9 gennaio 2024

MODELLO MILANO: LA NOIA

Un modello in realtà inesistente teso al disastro sociale 


Progetto senza titolo (14)

Mi ha colpito molto la recente vicenda del cavo d’acciaio teso a altezza d’uomo da lato a lato, da ragazzi poco più che ventenni in viale Toscana (zona Porta Ludovica). Dopo essere stato arrestato, uno dei ragazzi ha detto che quello era un modo per evadere la noia. Questa risposta merita una domanda: se dei ragazzi decidono di fare una cosa del genere per evitare la noia, a quale modello sociale fanno riferimento?

Lungi da me divulgarmi su come molti, milanesi in genere, distinguano i cittadini in base a dove vivono (il giovane vive in Porta Romana), qui c’è di più, c’è una questione probabilmente drammatica per la quale è urgente parlarne, a partire dai fatti di San Siro dove una zona del quartiere ha accolto l’inizio dell’anno, con una guerriglia contro tutto, per finire con l’assalto alla Polizia; dunque, un inizio anno in cui emerge a pieno il problema sociale di Milano, alla luce dei vani tentativi di declinare il fenomeno a conseguenza del lockdown o ristretto a baby gang di terza generazione magrebina ecc. ecc. C’è un grosso problema anche politico ma si fa finta di niente. Si dirà: il male minore. 

Il filo che lega l’incoscienza tra giovani che vivono nel cuore di Milano (Porta Romana) e giovani della periferia degradata (San Siro), è teso a tal punto da essere ideale per sostenere la funambolica questione del modello sociale cittadino, proposto negli ultimi 10 anni, durante un arco temporale in cui si sono visti arrembare personaggi portatori di successo, uno “ius soli” meneghino accarezzato dai mass media e dai social del post Expo, in cui si è vista crescere l’apparenza ideale, il successo con i “like” a tutti i costi, il fare soldi con spregiudicata presenza social. 

Persino chi dovrebbe educare o almeno dare esempio di condotta, lo fa tramite piattaforme nate per ragazzini (vedi TikTok) nel nome della modernità che certo intercetta l’ego, così da piegare l’educazione dovuta in educazione regalata e passante per linguaggi accettati e non proposti da una coscienza dell’adulto. 

Tutto tende ad essere banalizzato fino al paradossale legame tra il reale e l’effimero in un mix di idee e concetti sublimanti l’arte del primeggiare anche senza merito o essere strategicamente dalla parte della quotidianità del cittadino medio. Non va meglio su Instagram ecc. Fa pensare un cinquantenne che pubblica contenuti sui social, fa davvero pensare ma sembra che tutto questo sia un assunto, oggi tremendamente normale. Un edonismo dico io, forse salvifico per un ego incurante del livello di responsabilità che invece dovrebbe padroneggiare nell’età della ragione.  

Ma la ragione ci porta a riflettere oltre. 

Così ripensiamo alla noia definita dalla società antica, come un essenziale tempo del pensare, una noia che tutti rifiutiamo come un male. Pensare fa paura, ci mette di fronte alle frustrazioni, al senso d’inadeguatezza, alla realtà vera in cui viviamo (ecco la “second life” in cui ci si rifugia con i nostri “avatar” o le nostre faccione sorridenti o peggio, ammiccanti, nel mondo virtuale). 

Tutto questo diventa criticabile quando i modelli proposti sono il successo e la perfezione toutcourt, passante dall’essere capaci di vivere “facile”, senza fatica del dover presentarsi davanti allo specchio con la nostra vera faccia fatta anche di “povertà”. 

Allora quei ragazzi sembrano banali tanto quanto tremendamente veri, senza maschera, senza perché, persino con la forza di ammettere una tremenda verità, il divertimento che passa dall’incoscienza filtrata dalla “figata” di filmare una tragedia nella tragedia dei social e dei videogames, dove si finisce un match e tutto si risolve, anche l’atrocità virtuale, tuttavia insita nell’essere guerriero fino a rifiutare quella banalità  umana che è la vita di tutti i giorni con alti e bassi, talvolta nella nebbia invernale milanese, portatrice di malinconia e tristezza. 

Non si vuole essere malinconici, non c’è più capacità di accettarsi negli umori alterni. Tutti hanno un domani e il diritto di essere; sia pure virtualmente e probabilmente magnifico, eroico, nessuna colpa, nessun obbligo morale, anzi l’immoralità gioca il ruolo dell’eroina in grado di vincere quella noia del vivere una realtà spesso degli altri, fatta di probabili modelli vincenti, propedeutici al modello proposto da una Milano in cui il vincente è l’uomo di successo anche se senza morale, magari volgarmente spregiudicato ma bello, che pensi solo al miglioramento economico della propria Famiglia (e questo ci sta) a qualsiasi costo, forse a scapito di una crescita collettiva, senza una volontà che almeno tenda al miglioramento generale. 

Modelli adulti che tracciano solchi di anarchia piatta, sottaciuta, camuffata da attenzione sociale, giusto per essere “ à la page” meglio detto benaltrismo probabilmente patetico. Un effetto placebo social che rende tutto accettabile, anche un cavo teso ad altezza d’uomo, giusto per decapitare un motociclista, cosa talmente divertente da ridare vita a un individuo annoiato che si risveglia solo con la spettacolarizzazione della disgrazia. 

Un gioco senza morale alcuna, ma buono per i like, semplicemente e banalmente mortale, dunque di successo tra gli ibridi camminanti sinceramente privi di senso critico, tanto poi si fa un click e tutto è come prima. Si dirà che quei ragazzi non hanno colpe e purtroppo lo dirà anche un Giudice che di fronte a un gesto del genere, sia pure senza danno solo per “ grazia ricevuta “ da un eroe per caso, se pur arriveranno a un processo, potrà dire che non ci sono colpe per chi non è in grado di ammetterle e che si può e si deve recuperare l’individuo se si dice pentito, anche senza passare da una penitenza legittimata responsabilmente da un Tutore della Legge che dovrebbe prendersi delle responsabilità impopolari anche per dare esempi alla collettività ( ma oggi sarebbe miseramente condannato dall’intellighenzia del: nessuno tocchi Caino per il quale tutta la società è colpevole dunque nessuno è colpevole).

Mai nessuno che condanni senza se e senza ma,  un sistema volutamente dell’apparenza e del benessere economico a tutti i costi, il killer vero che ha condizionato il vivere delle persone a tal punto da portare i genitori a lavorare anche notte tempo per arrivare in fondo al mese. 

Questi modelli familiari che lasciano i nostri ragazzi crescere nell’irrealtà spesso anestetizzante nell’opulenza contrapposta a una povertà estrema, redenta proprio nei social, nella mancanza di educazione primaria e che poi approdano alla scuola sempre più chiamata a educare prima di formare poiché mancano le basi sulle quali poggiare un insegnamento. 

Ragazzi che dovranno essere accettati dai codici del moderno precariato sociale, sostenuto da chi ci guadagna, prima di essere resi produttivi (a ciascuno la sua parte)  in questa Milano che va verso un “indefinito” in cui regnano solo domande come dove e perché e che le risposte sono i programmi degli illuminati che parlano di una vita del 2050, immaginifica, fatta di auto elettriche, piste ciclabili, di città senz’auto, di una società della ragione e dei sorrisi, in cui non ci siano tornelli nelle metropolitane, parchi chiusi di notte, cittadini di serie A e serie B. 

Intanto la gente è sempre più povera, i modelli di sussidiarietà sono archetipo di una società assistenziale in cui chi ha di più dovrebbe pagare di più e chi non ha  nulla dovrebbe pagare nulla. Un volo pindarico che proietta uno status in cui noi tutti dovremmo esistere nella ragione suprema, lobotomizzati e privati della ratio per essere dei cretini ma adatti per uno sviluppo programmato da chi pilota l’economia, senza un futuro reale. 

A pagare dunque sono i giovani di ogni estrazione sociale, vittime e carnefici di sé stessi e spesso di altri individui che per destino incrociano nella follia del vivere. Esistenze indifferenti, insolventi, pienamente noiose e annoiate, dunque è tutto vero. Quella noia. 

Nessuno che parli di rivedere i modelli ritornando indietro, ammettendo che sono stati fatti errori, che si è sbagliato e che serva un’inversione di tendenza soprattutto della Società predominante in quanto produttrice di modelli di vita, probabilmente sempre più sola, distante dalla società reale, tuttavia necessaria proprio a garanzia di una piramide che si poggia su strutture arcaiche, un tempo sul senso del dovere sociale che solo i ceti bassi dovrebbero rispettare, partendo dall’educazione dei propri figli e dalla riscoperta dei valori della vita, anche a costo di sacrificare una parte dei modelli che oggi ci fanno essere capaci di sopravvivere se pur senza morale e forza per educare perché è difficile educare quando non si arriva in fondo al mese. 

Una prospettiva in cui i ricchi (come status) piangono delle proprie ricchezze mancate, per nulla al mondo colpiti dalla cattiva ragione, in cui i poveri dovrebbero stare silenti nella Società giusto per dare un assetto accettabile all’insieme della famiglie reali, alla crescita di una Milano che deve competere senza morale, senza ripensamenti, aggressiva e famelica ma con chi? 

Resta questa giustificazione ad una follia, talmente forte e cruda quanto sincera da fare davvero paura ma che non arriva a scuotere le coscienze. Certo, è tutto normale … Oramai.

Gianluca Gennai

 



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