15 marzo 2017

sipario – LA MODA DEL MADE IN … DANZA


L’ultima Settimana della Moda dello scorso febbraio a Milano si è conclusa con il motto «Valorizziamo il Made in Italy», estremizzato da case italianissime come Fendi con il recupero della tradizione nazionale di conceria e pellicceria. Se il Made in Italy appare per le aziende la pista migliore da seguire per risollevare la posizione della cultura della moda e dello stile italiani nel mondo, perché la stessa riflessione non viene estesa a tutti gli ambiti della cultura italiana? per esempio, alla danza?

sipario10FBNon si tratta di sovranismo, né di nazionalismo – nonostante queste parole siano all’ultimo grido tra i banditori della politica europea e d’oltreoceano –, ma di un’opera di riqualificazione e innovazione culturale, che parta dalla nostra storia e dalla nostra tradizione.

Se si dà, infatti, uno sguardo al di là delle Alpi, si trova un prolificissimo Het Nationale Ballet (la compagnia nazionale di balletto) dei Paesi Bassi che della propria identità culturale e autarchia della produzione riempie il cartellone e le platee. Quando lo scorso autunno andai ad Amsterdam a vedere una Bayadère con i primi ballerini Anna Ol’ e Young-gyu Choi, trovai nel cartellone balletti del direttore e coreografo Ted Brandsen come la sua nuovissima creazione Mata Hari, dedicata alla danzatrice e agente segreta olandese, condannata a morte durante la Grande Guerra. Accanto a questo due titoli accattivanti Made in Amsterdam 1 & 2, due serate miscellanee con coreografie da Aleksej Ratmanskij a Christopher Wheeldon, Ernst Meisner, Krzysztof Pastor e altri, che non sono olandesi, ma che creano pezzi cuciti addosso alle potenzialità e attitudini della compagnia, ‘prodotti ad Amsterdam’. Anche Wayne McGregor al suo Sadler Well’s a Londra ha deciso di riprendere la vita della scrittrice inglese Virginia Woolf per il suo primo balletto a serata intera di tre atti Woolf Works, creato per la prima ballerina assoluta Alessandra Ferri e il suo rientro sulle scene dell’anno scorso. Woolf Works di Wayne McGregor è entrato anche nel repertorio della compagnia nazionale inglese del Royal Opera House, interpretato da un’altra grande danzatrice italiana Mara Galeazzi, principal a Londra.

L’operato inglese e olandese è indubbiamente di successo e dovrebbe essere di stimolo ed emulazione per le scene internazionali. La valorizzazione del patrimonio culturale non ha solo una finalità ‘sentimentale’, ma il sentimento  – che diventa inevitabilmente interesse – ha il suo ritorno nelle presenze di pubblico alle recite. Una situazione simile si era verificata anche al Teatro alla Scala, quando l’onnipresenza di Wagner alle prime di sant’Ambrogio aveva destato un calo di interesse e una nostalgia di Verdi. Senza entrare nel merito musicologico e operisitico di Verdi e Wagner, per il milanese Verdi rappresenta il proprio compositore. Infatti, dopo il ritorno di Verdi l’opera al Piermarini ha visto una nuova fioritura sfociata anche nella messa in scena di opere meno note o giovanili, come fu la stagione scorsa con Giovanna d’Arco.

Il sentimento di appartenenza culturale è importante anche per gli artisti di una compagnia. Ricordo sempre ad Amsterdam, quando mi confrontavo dopo lo spettacolo con un’amica danzatrice dell’Het Nationale Ballet, è emerso il concetto di grande unità e omogeneità della compagnia. A danzare attorno ai propri primi ballerini, studiare e migliorarsi ogni giorno insieme nella classe e nelle prove, i ballerini del corpo di ballo vivono un sentimento di sincero piacere per i successi che raggiunge tutta insieme la compagnia. La complicità di una compagnia e il lavoro di coesione vengono fortemente minati con il costante invito da parte delle dirigenze artistiche di ballerini ospiti per i primi ruoli. Responsabilizzare i primi ballerini ‘di casa’, far sì che possano dimostrarsi guida per la compagnia (come ha dichiarato Claudio Coviello, primo ballerino scaligero, in un’intervista con me) è un impegno che ogni teatro dovrebbe porsi come obiettivo.

Ricordo il progetto del precedente direttore artistico Mauro Bigonzetti, che nel presentare la stagione 2016/17 aveva fortemente intenzione di valorizzare l’ingegno coreografico di alcuni elementi della compagnia. Dal 19 aprile al 13 maggio prossimi al Teatro alla Scala la serata composta dai tre titoli La Valse di Maurice Ravel, Symphony in C di Balanchine e Schéhérazade di Rimskij-Korsakov vede la valorizzazione di coreografi nazionali. Infatti, Schéhérazade non sarà allestita nella versione coreografica dei Ballets Russes, ma in un nuovo disegno di Eugenio Scigliano, espressamente creato per la compagnia scaligera. La Valse vedrà, poi, una novità unica per il Teatro alla Scala: le coreografie di Marco Messina, Matteo Gavazzi e Stefania Ballone, già coreografa e interprete in Alter con l’étoile Massimo Murru per lo scorso Festival MilanOltre, che creeranno un progetto unitario per i propri colleghi. Così si valorizza la danza Made in Italy!

Domenico Giuseppe Muscianisi

 

Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano (Teatro alla Scala): Marco Messina, Stefania Ballone e Matteo Gavazzi.

 

questa rubrica è a cura di Domenico G. Muscianisi e Chiara Di Paola

rubriche@arcipelagomilano.org



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