6 febbraio 2024

QUANTA MUSICA A MILANO!

Una città musicale


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Siamo nel pieno delle stagioni musicali e c’è tanta di quella musica a Milano che diventa difficile scegliere cosa andare ad ascoltare. Nomi nuovi e nomi consunti, giovani e non più giovani, programmi innovativi o ripetitivi, c’è proprio di tutto. In questi casi finisce per prevalere quel poco o tanto di pigrizia che alberga in ciascuno di noi e che ci fa prediligere i luoghi cui siamo più avvezzi, dove siamo confortati da un ambiente che ci sembra familiare, ovvero la curiosità per cose totalmente nuove che pensiamo possano sorprenderci.

Farò dunque una breve cronaca di quel che ho sentito nelle due ultime settimane.

Domenica 21 gennaio, in un nuovo, stupefacente Teatro Civico “Roberto de Silva” nella piazza Enzo Jannacci a Rho, una nuovissima, neonata orchestra di ragazzi-professionisti di età compresa fra i 18 e i 28 anni, ha debuttato con un programma tutto-Beethoven (Ouverture del Prometeo, primo Concerto per pianoforte e orchestra op.15, prima Sinfonia op.21). Era il loro debutto, si erano ritrovati e conosciuti solo quattro giorni prima, hanno provato giusto in quei quattro giorni, e sono certo che l’esecuzione avrebbe reso felice Beethoven per la freschezza, la passione, l’impegno e soprattutto la preparazione che ciascuno di loro manifestava con totale evidenza. Si chiama European Young Orchestra, è stata messa insieme, preparata e diretta da Luigi Fabbri, hanno accompagnato con garbo e sicurezza al pianoforte la brava Anna Maria Cigoli che non sentivamo da anni e che ci è apparsa ancora, come sempre, perfetta. 

È però avvilente che la Città Metropolitana di Milano (questo povero, triste aborto politico ed amministrativo) non abbia festeggiato a dovere un evento straordinario ed eccitante come la nascita di una nuova orchestra (quella bella sala era mezza vuota!), e non vi sia stata la conseguente e doverosa gara ad offrirle una sede stabile. È mai possibile che l’entusiasmo e la capacità di emozionarsi alberghi solo presso la generazione dei ventenni?

Unica stonatura, incomprensibile, prima del concerto un impresentabile baritono dalla voce potente, tatuato e vestito come un guappo napoletano d’altri tempi, accompagnato da un approssimativo pianista, ha cantato – o meglio sguaiatamente urlato – per un quarto d’ora canzoni napoletane et similia. Che c’azzeccava?

Martedì 23 gennaio in Sala Verdi al Conservatorio, per la Società del Quartetto, è approdato da Berlino il Quartetto Leonkoro – o “Cuor di leone”, visto che prende il nome dalle parole “leone” e “cuore” in esperanto! – creato nel 2019 da quattro ragazzi che allora avevano in media 20 anni e che oggi ne hanno ancora solo 24, con un programma apparentemente molto intrigante: Schubert (n.9, D.173), Janáček (n.1, Kreutzer Sonata) e Brahms (n.1 op.51). 

Purtroppo hanno scelto due opere minori di Schubert (diciottenne) e di Brahms (impostata quand’era poco più che trentenne) e un’opera del compositore ceco non tanto interessante quanto verrebbe da credere pensandola ispirata, come fu per Beethoven, dal romanzo di Tolstoi. Nonostante le indiscutibili qualità dei giovani, bravissimi interpreti (i fratelli Jonathan e Lukas Schwarz, violino e violoncello, Amelie Wallner secondo violino e Mayu Konoe viola, che – tranne il violoncellista – suonavano in piedi per affermare la professionalità dei solisti) il concerto è risultato tutto sommato un po’ opaco. 

È andata peggio, però, il successivo martedì 30 quando si è esibito, nella stessa sala e sempre per il Quartetto, un pianista poco noto in Italia (suonò un’altra volta per la stessa Società nel 2006), il quarantatreenne americano di Filadelfia Jonathan Biss, che ha eseguito due Sonate di Schubert inframmenzate da una selezione di brevissimi pezzi dagli “Játékok” di Kurtág. L’impressione che ne ho avuto è stata quella di un’esibizione sfrontatamente narcisistica, nella quale si è persa la musicalità di Schubert (fortunatamente ritrovata nel bis, uno dei suoi meravigliosi “Impromptus”) a beneficio della prorompente personalità e dell’ego dilatato dell’interprete che sembrava suonare una musica tutta e solo sua. Povero Schubert…  

Il fatto che Biss sia co-direttore artistico del Marlboro Music Festival insieme a Mitsuko Uchida, mi ha fatto ricordare le parole che scrissi nell’Aprile di due anni fa su questo giornale (citate anche nell’ultima rubrica) https://www.arcipelagomilano.org/archives/60646: «Mitsuko Uchida è ritornata al Quartetto con un programma che ho trovato incomprensibile e che mi ha lasciato basito: nella prima parte del concerto ha alternato due capolavori mozartiani (la Fantasia in do minore e la Sonata n. 17 in si bemolle maggiore) a 7 pezzi dello Játékok (Giochi) di György Kurtág secondo la seguente sequenza: un Gioco di  Kurtág – la Fantasia di Mozart – 5 Giochi di Kurtág – la Sonata di Mozart – e ancora un Gioco di Kurtág, eseguiti senza mai staccare le mani dal pianoforte, avendo chiesto (ed ottenuto) di non essere interrotta da applausi. Dunque quarantacinque minuti di musica senza interruzioni, come fosse un’unica opera, compatta, con una pretesa coerenza che lasciava molto a desiderare». Ho maturato l’idea che si debba stare alla larga dal Festival di Marlboro!

Indubbiamente con queste recensioni di oggi mi sto collocando fra i criticoni cui non va mai bene nulla, ma non so mentire e spero di trovare, fra i miei quattro lettori, qualcuno che sia d’accordo con me! 

È con questo stato d’animo che affronto il concerto, ascoltato alla Scala sabato 27 gennaio, che ha visto niente po’ po’ di meno che la Chicago Symphony Orchestra, diretta da Riccardo Muti, eseguire la Fantasia sinfonica “Aus Italien”, in sol maggiore opera 16, di Richard Strauss e la “Sinfonia n. 5” in si bemolle maggiore opera 100 di Sergej Prokof’ev.

Tutti sappiamo quanto sia divisivo Muti, specialmente quando dirige in Italia dove si sentono ancora i fumi della competizione con Abbado (ma non solo, si pensi a come si è comportato recentemente con Chailly, proprio alla Scala), e quanto invece viene benaccolto fuori dai nostri confini. In particolare a Chicago, dove dal settembre 2010 al giugno 2023 ha diretto l’Orchestra Sinfonica che alla fine lo ha anche nominato Direttore Musicale Emerito a vita!

Non vorrei fare o sembrare il solito italiano che “ama il forestiero” e disprezza i propri concittadini, ma l’altra sera alla Scala, a parte l’incomprensibile tripudio del pubblico, era percepibile una sorta di dicotomia fra il bel suono dell’orchestra, cui purtroppo non siamo abituati, e la pedanteria dell’interpretazione mutiana, evidentemente molto apprezzata sul lago Michigan, un po’ meno dalle nostre parti.

Il problema di Muti viene da lontano. È un grande professionista, ha una perfetta padronanza della partitura, dimostra grande e sana precisione nelle prove, ha un gesto rassicurante nei confronti di chi gli siede davanti, tutte le note sono sempre al loro posto, ma tanto a posto da far dimenticare a lui, all’orchestra e a noi ascoltatori la poesia, la magia, l’incantesimo della musica. 

Anche l’altra sera è andata così, per giunta con due non-capolavori come il pot-pourri di temi popolari italiani di Strauss e quella Quinta di Prokof’ev che non può essere annoverata fra le opere migliori del grande compositore russo (ma nato in Ucraina!). Peccato perché avere la Chicago Symphony Orchestra a Milano non capita tutti i giorni e si è persa una gran bella occasione.

Paolo Viola



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