17 ottobre 2023
LE INFELICITÀ DI MILANO
"Se tu non resti la più civile, diventerai presto la più villana". Cesare Correnti
17 ottobre 2023
"Se tu non resti la più civile, diventerai presto la più villana". Cesare Correnti
Pedoni uccisi sulle strisce o sul marciapiedi e ciclisti travolti da mezzi pesanti sono il sintomo eclatante di una città disaffezionata, incupita, nervosa quasi non fosse capace di capire che cosa le succede e va. I morti in strada sono un fatto drammatico, già di per sé difficile da comprendere nella Milano che s’è sempre vantata di avere un traffico non paragonabile e quello caotico di Roma e Napoli.
Ancor più arduo è capire lo sfondo, il clima di individui e massa; perché stati d’animo fermentano per la città e portano le persone a umori, modi, gesti, parole, agiti simili a corde di violino, che se solo sfiorate reagiscono stonate, smentendo l’immagine tradizionale di sobria, riservata socialità milanese.
Basta salire su tram e bus (che passano spesso senza regolarità facendo spazientire che li ha attesi); parlare con l’autista d’un taxi (quando si riesce a trovarne uno!); sfiorarsi coi carrelli tra scaffali e casse in un supermercato; staccare il numerino e mettersi in coda in banca, all’ufficio postale, in un ambulatorio; trovarsi nella tempestosa chat dei genitori dei compagni dei figli a scuola; cimentarsi nel cercare il numero d’un servizio pubblico; accoccolarsi in poltrona ad aspettare con fede (così si evita di perdere l’inestimabile beneficio della “priorità acquisita”) che il centralino di un ospedale risponda (dalla Lombardia? da Paternò?) e fornisca le informazioni prima che la linea cada e si debba ricominciare a chiamare, tornati alla casella di partenza, come in un frustrante gioco dell’oca.
Milano non sta bene. E l’infelicità è una delle poche espressioni di democrazia rimaste. Malessere, contrarietà, fastidio, reattività son legate da un filo rosso che non fa distinzioni tra centro, periferie, occupazioni, anziani, mezz’età, giovani. Se dovessi cercare una data di nascita della mutazione antropologica in atto nei milanesi – perché di questo si tratta – mi verrebbe da ricorrere al Covid.
Antiche certezze, consolidate convenzioni, tratti del carattere collettivo, peculiarità umane, genius loci ambrosiano sono stati minati dall’irrompere del virus. Un situazione composita e sfuggente ai controlli è sbucata dalla combinazione di numerosi fattori: sorpresa; generale impreparazione (anche da parte di chi un piano antipandemie avrebbe dovuto averlo e aggiornarlo); angosce di morte; orizzonti oscurati dalle blindature in casa; privazione di attività e di relazioni esterne; ritiri individuali e di gruppo; inaffidabilità di istituzioni pubbliche (Regione in primis); messaggi boomerang del Comune (“Milano non si ferma”, Sala dixit); retorica destabilizzante da talk show; esperti (o come tali presentati per reggere la concorrenza mediatica ), spesso in polemica tra loro a inoculare insicurezze.
Colpa del Covid allora questa Milano irriconoscibile? Anche, ma non solo. Direi che il virus ha portato alla luce del sole qualcosa che covava e che aspettava solo chi ne facesse uscire tutte le potenzialità corrosive per anima, pensieri, modi di porsi e relazionarsi.
Una data io l’avrei per suggerire una sana riflessione sulle sindromi psicosociali che oggi affliggono Milano. Sfuggendo al rischio d’una meccanica concatenazione di causa/effetto e cercando invece di cogliere lo “spirito del tempo”, ritengo che il post-Expo abbia inferto un duro colpo alla visione che i milanesi s’eran fatti della città e che Milano stessa aveva di sé. Il 2015, con Expo, è stato l’anno della svolta.
A consacrare il successo internazionale dell’evento il New York Times ebbe un’uscita sorprendente. L’articolo riconosceva all’Italia d’essere un Paese pieno di città romantiche e belle, Roma, Firenze, Venezia, ma sosteneva che se c’era un “posto dove stare” questo era Milano. Qui turisti e operatori economici di tutto il mondo avrebbero trovato il fascino del rinnovamento, un misto tra maestosità del Duomo e programmi tecnologici, passeggiate sulla Darsena e new economy gestita in grattacieli stile Paesi di petroldollari. Fu un botto.
S’infiammarono aspettative e il cielo si popolò di promesse, non sempre materializzate, ma che Milano non dovesse più arrestar la corsa sembrò un must. L’anno successivo, per succedere a Pisapia sugli scudi logicamente venne portata la candidatura Sala, il manager della grande Expo. Sulle ali dell’entusiasmo, però né Milano né la politica nazionale videro l’Ombra della proiezione in avanti impetuosa della città: un fastidio verso la politica.
L’antipolitica stava per esplodere a Roma, col trio giallo-verde Conte, Salvini, Di Maio che dal balcone di Palazzo Chigi proclamava: «Abbiamo abolito la povertà»! A Milano andava in scena un’operazione più sofisticata e ambigua, ma di segno simile. Dopo Pisapia a Palazzo Marino la maggioranza si qualificava ugualmente di centro-sinistra. E con quel nome “in ditta” Sala neo sindaco manager si fece portabandiera d’un nuovo new deal ambrosiano, arrivando a scrivere in un libro, del 2018, che «Milano non ha il tempo di aspettare la politica, se la politica non rispetta i suoi tempi».
Insomma, Milano poteva andare avanti anche da sola e, se del caso, allungare il passo. Dalla sua aveva riconoscimenti internazionali, finanza, fondi d’investimento (che faranno shopping di immobili simbolo), rapporti col mondo intero, progetti per aree dismesse e scali ferroviari, cantieri con gru sorte come funghi. Successi indubbi per economia, pezzi di società, alcuni ceti.
Quelli che invece non venivano a beneficiare di tante prospettive erano gli studenti (che poi si faranno sentire con le tende), i giovani laureati (500 euro al mese a fare stage a tempo pieno), medici e infermieri della Sanità Pubblica (che fuggiranno presto anche all’estero), l’edilizia residenziale pubblica e convenzionata (le nuove coppie cercano altrove e la città invecchia), i recuperi di alcuni quartieri storici (dove alcuni rapper faranno temere il riprodursi delle banlieue).
Nel giro di poco la pandemia ha meso a nudo il divario tra il cumulo di promesse e aspettative e le effettive possibilità di realizzazione. Con conseguenze in termini strutturali (linee di sviluppo non ispirate al riequilibrio delle disuguaglianze); politiche (Pd con buone prestazioni al centro, scarse in periferia, crescita dell’astensione e manna per la destra); di clima sociale e di spirito del tempo.
La delusione è realtà destabilizzante. Trasforma le comunità in conglomerati di individui e dissemina in uomini e organismi sociali un virus psichico non meno dannoso del Covid: contagia il tessuto connettivo della società con stati depressivi, prodotti dalle illusioni accesesi per naturale propensione d’ognuno al miglioramento o indotte da narrazioni enfatiche di chi governa. Il ritiro depressivo può non esaurirsi nell’autocommiserazione ma generare sentimenti di rivalsa (la destra ha vinto e impera anche facendo leva su un tale moto di tipo irrazionale).
In una società complessa gli stati emotivi di categorie o soggetti pronti all’incasso dei dividendi promessi ma non pervenuti possono evolversi in due modi: trovare forme dirette, progettate, organizzate sotto forma di azione politica aggregante capace di costituire un’alternativa al potere dominante; o alimentare individualismo, egoismi, difese corporative.
La prima ipotesi per il momento è di scuola. Qualche barlume di potenzialità future s’è profilato la settimana scorsa con la manifestazione della Cgil a Roma. Ma ci sarà molto da lavorare.
La seconda ipotesi è la realtà che stiamo vivendo. Gli “ismi” tipici di un tempo in cui prevalgono delusioni, rivendicazioni, difese di interessi propri e di categoria, settorialità, radicalizzazione corporative hanno come risvolto il determinarsi di una vastissima area di insoddisfazioni, insofferenze, malessere, povertà umane oltreché materiali, frustrazioni, rabbia, sfiducia: gli agiti di singoli o gruppi sono lo sfogo di quei malesseri. Ma ha la sua parte anche la rassegnazione digrignante, che si esprime con una varietà di linguaggi che vanno da villania, arroganza, sfacciataggine, menefreghismo, alla protesta senza molta convinzione, disarmata, flebile, venata di tristezza che però esce.
L’affresco della Milano al 3° anno dell’era post covid si anima di un conglomerato multiforme e caotico, in cui privato e pubblico contribuiscono entrambi al caos: monopattini, biciclette, motorini che van su e giù dai marciapiedi, contromano, in aree pedonali e mandano a quel tal paese – si fa per dire – chi significa loro che esistono anche persone, spesso anziani, che vanno a piedi o escono dal portone pensando di trovarsi sul marciapiedi non all’ospedale; genitori che continuano ad accompagnare i figli a scuola in auto; auto parcheggiate dove non dovrebbero o che sgasano come fossero a Monza.
Ma anche il Comune non scherza nel dare un contributo fattivo a far salire tensione e nervosismo: cantieri che durano una vita e scoordinati tra loro, da bloccare pezzi di città; riduzione di assi stradali a una corsia illudendosi che questo dissuada la gente ad usare l’auto, mentre accresce ingorghi; irreperibilità di vigili per strada, ritenendo che le telecamere siano meglio dell’umano ghisa nella deterrenza a maleducazioni e infrazioni; Atm che riduce le corse, perché ha smarrito una politica del personale (l’azienda è sempre stata fiore all’occhiello per welfare interno, esempio per altri settori e attività); l’A2a, altra azienda storica milanese che cede la fornitura dei servizi senza avvertire i clienti. Caricatura poi delle virtù ambrosiane di socialità e solidarietà è che entri in negozi dove non san chi sei ma ti danno del tu; e dell’attrattiva per turisti: un caffè a Brera di mattina al banco a 2 euro.
Cesare Correnti, uomo delle 5 Giornate, poi Ministro della Pubblica Istruzione del neonato Regno d’Italia scrisse di Milano: «se tu non resti la più civile, diventerai presto la più villana».
La frase racchiude un passaggio epocale, oltre le circostanze specifiche. Sotto la quotidianità del nervosismo, del ciascuno per sé, dei tanti malesseri si profila un problema di civiltà, di cultura dell’abitare, di statuto etico della convivenza, di identità: l’identità vera, non quella farlocca di chi paventa la sostituzione etnica, l’identità che afferma la propria originalità riconoscendo nella diversità dell’altro l’appartenenza alla comune umanità. Che è poi la fratellanza, una delle varianti originali dell’ambrosianità originale. Il paradosso è che a memoria non si ricorda una Milano così omologata al clima nazionale com’è oggi.
Vien voglia di suggerire al Comune di ripubblicare Risorgeva Milano, di Antonio Greppi, il Sindaco della Liberazione, e regalarlo agli insegnanti d’ogni ordine e grado. Compito: coinvolgano i giovani in un risveglio e in una riscossa di cittadinanza attiva. In ballo è la salvezza della Milano che verrà. Ed è già qui, a volerla vedere!
Marco Garzonio
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