3 maggio 2016

sipario – DIETRO LE QUINTE: COMPAGNIA LUMEN. PROGETTI, ARTI, TEATRO


DIETRO LE QUINTE DELLA COMPAGNIA LUMEN. PROGETTI, ARTI, TEATRO

Una nuova tappa alla scoperta dei giovani talenti del teatro milanese ci porta a incontrare la regista Elisabetta Carosio e l’autore e attore Gabriele Genovese, che nel 2014 insieme ad Alessandra Carlino hanno fondato Compagnia Lumen. Progetti, arti, teatro. Il progetto è quello di raccontare la propria generazione e le sue contraddizioni in uno stile personale, che utilizza l’humor nero come strumento di riflessione, immedesimazione e catarsi.

sipario16FBNei vostri spettacoli portate sulla scena personaggi alla ricerca di una collocazione nel contesto sociale in cui vivono (la fabbrica, il paese, un sistema economico), attraverso un confronto coi modelli della tradizione, con il giudizio degli “adulti”, e soprattutto mediante il lavoro, la ricerca di fortuna e l’affermazione di sé. Questa ricerca sembra però svolgersi sullo sfondo di un “Medioevo moderno”, provinciale, superstizioso, alienante … . Siete pessimisti nei confronti del futuro o credete in un nuovo possibile rinascimento in cui l’uomo potrà nuovamente dare significato alla propria vita?
Uno degli aspetti “medievali” che sopravvivono e contraddicono la modernità è quello della difficoltà di comunicare: apparteniamo a un mondo sempre più interconnesso, siamo bombardati di messaggi di vario genere eppure è come se vivessimo in tanti microcosmi slegati, in cui la comunicazione è ostacolata dalla burocrazia o condizionata dalla possibilità di sfruttare i canali giusti. Nel nostro lavoro ci scontriamo quotidianamente con la difficoltà di acquisire visibilità ed entrare in contatto con le persone giuste per promuovere i nostri progetti; ci rendiamo conto che i nuovi mezzi di comunicazione spesso non velocizzano i processi di scambio ma piuttosto li rendono rigidi e anacronistici, disperdono i contenuti e causano l’evanescenza dei rapporti interpersonali. Le tante incombenze burocratiche rischiano di invadere il tempo del lavoro artistico.
Ma del “Medioevo” proviamo con i nostri spettacoli a recuperare anche gli aspetti più affascinanti: l’avventura, il mito, la magia, gli atteggiamenti ingenui che rendono possibili incontri (e scontri) fantasmagorici. E poi rivivere questa sorta di Medioevo dà l’enorme vantaggio di non essere schiavi di “canoni” per così dire rinascimentali, e dunque consente di esprimersi in maniera più libera e personale: nella più completa incertezza puoi permetterti di fare quello che vuoi … . Dunque il nostro è un Medioevo “ottimista”, raccontato con il sorriso e aperto alla possibilità del bello, della gioia, del riscatto della propria dignità. Quando abbiamo dovuto rappresentare il finale  non certo ottimista di Dayshift abbiamo scelto di farne un monito.

La messa in scena degli “stereotipi” della modernità industriale, della diffidenza provinciale, dell’Italia popolata “di straccioni, di porci e di re”, presuppone un rifiuto di questi “luoghi comuni” oppure è un tentativo di catarsi? Insomma, oggi siamo più liberi dagli stereotipi delle generazioni che ci hanno preceduto? O ne abbiamo semplicemente creati di nuovi?
L’emancipazione dagli stereotipi non è una conquista permanente ma una sfida che si rinnova ogni giorno, perché anche una affermata libertà artistica e creativa deve confrontarsi con il sistema sociale, economico e burocratico; e poi c’è la cultura etica, fatta di valori, aspettative, sguardi che spiano e voci che giudicano con “quotidiana violenza”.
Rispetto alle generazioni precedenti, i giovani oggi hanno la possibilità di scegliere da soli le proprie aspettative e aspirazioni, ma si confrontano con quelle della generazione precedente.  Diventare “adulti” oggi significa trovare il modo per realizzare l’idea che ciascuno ha di se stesso, a prescindere dal raggiungimento di uno status sociale o dell’indipendenza economica.
Per quanto riguarda nello specifico il teatro, lo stereotipo non è necessariamente qualcosa di negativo, ma anzi uno strumento utile a condensare la vita sulla scena e a rappresentarla in maniera immediata. Serve anche a catturare l’attenzione del pubblico, poiché rompe alcune resistenze psicologiche all’identificazione da parte dello spettatore che si trova dapprima ad assistere con simpatia distaccata, ma progressivamente si scopre partecipe delle vicende che osserva e infine si sorprende a ridere di se stesso. Anche lo stereotipo può essere uno strumento per evadere dalla realtà, affrontandola contemporaneamente a un altro livello, con onestà.
A questo proposito un giornalista, che consideriamo un maestro, ha condiviso con noi un principio che abbiamo deciso di fare nostro: bisogna stare attenti a non scegliere questo mestiere (parlava del suo, ma lo stesso vale benissimo per il nostro) perché non si sopporta più la realtà; piuttosto deve essere un nuovo modo di indagarla e amarla.

In tutte le vostre rappresentazioni è evidente un trattamento del tempo molto particolare: intere vite vengono compresse nell’arco di una sola giornata o di una notte, alcuni momenti si dilatano e enormemente, lunghi anni trascorrono in poco più di un’ora di spettacolo. A quale “ritmo” si muove oggi la generazione giovane? Ha ancora “tempo” per il teatro?
La compressione dell’esistenza in uno spazio-tempo ridotto è inevitabile in qualunque spettacolo, perché nel teatro la vita si sviluppa non in estensione bensì “in profondità”: prima di allestire una messa in scena è necessario avere ben chiari tutti i significati del mondo che si vuole rappresentare, per poi selezionare dei temi che arrivino al pubblico in maniera immediata. Proprio per questo talvolta è utile ricorrere alla contaminazione di linguaggi diversi (musica, puro movimento, trasfigurazione sognante), rallentare il fluire del tempo, rompere l’azione e scardinare la comunicazione verbale per dire qualcosa a un altro livello, sottolineare determinati momenti ed esplicitare suggestioni del mondo interiore o immaginario.
I ragazzi di oggi si muovono a un ritmo diverso da quello che scandiva la vita dei loro genitori. Il tempo per il teatro c’è, ma forse manca l’educazione a un teatro “non noioso”, coinvolgente, capace di dire qualcosa che riguardi intimamente ogni spettatore.

Le vostre opere sono dense di suggestioni letterarie: dal postmodernismo di “Figli di chi” al realismo di “Brevi giorni e lunghe notti”, alle immagini assurde e allucinate di “Dayshift”, che ricordano “Le Metamorfosi” di Kafka, l’“Ulisse” di Joyce e l’onirismo di Orwell. La moltitudine di personaggi che in esse compaiono e il complesso intrecciarsi delle loro storie ricorda molto i poemi cavallereschi, con una trama scandita da peripezie e ostacoli da superare. Ma chi sono gli eroi del vostro teatro? Ovvero: dove sta l’eroismo moderno?
Al centro dei nostri spettacoli c’è l’uomo qualunque, che non si identifica necessariamente con un luogo o un’epoca storica, pur vivendo in un contesto concretamente presente e spesso molto condizionante. L’eroismo moderno è basato sulla ricerca di sé, di una propria dimensione che non rinnega il sostrato culturale di provenienza ma lo armonizza con il desiderio di una libertà nuova. Così per esempio in Brevi giorni e lunghe notti, il ricordo di racconti uditi durante l’infanzia e i personaggi di un mondo dall’aspetto fiabesco eppure reale vengono trasportati sulla scena e trasformati in qualcosa di nuovo, in un’affermazione di identità e libertà artistica, che è anche celebrazione degli aspetti positivi della realtà che hanno reso questa libertà possibile.

Domanda tecnica per Elisabetta Carosio: è difficile condurre la regia di uno spettacolo in cui il protagonista sia anche l’autore del testo?
Tantissimo! Perché correggere l’attore o tagliare una scena significa rischiare di stravolgere il significato del testo e nei confronti dell’autore mi pongo sempre per prima cosa il dubbio di non aver compreso l’importanza di un elemento per lui essenziale! Per questo, prima di manipolare il testo, bisogna cercare di aderire il più possibile ai suoi significati, al suo mondo, al suo linguaggio. Ma forse è ancora più difficile curare la regia di un testo proprio, perché allora si ha la pretesa che tutto sia importante e non sacrificabile!
In entrambi i casi, arrivati in sala prove, bisogna essere anche “spietati” e adeguare il copione alle esigenze della scena e (almeno un po’) alle attese del pubblico per il quale produciamo testi e immagini. Per riuscire in questo equilibrismo ci vogliono fiducia reciproca tra autore e regista e consapevolezza delle rispettive competenze: per fortuna Gabriele non è un autore “geloso” e accetta di effettuare molte riscrittura in scena per dare concretezza sul palco alle immagini che mi vengono in mente leggendo il testo. Succede di scontrarsi, ma ci conosciamo abbastanza da far sì che e anche il confronto e lo scontro servano nel processo di lavoro e generino un miglioramento!

Chiara Di Paola

 

DIETRO LE QUINTE
INTERVISTA A LIVIA FERRACCHIATI 05/04/2016
INTERVISTA (BIS) A “GENERAZIONE DISAGIO” 24/02/2016

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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