24 febbraio 2019

I DIRITTI CALPESTATI SULLA ROTTA BALCANICA

Un inferno che non compare sui giornali


L’informazione in Italia, si sa, è un grande fiume che scendendo a valle travolge tutto ciò che trova. Nessuno si salva. La capacità totalizzante di un frivolissimo festival musicale come San Remo – con speculazioni su protezione della canzone italiana e satanismo – diventa spaventosa, assordante. Bene o male la sua magnitudo informativa è stata la stessa del veto a procedere contro Salvini, argomento di tutt’altra portata, forse dibattuto da chi sogna di essere cittadino consapevole, attivo, politicizzato. Un’agenda informativa monopolistica, a menù fisso, fatta di bolle che inchiodano i lettori alle loro preferenze è un ostacolo alla formazione di menti democratiche, plurali, capaci di tenere ben orientata la canoa nella furia del fiume che scende a valle.

La questione Diciotti ad esempio, base del potenziale processo, poi sfumato, contro il ministro dell’Interno, riporta ad una delle tematiche che più hanno incendiato gli animi negli ultimi mesi: la questione migranti. È ovvio che mentre siamo concentrati sul festival di San Remo non possiamo dedicare attenzione alle votazioni su Rousseau. Allo stesso modo, mentre pensiamo alla Libia difficilmente avremo in mente quella che – in realtà – è la rotta in assoluto più battuta da chi cerca salvezza in Europa, quella balcanica. Dal 2017 al 2018 il numero di sfollati registrati nella penisola balcanica occidentale (Grecia esclusa) è quintuplicato, passando da circa 13000 a oltre 61000. Di questi, la gran parte è bloccata in Bosnia. Non si tratta di un luogo casuale: fuori dall’Unione Europea. Paese richiedente. Come si suol dire “lontan dagli occhi, lontan dal cuore”. Circa.

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La lontananza, appunto, non è solo geografica – i balcani tutto sommato sono dietro l’angolo – in primo luogo è d’informazione. Quale testata, quale programma, almeno in Italia, ha dedicato uno straccio d’attenzione a ciò che succede alle porte orientali d’Europa? I fatti a Sud della Sicilia li conosciamo bene: abbiamo appaltato alla guardia costiera libica il compito di bloccare quante più persone possibili, torturandole e imprigionandole a terra oppure lasciandole morire in mare. Basta che il lavoro sporco avvenga al di fuori dell’UE. Ogni tanto qualcuno riesce ad arrivare, portando sulla propria pelle la testimonianza degli orrori che accadono appena fuori dai cancelli dorati della nostra prestigiosa Europa, premio Nobel per la pace – decisamente immeritato – nel 2012. Purtroppo anche questi testimoni, così importanti, subiscono il doppio effetto dei media (informare e poi rimuovere) diventando fuochi di paglia all’interno di una battaglia sociale che meriterebbe ben altra mobilitazione.

Dunque, i Balcani. Quanti sono a conoscenza dell’accordo tra UE  e Turchia per tenere bloccate quante più persone possibili nei loro territori? Si stimano più di quattro milioni di profughi siriani, iraniani, pakistani immobilizzati. Chi ha sentito parlare della brutalità di Frontex nelle acque territoriali greche? Quanti sanno delle procedure di respingimento messe in atto illegalmente dalle polizie di frontiera italiana, slovacca e croata? Mi soffermo su queste ultime: i migranti lo chiamino proprio “The Game”, la partita, il gioco. Guardie e ladri. Si vince o si perde. Se perdi i casi sono due: o sei morto, o torni in Bosnia direttamente e senza passare dal via.

Le espulsioni forzate a catena attraverso Italia, Slovenia e Croazia violano non solo le normative europee su immigrazione e asilo, ma gli stessi diritti umani di queste persone, che vengono brutalmente picchiate da agenti mascherati, attaccate con i cani, con taser e manganelli. Spogliati e derubati del poco che possiedono (vestiti, telefoni, scarpe, la vita), i migranti vengono caricati su dei camion e gettati nel fiume Glina al confine croato-bosniaco – sì, anche a dicembre e gennaio, con temperature intorno agli zero gradi – o scaraventati mezzi nudi nel cuore della notte in territorio bosniaco. Da lì, la via è una: camminare, sperando di procedere nella direzione giusta, verso i campi profughi a Velika Kladusa o Bihac, luoghi disumani, non c’è bisogno di dirlo. Alcuni preferiscono arrangiarsi in capanni abbandonati e case diroccate pur di non rimettere piede in questi centri sovraffollati e incapaci di fornire il benché minimo aiuto ai bisognosi.

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Seppure siano gestiti da organizzazioni internazionali rilevanti come IOM o UNHCR e malgrado la Bosnia abbia ricevuto oltre 9 milioni di Euro dall’Unione Europea per fare fronte all’emergenza umanitaria, i campi profughi sul confine croato-bosniaco sono in condizioni disastrose. Non ci sono docce. Non ci sono servizi igienici. Non ci sono medicine. L’unica attività possibile è la coda per il cibo, che occupa ore ed ore. Trenta cessi chimici devono bastare a più di duemila persone. Nel frattempo, non si capisce perché, IOM regala motoslitte nuove fiammanti (sic!) al soccorso alpino bosniaco, come se fossero prioritarie rispetto a cibo, medicine e docce calde. È questa la realtà della cooperazione internazionale? È così che si porta assistenza a chi ha bisogno?

Ipsia_Bira_Caj-CornerPer fortuna c’è chi da anni si impegna sul territorio, come IPSIA (Istituto Pace Sviluppo Innovazione Acli) che opera in Bosnia dal 1997 ed è presente sulla frontiera a Bihac nel campo di Borici e al Bira. In quest’ultimo ha creato il progetto di socializzazione Caj Corner, un social café dotato addirittura di calcetto e ping pong. IPSIA ha all’attivo dal 2016 anche interventi di sostegno alla popolazione migrante nei balcani, in quattro campi in Serbia. Altri ancora si muovono per “creare reti di relazioni concrete fra il di qua e l’al di là”, come Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, attivissimi testimoni della situazione (molti contributi per questo articolo provengono da loro) e instancabili portatori di aiuti dall’Italia.

Tra Bosnia e Italia stanno almeno 12 giorni di viaggio. L’inverno rigido e le persecuzioni della polizia di confine hanno fermato momentaneamente il flusso, contribuendo ad esasperare queste situazioni di disagio estremo. Con l’arrivo della primavera i tentativi di arrivare nell’agognata Europa – patria colpevole della mai superata Convenzione di Dublino – si moltiplicheranno, senza però quel minimo di beni necessari ad intraprendere il viaggio. Si parla di scarpe, giacche, sacchi a pelo, vivande. Cose talmente semplici da sembrare banali.

Grazie al lavoro di attivisti nel nord-est si è riusciti a mettere in piedi una raccolta di questi beni e portarli alle persone bloccate nei campi bosniaci. Altre azioni solidali hanno preso piede. Un esempio è l’associazione No Name Kitchen, riuscita a costruire docce informali in un edificio occupato a quasi quattro chilometri dal campo di Velika Kladusa, fornendo anche vestiti puliti e altri beni di prima necessità. Dover scarpinare un’ora al freddo per farsi una doccia e cambiarsi gli abiti può non sembrare un granché, eppure sono queste realtà a tenere viva una piccola, piccolissima fiammella di speranza nel cuore delle persone. Altri, invece, la speranza l’hanno messa da parte.

rotta_balcani_bosnia-Cibati-06Farò solo un esempio: Alì. Costretto dalla polizia croata a tornare fino a Bihac – circa 60Km di tragitto – camminando senza vestiti e coi piedi scalzi nella neve, ora Alì è sospeso tra necrosi, morte e abbandono. Mettetevi nei suoi panni. Chi avrebbe voglia di farsi curare, amputare i piedi? Chi avrebbe la forza di ripartire ancora una volta? Se Alì ha smesso di combattere, noi non possiamo permettercelo.

Purtroppo, la realtà di No Name Kitchen a Velika Kladusa è stata interrotta bruscamente da uno sgombero effettuato dalla polizia bosniaca. Arrivando all’assurdo più totale, chi crea corridoi umanitari e rende questa rotta meno difficile e pericolosa, senza chiedere nulla in cambio e senza disturbare il lavoro delle istituzioni, viene perseguitato. A causa dei controlli sempre più stringenti è diventato quasi impossibile varcare i confini che ci dividono dai campi bosniaci portando beni di qualsiasi genere: vengono sistematicamente sequestrati utilizzando sotterfugi burocratici (ad esempio l’assenza di certificati di disinfezione rilasciati dall’azienda sanitaria pubblica). L’unica soluzione rimasta, ormai, è portare direttamente i soldi in Bosnia e acquistare in loco ciò che serve.

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La necessità di mostrarsi coesi, attivi e solidali è più che mai urgente. Perdersi d’animo non vedendo soluzioni immediate favorirebbe soltanto chi vuole costruire muri e fomentare l’odio. Non lo si può permettere. Per questo è necessario mobilitarsi, ognuno con i propri mezzi, nel quotidiano, per salvaguardare quegli ideali di fratellanza ed eguaglianza che furono le fondamenta dell’Unione Europea. L’Unione Europea che abbiamo oggi, purtroppo, non è più la giovane spumeggiante signorina di Ventotene: è diventata una suocera anziana e irrancidita, pervasa da spasmi nazionalisti e xenofobi, cieca e sorda di fronte ai diritti umani e violenta e repressiva contro chi cerca alternative. Reagiamo. Resistiamo.

Abbiamo deciso di intraprendere nuovi viaggi per portare sostegno a Velika Kladusa e Bihac. L’obiettivo, ora, è comprare direttamente in Bosnia ciò che manca ai rifugiati, evitando in questo modo i sequestri alla frontiera. Per la raccolta fondi abbiamo deciso ad appoggiarci a Produzioni dal Basso. Qualsiasi contributo servirà ad aiutare persone proprio uguali a te, con la sola colpa di essere nate in un luogo – per ora – meno fortunato del tuo.

Francesco Cibati, Davide Rabacchin, Jessica Beele
ARCI Trieste, ICS, Associazione Culturale Tina Modotti

I viaggi di sostegno coincideranno con le riprese di un documentario, “How I came here” che racconta proprio queste violenze e crudeltà ai confini orientali dell’Europa. Se siete interessati ad organizzare un incontro per raccontare meglio l’inferno della rotta balcanica, o per avere più informazioni potete scrivere direttamente a f.cibati@gmail.com, oppure alla pagina Facebook “In aiuto ai migranti lungo la rotta balcanica”. Per restare informati riguardo la situazione sulla rotta balcanica consigliamo di seguire No Name Kitchen, Lungo la rotta balcanica, Are You Syrious. Tutti coloro che parteciperanno alla raccolta fondi verranno informati prima e dopo il viaggio riguardo i conti economici, gli acquisti e gli aiuti concreti arrivati a Velika Kladusa e Bihac.

Le foto in bianco e nero sono di Davide Rabacchin, regista di “How I Came Here”, documentario sulla situazione attuale lugo la rotta balcanica in Bosnia.



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