15 novembre 2019

EL CASSEOU DE FERR LONGH

Cibo, dialetto e (mala)vita milanese: genealogia di una ricetta storica


Cazola o Cazora. Termine di cuochi. Cibreo, manicaretto, fatto per lo più di colli e curatelli di polli. Anche i siciliani la chiamano Cazzolicchia e i sardi Cassola. Forse è voce rimastaci dopo il governo di Ferrante Gonzaga” (F. Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, 1814).

E ancora: “manicaretto composto di coratella (polmùn) e fegatini (fidech), colli e ali e creste di polli” (G. Bandi, Vocabolario milanese-italiano, Milano, 1857).

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Inizia così un formidabile articolo a firma di Albero Capatti su La Gola (anno VI, 1987, nº2) sulle origini di un piatto tipico milanese, anche se, per onor del vero, non mancano ricette analoghe in tutta Europa (dalla francese potée con le sue infinite varianti regionali dall’alsaziana; alla borgognona, bretone, albigese, lorenese; ai cavoli cotti e unti dal grasso di cotenne di maiale in Germania e mezza Europa).

La verzata, piatto con carni e cotenne sgrassate dal fuoco, con una cottura croccante e intensa, assai disarmonica per ingredienti e colori, è oggi un piatto quasi bandito nelle cucine gourmet (dove la forma e l’estetica sono tutto), relegato nel calendario alle prime brinate e ai freddi autunnali, oggi di fatto quasi del tutto scomparsi.

La Cazzoeula, è bene chiarirlo subito, è un piatto di presenza e non assenza. Forte, nutriente e concreta come è sempre stata la Milano dalle tinte tenui (ormai patrimonio mondiale il grigio degli abiti di Giorgio Armani), la città operosa ma anche sanguigna e vitale che è anche capitale morale di questa ricetta storica.

Il Casseou

La gà il casseou in man (fuori dalla città di Milano il casseou diventa ol cazzùu), è una frase dialettale che testimonia e tramanda il potere della resdora, la cuoca, la padrona di casa, detentrice assoluta del potere del focolare domestico. Il cucchiaio di legno rappresenta dunque uno strumento supremo dedicato alla preparazione dei piatti tradizionali della cucina milanese: zuppe, minestroni ma soprattutto la Cazzeoula.

L’origine etimologica del termine è da ricercarsi nel latino tardo càttia, interpretato dal Cherubini (estensore del Vocabolario Milanese-Italiano, Regia Stamperia 1839) come Càzza, forma cava tipica di strumenti culinari d’uso comune come: tazza, mestolo e cucchiaio.

La resgióra aveva da sovraintendere alle minestre, ossia alla pacciatòria, al mangiare.

Ol cazzùu era dunque lo strumento di comando, lo scettro domestico: ol cazzùu ga l’ha in man lée (Ol mangià, di nost vecc. Saronno MCMLXXVIII).

Milàn

Una città di persone operose e rette, ma anche di forme di lavoro meno nobili come furti e rapine proprie di chi apparteneva a una vita meno fortunata: la malavita cittadina era combattuta ma anche in qualche modo tollerata e compresa come fosse comunque una forma di lavoro difforme e bassa. Una Milano quasi metropoli che non dimentica le proprie origini di cibo d’osteria e la campagna (la via Gluck magnificata da Adriano Celentano: Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck, in una casa fuori città… altro non è che una via adiacente alla stazione Centrale, oggi assai poco suburbana e periferica).

Ma come si nutrivano e cosa amavano mangiare i loschi tipi della mala milanese?

Come documentato anche da Giorgio Scerbanenco (giornalista e scrittore di origini ucraine ma milanesizzatosi a vita già a 16 anni) nei bois, locali bui e fumosi della capitale morale d’Italia, i locch e marlous (delinquenti e protettori), non ordinavano proteine di pregio come tagli di carne scelta e pesce (cibi per sciurr, gente ricca), ma brodi, tagli di carne di poco pregio, interiora (trippa) oltre al tradizionale antipasto freddo milanese, i nervetti (nervitt).

Ma l’indiscusso piatto preferito della mala milanese era lei: la cassoeula. Piatto unico per eccellenza, accompagnata da vino rosso rigorosamente sfuso, costituiva pietanza ed elemento di unione e identità per il popolo milanese.

Prima della mala, la ligéra

La ligera fu la prima malavita milanese, storicamente databile tra il dopoguerra e gli anni ’60, identificata con persone leggere, che alleggerivano o anche persone poco stabili, era composta essenzialmente da semplici borseggiatori che rubavano per sopravvivere, e quindi quasi dei non banditi e men che meno criminali. I protagonisti della ligera erano principalmente mossi dalla fame e dal bisogno di nutrire se stessi e i propri cari. I furti avvenivano sempre in assenza di violenza poiché banditi e poliziotti provenivano quasi sempre dallo stesso contesto sociale.

Come ricorda Arnaldo Petronelli, ispettore di polizia di quei tempi, “Era tacitamente escluso che ci fosse della violenza gratuita, e questo determinava un reciproco rispetto”.

Fu solo durante gli anni ’70 che nacque la moderna malavita organizzata in bande e dedita all’uso di armi (per la verità comparse già nel 1958 durante la celebre “rapina del secolo” in via Osoppo, a un furgone blindato della Banca Popolare di Milano, che fruttò 614 milioni di lire. Deve essere sottolineato il fatto che i banditi non spararono un solo colpo e il “ta-ta-ta” fu solo un rumore emesso dalle bocche dei rapinatori, non dal ferro dei mitra).

E a riprova della simpatia popolare verso quelli della mala milanese, quando gli autori della rapina furono catturati, Indro Montanelli scrisse: “Ufficialmente tutti scrivono e si proclamano contenti del fatto che i criminali siano stati smascherati, ma, sotto sotto, senza osare dirlo o dicendolo a bassa voce, la maggioranza tifava per i rapinatori”. La ligera era infatti profondamente radicata nei quartieri di Milano, non solo un’affinità di vita (Porta Romana Bella di Nanni Svampa è senza dubbio la canzone più famosa dedicata alla ligera, anche se essa era attiva soprattutto nei quartieri Isola, Garibaldi e Porta Genova), ma anche di gusti alimentari e gastronomici.

Anche la recente mostra del 2017 intitolata Milano e la Mala (dal 1945 al 1984, Palazzo Morando), ha ottenuto un grande successo di pubblico, a riprova della milanesità della ligera e al suo stretto legame affettivo con la città di Milano, città operosa e di gran cuore anche verso i suoi figli minori.

Il Ferr Longh

Era lo strumento di lavoro della mala milanese: canna di ferro lunga, eufemismo della parola “mitra”. La mitragliatrice fu la “penna” utilizzata per sbrigare i lavori d’ ufficio dalla mala.

Gran maestro di questo strumento d’immagine più che di sostanza infuocata, fu senza ombra di dubbio Luciano Lutring, noto alle cronache dell’epoca come “il solista del mitra” per via della custodia rigida del violino che portava sempre con sé e che nascondeva un mitra pronto all’uso scenografico (forse in omaggio ai genitori che volevano fare di lui un violinista). Per i media di allora, incarnava alla perfezione la figura del Dritto di Chicago di Fred Buscaglione.

Lutring, molto probabilmente, è stato l’ultimo gentiluomo della mala milanese che non uccideva ma rubava solamente, e probabilmente è stato anche l’unico criminale ad aver ricevuto una duplice grazia da due Presidenti della Repubblica europei. Sia il francese Georges Pompidou che l’italiano Giovanni Leone intercedettero per lui. Fu un personaggio a cavallo tra boom economico italiano e origini assai modeste, amava Milano in modo incondizionato, oltre naturalmente alla bella vita e alle belle donne, tanto da dipingerla a fine carriera nei suoi molti quadri (a onor del vero assai modesti come tratto artistico e capacità tecniche).

La storia, resa celebre tra gli altri anche da Enzo Jannacci, vuole che Lutring abbia appreso il potere carismatico delle armi da fuoco in un ufficio postale milanese. Cercando una penna per compilare un bollettino postale, scoprì il revolver (l’avevo solo per fare il ganassa con le signorine, ed era pure scarico) e in cambio ricevette una mazzetta di contanti dal cassiere atterrito.

Appresa casualmente la tecnica, si dotò in primis di una pistola Smith & Wesson, poi di un mezzo di trasporto adeguato alla sua immagine di nemico pubblico numero uno, una Cadillac, che gli valsero il soprannome di l’americano. Rapinava da gentiluomo formulando le richieste solo e soltanto in dialetto milanese, e lasciando talvolta dei fiori, il che gli valse una popolarità senza eguali. Un suo scritto autobiografico divenne il copione di un film interpretato da Alain Delon.

Fu autore di capolavori del crimine affettuosi e artistici, come quella volta che sotto Natale regalò alla sua compagna una superba pelliccia ancora dotata di manichino e spilli, visto che l’acquisto aveva comportato la distruzione della vetrina del negozio del centro di Milano che la vendeva.

“Acquisti” giudicati (e puniti) come rapine che avevano però un sapore garbato, anche se ottenuto con ingredienti forti. Proprio come la Cassoeula, piatto complesso da meditazione destinato oggi quasi esclusivamente a palati intensi.

Il Casseou de Ferr Longh

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Scultura in ferro e legno, bellica e gastronomica allo stesso tempo.

Composta da una mitragliatrice a tamburo, armata di un poderoso cucchiaio consunto solo dalle sapienti mani di resdore milanesi.

Si tratta di un’arma metafisica dotata di enorme potere evocativo, uno strumento di cucina evoluto interprete dell’essenza magica della gastronomia che dona nuova vita e forme a ciò che è morto.

Marco Ceriani

Food Hero

 

 

 

 

Tre ricette per un piatto universale:

1- alla Giùan Brera fu Carlo

Nell’intramontabile La Pacciada (scritto a due mani con Luigi Veronelli), Giovanni Brera la racconta così:

Spacco il piedino di maiale in due nella lunghezza, lo lavo e lo metto in una casseruola con le cotenne bene raschiate, passate alla fiamma e nettate: li copro abbondantemente d’acqua e passo in cottura a calore moderato. Sgocciolo prima le cotenne, un’ora circa di cottura, il piedino dopo altri 30-40 minuti; taglio le cotenne a pezzi rettangolari, il piedino a tronchetti; tengo a parte 3 decilitri del liquido di cottura accuratamente sgrassato. Taglio a pezzi le costine; bucherello i salamini; sfoglio e lavo le verze. Metto in un tegame il trito e la noce di burro; lo faccio imbiondire a calore moderato; aggiungo le costine, le cotenne e i tronchetti di piedino. Condisco con sale e pepe: bagno con 3 decilitri del liquido di cottura tenuto da parte e faccio prendere l’ebollizione; continuo la cottura un’ora, mescolando sovente; poco prima di togliere dal fuoco aggiungo i salamini e le verze; finisco di cuocere tutto insieme; mi assicuro che ogni elemento sia ben cotto e la poca salsa piuttosto densa. Servo caldissimo.

E per finire, aggiunge Brera, un’ultima nota: la Cazzoeula, per essere perfetta, esige che le verze abbiano subito negli orti l’aggressione del primo gelo.

2- alla Decio Carugati

Il piatto elenca ingredienti di base e resta a disposizione della tasca per arricchirsi. La nostra traccia sarà contenuta ma non povera.

Per quattro commensali scegliamo costine di maiale che salvino attorno all’osso buona carne saporita. Salsiccia, cotenne e piedino. Le componenti cerchiamole in cascina, nel lodigiano, assieme al salamino, detto verzino, uno a testa. Poniamo accanto alle carni cipolle, carote, sedano, lauro, timo e cavolo verza.

Facciamo sbollentare per togliere il grasso di eccesso cotenne, piedino e costine. Ritiriamo i tre ben scolati. In una buona pentola a bordi alti rosoliamo la cipolla affettata con il burro e aggiungiamo via via cotenne, piedini spaccati in due. Imbiondite le carni copriamo con acqua.

Lasciamo evaporare a fuoco lento, aggiungiamo le costine e, dopo mezza ora circa, sedano e carote a fettine, poco lauro e poco timo. A parte affidiamo al bollore, per una decina di minuti, i verzini. Aggiungiamo alla preparazione la salsiccia e il cavolo verza in foglie e, dopo dieci minuti, i verzini preparati. Altri dieci minuti porteranno a maturazione la Cazzoeula umida e collosa. Controlliamo di sale e di pepe e serviamo (con o senza polenta).

3- alla Gualtiero Marchesi

Impossibile, in chiusura, non citare in questo contesto il Maestro Gualtiero Marchesi che negli anni ’90 ha reinterpretato la ricetta con costine di maiale e pollo adagiate su foglie di verza verdissima, e, in altro impiattamento a parte, una verza smorta. Un piatto cotto ma non sfatto. Asciutto, snello e contemporaneo. Una interpretazione gourmet a superamento della sudata e casuale immagine della Cazzoeula tradizionalmente domestica.

Il fuori Milano della Cazzoeula

Nell’amato Pavese di Gianni Brera nella filologia della ricetta è bandito il piedino, sul lago di Como invece la tradizione sostituisce la carne di testa di maiale al piedino, aggiungendovi bicchieri di vino bianco secco; in Brianza era quasi un obbligo l’aggiunta delle orecchie del maiale, mentre a Novara si aggiungevano anche carni e interiora d’oca.

La Cazzoeula, dunque, più che un piatto milanese è una pietanza di necessità (come il mitra della mala era strumento necessario per procurarsi denaro) che alla verza abbinava tagli di carni povere, scarti di altre lavorazioni gastronomiche più elitarie.

Del resto narra la leggenda che la Cassoeula milanese la nass da un soldaa spagnoue, che innamoraa de una tosa milanesa, scèffa de ona famèja de nòbil, el gh’avaria insegnaa la ricetta.

PER SAPERNE DI PIU’
Analisi sensoriale-gustativa

La Cazzoeula è forse stato il primo piatto della tradizione italiana ad essere valutato in modo analitico quali-quantitativo. A farlo fu il compianto Marco Riva (Tecnologo alimentare e docente all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo) sulle pagine de La Gola, anno XI nº 93: con il suo studio La Cazzoeula misurata, diede la cifra a un piatto sensoriale e tattile che si esalta al palato ma si ridimensiona a livello visivo.

Il professor Riva nel suo studio partì dal problema della codificazione della ricetta, che deve fondarsi su giudizi tecnici legati a dati oggettivi della fruizione alimentare. Riva utilizzò nella sua analisi sensoriale i quattro parametri qualitativi Aspetto/Presentazione, Aroma, Consistenza e Sapore. I parametri furono analizzati da 29 soggetti maschili e femminili (età media 40-45 anni) appartenenti a tre categorie socio-culturali: tecnici (attori in discipline scientifiche), umanisti (letteratura, storia e filosofia) e altri (grafici e marketing).

A riprova della bontà e scientificità dell’approccio, Riva fece largo uso di equazioni che descrivevano la complessità della reazione multipla tra sapore (variabile dipendente) e aroma e consistenza (variabili indipendenti). Per brevità e sintesi, lo studio portò ad un risultato difforme tra una maggior coinvolgimento ed enfasi di giudizio degli umanisti ed esperti di mercato, rispetto al pragmatismo dei tecnici poco influenzati dalla storicità e retorica del piatto analizzato.

Una riprova della difficoltà di codificare giudizi di natura tecnico-sensoriale che permane anche oggi, nonostante metodiche analitiche più raffinate ed evolute.

Marco Riva chiudeva la sua analisi con la consueta arguzia: Così come il conto che si salda al termine del pranzo è fatto di numeri, anche il mangiar bene o il mangiar male meritano la loro cifra.

Credits:

La Gola anno VI nº 2
La Gola anno XI nº 93



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