi per circa una settimana. L’elemento politico già s’intreccia a quello sanitario: quei giorni di silenzio mediatico (ottenuto mettendo a tacere anche i medici che già sapevano, e volevano parlare) avranno avuto un impatto sulla diffusione del virus, e se sì, quale? A dispetto della mancanza di dati che sostengano l’una o l’altra posizione, l’opinione pubblica già a gennaio si è divisa tra chi ritiene che il regime cinese abbia favorito il contagio non diffondendo la notizia e chi lo ammira per la successiva capacità di gestire la situazione con fermezza e ottenere risultati.

Poi il virus cresce: inizia a diffondersi all’estero, dalla Thailandia fino all’Europa e agli Stati Uniti, e i vari Stati prendono misure spesso caotiche – come la nostra decisione di bloccare i voli da/per la Cina, ma solo quelli diretti -, che oltre a non contenere il contagio stimolano episodi di razzismo e violenza. Ecco che dunque, di fronte ad una fetta di popolazione così ignorante da non comprendere che una malattia non può derivare dall’etnicità di una persona, bisogna dividere il campo di battaglia: esperti contro non-esperti, mascherina anche in casa contro aperitivo, allarmisti contro ottimisti e così via. E la guerra, col suo corredo di linguaggio militare, ottimo stimolatore di panico e follia, comincia.

Il virus, a marzo 2020, è diventato grande e grosso, tanto da far paura al mondo intero. E il nostro governo ci ha colti di sorpresa ancora una volta, attivando le misure “anti-Coronavirus” più restrittive a livello globale dopo quelle cinesi. Sembra che Conte&co. abbiano voluto dare ascolto agli esperti. Ma quali? Le opinioni degli esperti (medici e biologi) sul web e sui giornali abbondano, strabordano, sono tutte un po’ diverse e lasciano i cittadini giustamente confusi e scoraggiati.

Qui entra in gioco quel corso universitario dal nome così astruso: scienza, tecnologia e democrazia. Come avrete capito, non sono certo in grado di darvi una lezione in argomento; ma qualche spunto di riflessione, maturato negli sparuti momenti di studio, quello sì.

Scienza e politica non sono due scatole separate, che possono comunicarsi reciprocamente insegnamenti singoli (“lavatevi le mani”, “ascoltate il vostro medico”, “restate a casa”, “abbiate senso civico”…) nel momento del bisogno. Sono, piuttosto, due delle molte facce di uno stesso fenomeno: l’attività umana. Ci sono umani che siedono in Parlamento approvando leggi, e umani che leggono lunghe liste di dati e scrutano dentro un microscopio. I dati sui quali lavorano sono completamente diversi – nel primo caso saranno opinioni e commenti, nel secondo numeri -, e questo ci induce a pensare che i loro campi d’azione siano del tutto separati. Eppure, chi interpreta quei dati rimane umano: un umano fallibile, anche con i più alti livelli di impegno e preparazione.

Questo è ciò che mi ha lasciato quel corso: poco meno di dieci righe, e un diverso approccio all’ “obiettività” delle scienze naturali. Non molto, ma abbastanza per comprendere la crescente necessità di un patto, un compromesso tra scienza e democrazia che permetta agli “esperti” di aiutare i governi e i loro cittadini in situazioni varie: dalle epidemie, al riscaldamento globale, all’allevamento intensivo (tutti problemi collegati fra loro, by the way).

Senza un simile accordo, il vero rischio in quest’epoca che accoglie amorevolmente tanto le “assolute verità” scientifiche quanto i ridicoli e infondati discorsi di politici come Donald Trump, è di trasformare le nostre democrazie in tecnocrazie, dove la voce dell’esperto è legge e il senso civico è uno straccio da buttare. O in regimi oscurantisti in cui l’opinione dei tecnici vale quanto quella dell’ “uomo qualunque”.

Come evitare questi scenari spaventosi? Sono molte le proposte fatte da chi studia proprio i rapporti tra scienza e politica, prima fra tutte l’idea di una maggiore collaborazione, sia tra i centri di ricerca governativi dei diversi Stati sia tra il privato e il pubblico, con i più radicali impegnati ormai da anni in campagne perché tutti i dati e gli studi scientifici, in particolare quelli medici, siano “open”, cioè disponibili gratuitamente a chiunque li voglia consultare. Un simile assetto permetterebbe di stabilire dei criteri globali di attendibilità che ci salvino dalla dialettica del bianco/nero di cui siamo vittime.

Persino i dati sul contagio, unico fenomeno misurabile con un codice “0/1”, “infetto/sano”, bianco/nero, perdono di credibilità quando, come nel caso USA, i test sono condotti male o per nulla. C’è da sperare, dunque, che oltre alle rivoluzioni dello smart-working, smart-schooling e via dicendo, questo virus ne provochi anche un’altra: quella della (vera) mediazione tra scienza e politica, tra dati e interpretazione umana.

Elisa Tremolada



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