17 maggio 2022

ACCENDIAMO FARI DI PACE

Sostegno alla lotta dei portuali contro le navi della morte


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La presenza nel porto di Genova della nave saudita Bahri Hofuf, una delle “navi della morte” contro cui i portuali genovesi stanno protestando da tre anni; la presentazione di una interpellanza parlamentare firmata dalle deputate del gruppo Manifesta, prima firmataria Yana Chiara Ehm; la pubblicazione sul sito di Weapon Watch delle risposte ricevute alle richieste di accesso agli atti presentate alle autorità portuali e alla Prefettura di Genova; la prosecuzione dell’iniziativa dei ‘fari di pace’, inaugurata a Genova lo scorso 2 aprile e in programma in altri porti e città, questi i temi della conferenza stampa che Carlo Tombola presidente di Weapon Watch, ha tenuto la mattina del 13 maggio al CAP di via Albertazzi 3/r, a Genova, con la partecipazione del CALP, Collettivo autonomo dei lavoratori portuali, del sindacato USB e di componenti del gruppo parlamentare Manifesta. CAP: lo storico Circolo dei pensionati dell’Autorità Portuale e Società del Porto di Genova, centro ricreativo e culturale, sede di aggregazione e presidio di democrazia nella città. 

Sui temi della conferenza stampa chiedo a Carlo Tombola, e ne ricevo una puntuale esposizione.

Storico e ricercatore, Carlo Tombola è tra i fondatori di Weapon Watch, l’Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei, collabora con OPAL, Osservatorio permanente armi leggere di Brescia, è nella redazione della rivista «Officina Primo Maggio». Presiede il Comitato promotore “Non Dimenticarmi”, per un memoriale dedicato alle vittime delle “stragi di stato”, la cui collocazione a Milano è stata approvata dalla Commissione Monumenti del Comune. Con la Fondazione Micheletti di Brescia ha pubblicato un manuale di storia del Novecento e curato il volume L’ultima rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto (2019) insieme a Pier Paolo Poggio.

L’osservatorio Weapon Watch è nato tre anni fa a Genova, per iniziativa di un gruppo di persone con varie competenze nella logistica, nel movimento operaio, nelle scienze sociali, tutte però vicine e solidali a un gruppo di giovani portuali che aveva lanciato una parola d’ordine: «Porti chiusi alle armi e aperti ai migranti!».

Presto questo slogan si è concretizzato con una vera lotta contro una compagnia marittima saudita, il cui nome Bahri non dice nulla ai non addetti ai lavori, ma si tratta di uno dei gioielli della corona della famiglia reale “custode delle due Sacre Moschee”. La compagnia Bahri possiede una novantina di moderne petroliere, è uno dei leader mondiali del trasporto petrolifero ma da qualche anno si è dotata anche di una flotta di traghetti misti, che possono trasportare sia veicoli che container e carichi speciali. Di fatto queste navi assicurano il rifornimento all’Arabia Saudita e ai suoi alleati del Golfo di due prodotti indispensabili: le attrezzature per l’industria petrolifera e gli armamenti. Sono impiegate soprattutto su una rotta “pendolare” che va dagli Stati Uniti al Golfo Persico e che, dopo le proteste scoppiate nei porti inglesi, francesi, belgi, olandesi, spagnoli nella primavera 2019, hanno eliminato tutte le “toccate” europee, tranne quella di Genova.

A Genova queste navi le hanno chiamate le “navi della morte”. A ogni passaggio i lavoratori del porto hanno visto che nelle stive ci sono sempre grandi quantità di armi, anzi per meglio dire di “sistemi d’arma” di grandi dimensioni (carri armati, blindati leggeri, elicotteri, sistemi per le telecomunicazioni militari) di fabbricazione americana o canadese; e sui ponti hanno notato decine di container con l’etichetta arancio degli esplosivi, provenienti dai grandi terminal militari della costa est degli Stati Uniti.

Poi a ogni passaggio delle navi saudite in porto hanno visto anche farsi sempre più massiccia la presenza ai varchi e sulle banchine delle forze dell’ordine, della Digos, dei carabinieri, e più stretta e invasiva la vigilanza sui lavoratori che salivano a bordo, mentre sulla nave guardie private controllano che nessuno si introduca nei garage dove sono sistemati i mezzi militari.

Agli “osservatori” di Weapon Watch è sembrato che questo trattamento speciale dovesse essere preso sul serio. Se il governo italiano impiega così tante energie, tra l’altro, con i soldi del contribuente, per garantire che l’Arabia Saudita – paese che non pare sia legato all’Italia da un’alleanza militare – riceva senza problemi i rifornimenti militari indispensabili per continuare le sue guerre, e in particolare quella in Yemen, dove ha in innumerevoli occasioni violato i diritti umani della popolazione civile, è forse per il ruolo guida che il regno gioca nel così strategico mercato del petrolio? E anche perché è tra i maggiori acquirenti delle armi di produzione italiana?

Cosa c’è di così importante dentro le stive delle navi Bahri? A Genova chi lo sa con certezza, oltre ai clienti sauditi e ai fornitori americani, sono: l’Autorità di sistema del porto, che è un bene pubblico e che per questo appunto è diretto da funzionari di nomina governativa; la Guardia costiera che ha competenza sulla sicurezza della navigazione marittima; la Prefettura, che deve ricevere comunicazione di tutti gli armamenti che passano attraverso il territorio nazionale, oltre a controllare che quelli esportati dall’Italia siano stati debitamente autorizzati, il capitano della nave. 

Weapon Watch ha pensato che fosse giusto conoscere dettagliatamente il carico di queste navi, per garantire la sicurezza sia dei lavoratori del porto più prossimi ai carichi di esplosivi, sia degli abitanti dei quartieri urbani più vicini all’area portuale. Ne ha fatto richiesta alle suddette autorità attraverso il cosiddetto “accesso civico agli atti”, uno strumento con cui i cittadini possono chiedere alle autorità pubbliche di venire a conoscenza del contenuto di documenti pubblici. Ha atteso oltre due anni per ricevere tutte le risposte dovute per legge a domande che sono state fatte proprie anche da organizzazioni sindacali e da numerose associazioni genovesi laiche e religiose. Sono state sottoscritte dall’arcivescovo di Genova e dall’arcivescovo di Savona – con il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana – in occasione della “marcia della pace” che hanno organizzato lo scorso 2 aprile, chiamando i partecipanti a raccogliersi sul sagrato della Cattedrale di San Lorenzo. 

Ora, queste risposte – che si possono leggere integralmente sul sito di Weapon Watch (www.weaponwatch.net ) – risultano assai lacunose. Le autorità si rimpallano le competenze, ovvero escludono che al caso si possa applicare la legge 185 del 1990, che regola il commercio delle armi in Italia. Evitano però di riferirsi al Trattato internazionale sul commercio delle armi, che pure l’Italia ha firmato e ratificato. Le informazioni richieste non le hanno date. Eppure sappiamo che in caso di esplosione accidentale di ordigni di guerra i Vigili del fuoco genovesi non hanno le competenze tecniche per intervenire a bordo, e che il più vicino gruppo di artificieri dell’Esercito è di stanza alla Spezia. Eppure sappiamo che il servizio portuale di “guardia ai fuochi” – per il primo intervento in caso di incendio – si svolge a Genova in modo assai superficiale e assai poco preventivo. Eppure l’esplosione di Beirut è presente nella memoria collettiva.

Come sempre, la battaglia per la trasparenza degli atti amministrativi è una battaglia per la democrazia, e i tempi sono tali da renderla essenziale e ineludibile.

Azioni coordinate di protesta e di monitoraggio sul piano internazionale si aggiungono alle attività più strettamente legali. Il nodo centrale del transito di armamenti nei porti italiani sta nel mancato rispetto della legge 185/1990 e del Trattato internazionale sulle armi convenzionali (Att), entrato in vigore il 24 dicembre 2014, che vietano sia l’esportazione sia il transito e il trasbordo delle merci militari verso Paesi a rischio bellico e responsabili di grave violazione dei diritti umani.

“Dopo il 2001, per questioni legate alla sicurezza e al terrorismo, il contenuto di un container, non soltanto se pericoloso, viene reso noto con grande anticipo dal trasportatore alle autorità portuali, al capitano e alla Prefettura. Questo perché il carico deve essere trattato in un determinato modo. L’obiettivo di Weapon Watch è rendere pubblico il transito quando le armi sono dirette verso Paesi a rischio”. Questo è più semplice quando il trasferimento riguarda armamenti di grandi dimensioni, si pensi ad elicotteri e blindati, è più complesso quando la merce è nascosta dalle pareti di un container. Le ispezioni sui container spettano solamente alle autorità ma i controlli sono ridottissimi. È la logistica che detta le regole e, in nome della velocità ed efficienza dei trasporti, meno del 1% dei container che transitano in Europa vengono controllati”.

In un periodo “soddisfacente”, secondo Tombola, rispetto alle evoluzioni nell’attività della rete dei lavoratori portuali, si registrano anche note negative. Nel febbraio 2021, la Procura di Genova ha messo sotto inchiesta cinque attivisti del Collettivo autonomo lavoratori portuali (CALP) ai quali si contesta l’accensione di fumogeni e imbrattamento. Sono due reati minori ma costituiscono un segnale forte rispetto alle azioni messe in atto dal CALP. “Aver aperto un’inchiesta e non averla ancora chiusa dimostrerebbe che la richiesta sia stata in qualche maniera ‘imprenditoriale’. L’azienda che gestisce le navi ‘Bahri’, genovese, aveva dichiarato pubblicamente che era necessario un intervento. È un’azione preventiva della magistratura e dal mio punto di vista intimidatoria, dichiara Carlo Tombola. 

Ricordiamo l’iniziativa contro le armi nel porto di Genova che il 2 aprile 2022 ha assunto Pax Christi Italia insieme con un largo fronte di associazioni ecclesiali e laiche, in collaborazione con l’Arcidiocesi di Genova e la Diocesi di Savona-Noli. Il transito di armamenti nel porto genovese è rischioso per i cittadini che vivono a ridosso della zona portuale. “Le case sono a 400 metri di distanza da dove solitamente stazionano le navi. Non è una distanza sufficiente. Nell’arco di 800 metri ci sono due depositi petrolifero e chimico che, se coinvolti in un’esplosione, avrebbero effetti devastanti”.

Anche a nome di Calogero Marino, vescovo di Savona, Marco Tasca, arcivescovo di Genova, ha lanciato l’Appello a tutte le persone che vogliono davvero la pace”: […] Getteremo “fari di pace” sul traffico di armi in cui siamo coinvolti, che nutre e prepara le guerre attorno a noi, sempre più vicine. Consegneremo richieste forti all’Autorità Portuale di Genova. C’è qualcosa di concreto che possiamo fare per fermare le prossime guerre, senza arrivare sempre “dopo”, quando è facile dirsi tutti “pacifisti” e sembra che la solidarietà sia l’unica risposta che possiamo offrire. Partiremo da Genova chiedendo a tutte le città portuali del nostro Paese di replicare la mobilitazione accendendo “fari di pace”. Basta armi che transitano dai nostri porti. Nessuna guerra può alimentarsi della nostra complicità o indifferenza».

Franca Caffa

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