4 ottobre 2017

la posta dei lettori_04.10.2017


Scrive Maurizio Pinciroli sui forestierismi nella lingua amministrativa – Bravo signor Beltrami Gadola! La partecipazione di cui tanto si parla si concretizzerebbe anche e innanzitutto nell’esprimersi in modo corretto nella lingua che condividiamo. Quindi perché “scoping“? Lei ha fatto molto bene nel suo articolo a mettere in nota la traduzione italiana di quella brutta parola inglese (“analisi preliminare”).

Scrive Andrea Vitali sulla burocrazia comunale – Segnalo che, a differenza di quanto viene riportato da Beltrami Gadola nel suo intervento, sul sito comunale non c’è traccia di una delibera di Giunta o di un qualunque atto istituzionale con cui l’assessorato avrebbe licenziato il documento di obiettivi per il PGT diffuso sul sito. Da quanto sembra di capire (ma potrebbe anche trattarsi di un errore comunicativo) il documento è stato predisposto semplicemente dai funzionari comunali, senza avvallo di qualunque tipo da parte di un organo di governo.

Un tempo (poco tempo fa) gli indirizzi venivano stabiliti dai Consigli (eletti dai cittadini). Poi si è passati alle Giunte (non elette, ma almeno organi di secondo livello rappresentativi della volontà dei cittadini e soggetti in qualche modo a loro giudizio). Ora sono i burocrati comunali (non eletti da nessuno, che non rispondono a nessuno, per nulla rappresentativi dell’interesse pubblico o di alcunché) che si peritano di decidere quali siano gli obiettivi di un documento così importante come il PGT! Siamo alla frutta.

Scrive Giorgio Dodero sui vigili urbani a Milano – Ritornando all’articolo di Oreste Pivetta, ritengo che sarebbe utile che la vostra redazione cercasse di chiarire i motivi per i quali i vigili urbani sono spariti dalla strade di Milano. Quando la mia famiglia si è spostata da Genova a Milano, c’erano sempre in piazza Piola (per esempio ) almeno due vigili urbani. I vigili potrebbero essere equipaggiati con le telecamere come in molte città americane.

Scrive Giorgio Dodero sulla riapertura dei Navigli – In aggiunta all’effetto immagine evidenziato da Emilio Battisti nell’articolo del 12 e in quello del 19 settembre, ritengo che dovrebbero venire evidenziati gli effetti negativi di questo progetto (zanzare, topi, umidità, etc. ). Forse si potrebbero utilizzare questi soldi in lavori più urgenti. Per esempio, la piazza davanti alla scuola “Leonardo da Vinci” è da tempo disastrata e sconnessa.

Scrive Gianluca Gennai sulle periferie – Gentile signora Li Vigni, condivido con lei l’idea delle due città per dare un’immagine forte di una discrasia peraltro accentuata dall’atteggiamento tutto milanese di tendere a brillare forse in modo snob, non che sia un difetto, tuttavia è una constatazione. Milano è come un virus, quando ti entra non esce più, soprattutto per chi come me l’ha scelta per viverci.

Le periferie che lei descrive come pensa possano risolversi senza un’inversione assiologica decisa e efficace da parte del sistema? Un sistema del quale anche Io e Lei facciamo parte peraltro consapevolmente, sul quale poggiano le nostre esistenze soggette (ahimè!) alla legge dell’inerzia come ogni cosa.

Non basta come scrive, una maggiore attenzione verso le associazioni di quartiere o un maggiore impegno delle Forze dell’Ordine o dei servizi sociali tuttavia da ritenere indispensabili. Non bastano tutte le associazioni di volontari laici o cattolici davvero impagabili, a partire da Save the Children, per correggere le complesse distorsioni che si sono incancrenite nei vari strati sociali insistenti in periferia, iniziando dai problemi dell’infanzia.

La sua esposizione è molto attenta ed equilibrata ma asettica, distante,senza pathos. Parla di 13.000 bambini con problemi che oggi sembrano davvero ricondurci alla storia di Oliver Twist e lo fa senza rabbia, non c’è indignazione, leggo una lucida disquisizione anche elegante di qualcosa che si sente come un peso, quasi una colpa da espiare facendo qualcosa.

Questo qualcosa è senz’altro per ognuno di noi molto personale, un impegno sociale, un impegno intellettuale come il suo intervento dimostra, probabilmente un impegno economico nel sostenere qualche associazione ma spesso non fisico, nessuno sposta la propria esistenza sicuramente fatta di piccoli o grandi privilegi, là dove il privilegio è sopravvivere con fatica al continuo e asfissiante senso d’impotenza. È questa la forma più grave di una “non esistenza“ di cui anche lei parla senza mai citarla tale.

Ecco che allora l’esercizio della retorica può scivolare ad libitum in una qualsiasi disciplina ove ci si senta in grado di esprimerci, di dire la nostra. Come non citare i tanti scrittori definiti “di denuncia” che grazie alle periferie fanno guadagni con le loro pubblicazioni, quanti poi si espongono davvero in modo predace per tentare di cambiare ”le stelle“ di zone davvero degradate dove essi stessi spesso hanno vissuto e che poi hanno abbandonato a favore di un’esistenza migliore.

C’è bisogno di segnali forti, di esempi da dare, di lottare restando in periferia. Tutto ciò è comprensibile, quanto di più umano, ma c’è un passaggio da evidenziare in questa logica: le periferie servono cosi come sono, hanno una loro precisa collocazione nel sistema, la periferia inizia fuori dai bastioni.

Se davvero vogliamo che le periferie siano solo geograficamente tali, allora l’impegno che dovremmo assumere è quello di provare a cambiare ciò che lei definisce fondamentale, non solo proponendo, ma direi agendo ognuno con le proprie capacità sul sistema centrale certamente oggi mancante se non deleterio rispetto ai tanti problemi delle zone degradate e abusate anche intellettualmente. E’ parere dello scrivente che questo sia de facto l’equilibrio che la città vuole continuare ad avere.

Finché la città guarda con occhi famelici solo la parte albeggiante del sistema economico fatto di investimenti e di guadagni attraverso l’utilizzo delle migliori risorse imprenditoriali, finché il sistema politico farà da stampella solo e soltanto al sistema economico certamente milanocentrico, finché le persone influenti resteranno neutre tutto resterà com’è, non ci saranno cambiamenti significativi, non ci saranno rivoluzioni o peggio scivoleremo nel gattopardiano cambiare tutto per non cambiare niente “perché infondo è questa la verità ritrovata in ogni occasione di voto”.

C’è una periferia, quella dignitosa che ogni giorno si rimbocca le maniche alla quale lo scrivente appartiene, quella dell’impegno sociale attraverso un proprio contributo anche professionale senza guadagni, quella delle chiamate alle forze dell’ordine quando necessario, quella della vera integrazione condominiale, quella dei campanelli con gli adesivi e con nomi illeggibili, quella delle panchine occupate da chi potrebbe dare di più, quella che tenta di scalfire in qualche modo il guscio scivoloso del sistema ma che fa fatica a respirare.

Le realtà associative che lei descrive come una delle soluzioni da incentivare, oggi sono legate a un concetto più vicino alla sopravvivenza che al tentativo di migliorare perché quando la malattia è grave, si migliora si ma dopo la cura che in questo caso vuol dire fare grossi investimenti, portare l’economia che conta facendo degli accordi, pensare prima alle periferie e poi ad altro, essere famelici nel tentativo di portare allo stesso livello le due città da lei citate.

Si può essere d’accordo sulla crescita sociale che deve andare di pari passo, ma ha che cosa? Ai timidi e mediocri tentativi di ristrutturazione visti fino ad oggi? Le periferie sono in attesa di Godot pur conoscendone la metafora.



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