12 ottobre 2019

LO SVILUPPO VISTO DA MILANO

L’opzione qualitativa per una crescita economica che allontani lo spettro del declino


Salvatore Rossi è ex direttore generale di Bankitalia ed ex presidente di IVASS, l’istituto di governo del mercato assicurativo. Qui è stato lungimirante, sorprendente. Nell’editoriale del Corriere della sera del 25 scorso “Restare in serie A”, dice: non piangiamoci addosso; siamo un Paese forte e a rischio; individuiamo i nodi per la “crescita economica sostenuta e duratura che allontani lo spettro del declino”. E fa esempi: spesa e investimenti pubblici, dimensione d’impresa, semplificazione delle norme (“un reticolo anticompetitivo”).
Se ne deve parlare per bene. Il linguaggio a volte esclude e il populismo si nutre di descrizioni semplici. Serve una tre giorni di dialogo alto, di approfondimento coinvolgente, con un bel finale. Puntualizzo (dal mio punto di vista) cinque capisaldi toccati da Rossi.

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1) Sviluppo. È bello che la crescita europea sia poco inquinante (le si imputa l’8 – 9% della Co2), ma va detto che (con Usa e Canada) consumiamo l’80% dell’energia. Non si tratta solo di risparmiarla e produrla pulita. La possibilità (di crescita) non è illimitata, ed è sempre più a rischio. Rallentare, per valutare bene ed evitare azzardi. Meglio: cambiare passo; scegliere una crescita di alta qualità (creativa, innovativa, apprezzata) che, insieme, riduca volumi, ingombri, consumi di fossili e inquinamento, e aumenti servizi, cultura, sobrietà, bellezza. Passare a opzioni qualitative. È il sogno di chi vive a Milano ed era il trend del Nord Milano prima della crisi. La crescita quantitativa ha un limite oltre il quale muta il paesaggio e diventa una trappola (il trasporto in auto), con annessi disastri. Non scegliere, non scontentare nessuno, non esporsi, genera paralisi e sfiducia. Non si tratta di imporre, ma motivare, decidere apertamente – rischiare il consenso! – e muovere la leva fiscale e gli incentivi. Milano è pronta, con un capitale umano d’eccellenza (Carlo Bonomi).

2) Spesa pubblica. Nodo intricato. Resto del parere di Cassese, fallito il Referendum di Renzi: Dedichiamoci ai rami bassi della PA. Partiamo dai territori, entriamo nel merito; consorziamo i Comuni in gruppi di senso, in rete; facciamone degli hub di servizi che attivino relazioni e risolvano i problemi di imprese, giovani, famiglie. Ne deriverà un gran risparmio e una crescita di ruolo e occupati: vera e unica via per l’autonomia. Milano ha 134 Comuni, uno ogni tre chilometri: separati, ripetitivi e malvisti. Un macroscopico spreco!

3) Investimenti (Infrastrutture). La collaborazione tra pubblico e privato è di buon senso. Esempio: la direttiva europea Solvency II libera l’assicuratore (ho letto che il 40% non sa più dove mettere i soldi) nell’allocare le sue risorse (900 miliardi in Italia e 10.000 in Europa), purché investa in infrastrutture che favoriscano la riduzione dei rischi (“investimenti prospettici”). Rossi la storia la conosce benissimo: ha detto a suo tempo: “Solvency II è rivoluzionaria”. Gli assicuratori sono pronti, soldi in mano. Perché allora non si procede? Parigi ha un progetto da 30 miliardi per ampliare l’attuale rete metropolitana (16 linee su ferro e 303 stazioni) che serve 4,5 milioni di parigini, con altre 4 linee circolari più due prolungamenti (con treni senza conducente), per giungere tra 11 anni a servire 15 milioni di francesi. Perché Milano e la Lombardia non ci mostrano progetti così, visionari e convincenti? Possiamo fare meglio: coinvolgere Piemonte, Veneto e Liguria, e aggiungere il riassetto idrogeologico dei territori e paralleli sistemi di trasporto merci e di vie ciclabili. Ne uscirebbe un sistema policentrico, a flussi complementari e compensativi e un terzo delle auto (elettriche, largamente condivise e a guida autonoma): 1.000 città ricchissime – un po’ alla volta girate in verticale, verdi e funzionali –, e noi liberi dalla morsa ad alto rischio in cui siamo (inquinamento e corsa sfrenata). Saremmo attrattivi e competitivi, e i mercati entusiasti. Un Rinascimento e un esempio. E avremmo lavoro per decenni.

4) Dimensione delle imprese (Lavoro). Piccolo non è bello, dice Rossi. Dipende dalle relazioni interne che si riesce ad avere. È questo il punto: la piccola impresa non cresce per non avere problemi con i dipendenti. Il nodo è il conflitto in azienda. Si possono cambiare le cose e lasciare in azienda il conflitto sano, di merito, per innovare, crescere e farsi apprezzare, aprendo al lavoro nuovo, a “trifoglio” dicono in Usa: dipendente e autonomo, a tempo parziale o specialista. E si può portare fuori, sul territorio, il conflitto divergente, di relazione, personale, liberando tutti dai vincoli del ‘900. Ci sono problemi e insoddisfazioni insanabili? Se ne parla nell’Agenzia dei lavori del territorio e si cambia (collaboratore o imprenditore). Dialogare significa dividersi, discutere, lottare. Lo si può fare come un reciproco dono, un aiuto a crescere, senza perdere il rispetto personale e il senso di responsabilità per il ruolo e per l’impresa. Si può cambiare in questo senso. Si tratta di crederci tutti (compresi sindacati e imprese) e investire su istituzioni per le politiche attive (orientamento, formazione, accompagnamento e tutela) in una triplice logica: di graduale convergenza tra iniziative pubbliche e private, di fiducia tra impresa e lavoro e di anticipazione dei problemi. Tutto costerebbe la metà. Era l’indicazione dell’Unione europea in materia ed è nelle corde, mi pare, di Ursula von der Leyen.

5) Asciugare, semplificare le norme. Su questo punto non so dire. Certo, non può essere il “reticolo anticompetitivo” di oggi e nemmeno la guerra alle burocrazie (che sono indispensabili in mercati aperti). Serve, anche qui, una logica positiva, innovativa, relazionale, che può uscire dalla riforma della PA locale (punto 2).

Francesco Bizzotto



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