23 gennaio 2024

MITSUKO UCHIDA E BEETHOVEN

Tre Sonate con freddezza e distacco


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La settimana scorsa è tornata a Milano, per la Società del Quartetto, una delle star internazionali del pianoforte, la giapponese Mitsuko Uchida – che divide con l’argentina Martha Argerich e la portoghese João Pires la fama di Grande Signora della Musica – per eseguire le ultime tre Sonate di Beethoven (le opere 109, 110 e 111, rispettivamente del 1820, 1821 e 1822), un programma che sta diventando molto “di moda” e purtroppo non sempre eseguito in modo adeguato. 

Mi ha molto colpito che la Uchida vada poco a poco abbandonando il suo amato Mozart – sicuramente il musicista del cuore con il quale ha raggiunto la celebrità e soprattutto una intelligenza interpretativa di enorme levatura – a favore di un Beethoven che sembrerebbe essergli empaticamente meno vicino. Ricordo l’ultimo suo concerto a Milano, nell’Aprile  2022, che mi lasciò ancor più perplesso e di cui ho riferito in queste pagine con il commento che invito a leggere cliccando (qui) e credo di aver capito che nella testa della Uchida – che il mese scorso ha compiuto 75 anni e forse sta facendo i conti con l’avanzare dell’età – deve essere successo qualcosa che ne sta stravolgendo il percorso artistico.

L’altra sera era evidente che la Uchida non era a suo agio con Beethoven; non è entrata nel mood tragico di quelle tre Sonate che rappresentano il commiato dal pianoforte e dalla vita, comunque una profonda riflessione sul senso e la caducità dell’esistenza. Pensavo, ascoltandola, alle esecuzioni che proposero anni fa Maurizio Pollini o Radu Lupu, con una visione lucida e a tratti persino rabbiosa della inconsistenza e dell’inutilità della vita, che si conclude con il malinconico e magico ritrovamento di senso espresso dal secondo ed ultimo tempo dell’opera 111, la “Arietta. Adagio molto semplice e cantabile”. 

La lettura che ne ha offerto la grande pianista giapponese ci è sembrata fredda e distaccata, come si trattasse di semplici esercizi di composizione, senza pathos, poesia o magia. Sembrava che suonasse pensando ad altro, certamente non per distrazione o disattenzione (a una grande professionista come lei è improbabile che possa accadere, specialmente alle prese con quel programma). Certamente non è riuscita a penetrare oltre le nostre orecchie, a raggiungere il cuore, a coinvolgerci e a sconvolgerci. 

Anche lei, come ormai tutti, ha i tempi veloci troppo veloci – meno male che non ha rallentato i tempi lenti, come usa fare oggi – e anche lei, cedendo alle tendenze in atto, tende a far mancare il respiro necessario fra una frase e l’altra, come si fa parlando, come fanno i bravi attori. Ci si dimentica che suonare è un altro modo di raccontare, e che il musicista è un po’ come l’attore o l’oratore che si esprime usando toni e tempi che puntino alla chiarezza. Pur esprimendosi con una tecnica raffinatissima e la perfetta padronanza della tastiera (la consumata esperienza di una grandissima pianista), le è mancata la visione ampia e chiara di questa straordinaria trilogia, della sua sacralità, dei suoi significati altissimi.

Mi vien da pensare, per spiegarmi meglio, che la nostra pianista non abbia avuto occasione di leggere quelle pagine del “Doctor Faustus” che Thomas Mann dedica alle ultime Sonate di Beethoven: ne riporto qualche brano. «In queste composizioni ……. gli elementi soggettivi e la convenzione combinavano un nuovo rapporto, un rapporto caratterizzato dalla morte» e, soffermandosi in particolare sull’Arietta che conclude l’ultima Sonata, «il tema di questo tempo, attraverso cento destini, cento mondi di contrasti ritmici, finisce col perdersi in altitudini vertiginose che si potrebbero chiamare trascendenti o astratte; così l’arte di Beethoven aveva superato se stessa: dalle regioni abitabili e tradizionali si era sollevata, davanti agli occhi sbigottiti degli uomini, nelle sfere della pura personalità, a un io dolorosamente isolato nell’assoluto, escluso anche, causa la sordità, dal mondo sensibile: sovrano solitario d’un regno spirituale dal quale erano partiti brividi rimasti oscuri persino ai più devoti del suo tempo, e nei cui terrificanti messaggi i contemporanei avevano saputo raccapezzarsi solo per istanti, solo per eccezione»

E poi ancora: «Il tema dell’Arietta, destinato a subire avventure e peripezie per le quali nella sua idilliaca innocenza proprio non sembra nato, si annuncia subito e si esprime in sedici battute riducibili a un motivo che si presenta alla fine della prima metà, simile a un richiamo breve e pieno di sentimento, di tre sole note: una croma, una semicroma e una semiminima puntata che si possono scandire come “Pu-ro ciel” oppure “Dol-ce amor” oppure “Tem-po fu” oppure “Wie-sengrund”: e questo è tutto. Il successivo svolgimento ritmico-armonico-contrappuntistico di questa dolce enunciazione, di questa frase malinconicamente tranquilla, le benedizioni e le condanne che il maestro le impone, le oscurità e le chiarità eccessive, le sfere cristalline nelle quali la precipita e alle quali la innalza, mentre gelo e calore, estasi e pace sono una cosa sola: tutto ciò potrà dirsi prolisso o magari strano e grandiosamente eccessivo, senza che per questo se ne sia trovata la definizione, poiché, a guardar bene essa è indefinibile». 

E infine: «Perché Beethoven non ha aggiunto un terzo tempo all’op. 111? ……. Un terzo tempo? Una nuova ripresa… dopo questo addio? Un ritorno… dopo questo commiato? Impossibile. Tutto era fatto: nel secondo tempo, in questo tempo enorme, la sonata aveva raggiunto la fine, la fine senza ritorno. E se diceva “la sonata” non alludeva soltanto a questa, alla sonata in do minore, ma intendeva la sonata in genere come forma artistica tradizionale: qui terminava la sonata, qui essa aveva compiuto la sua missione, toccato la meta oltre la quale non era possibile andare, qui annullava se stessa e prendeva commiato; quel cenno d’addio nel motivo re-sol-sol, confortato melodicamente dal do-diesis, era un addio anche in questo senso, un addio grande come l’intera composizione, il commiato dalla Sonata». (traduzione di Ervino Pocar)

La sala era al completo come non ricordo di averla mai vista, non c’erano più biglietti da giorni, e il pubblico ha reagito ovviamente con grandi applausi, come si deve nelle grandi occasioni, ma non tanto a lungo quanto ci si poteva aspettare. Qualcosa difficile da spiegare lo ha frenato e dopo la terza uscita della pianista si è taciuto. È vero che non si può e non si deve chiedere né eseguire un bis dopo le ultime note di quell’Arietta che sembrano voler porre la pietra tombale sulla vicenda umana del suo Autore, ma un pubblico veramente emozionato ed entusiasta non va tanto per il sottile e non solo richiede il bis ma richiama l’interprete alla ribalta cinque, sette, dieci volte. Ricordate cosa accadeva ai concerti di Claudio Abbado?

Paolo Viola



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  1. Elsasempre colta eppure semplice le critiche di Paolo Viola
    25 gennaio 2024 • 19:40Rispondi
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