3 ottobre 2023

LA QUESTIONE DEI SERVIZI

Servizi. Capiamoci sul significato di questa parola


 Copia di Copia di rification

Fino a qualche tempo fa, nei piani urbanistici la questione di come assolvere la domanda di servizi generata dagli insediamenti era relativamente semplice: c’era una legge che indicava dei minimi da rispettare, come calcolarli e grosso modo come ripartirli (un tot di verde, un tot di parcheggi, scuole, sport, ecc – “grosso modo” perché, nonostante ad oggi a molti piaccia mettere alla berlina la vecchia legge accusandola di rigidità, queste ripartizioni in realtà potevano essere facilmente superate con le flessibilità che comunque venivano offerte): una “macchinetta” (come si diceva allora) che da una parte ha avuto il grande merito di portare ad aumentare in modo considerevole le dotazioni di servizi in molti Comuni; dall’altra il difetto di generare una certa pigrizia mentale fra i tecnici e i politici che affrontavano il tema. C’era la macchinetta degli standard, e questo bastava.

Da qualche anno però la legge è cambiata, consentendo molti e significativi margini di libertà ai Comuni: da una parte riducendo i minimi obbligatori a un livello talmente basso che chiunque li può raggiungere, anche solo conteggiando i soli servizi esistenti, dall’altra consentendo di considerare come servizio praticamente tutto (i negozi, le case in affitto calmierato, le strade, gli impianti tecnologici e in generale tutto ciò che è “di interesse”).

Purtroppo, guardando i piani urbanistici fatti con la nuova legge, spesso bisogna constatare che questa libertà ahimè è stata usata male, tanto da far pensare che la lunga pigrizia intellettuale abbia portato a una certa confusione in materia.

Perché la questione dei servizi sia tuttora importante si può dire in poche parole. Storicamente, molti servizi erano interni alle abitazioni private, dei soli ceti abbienti però: istruzione, cure mediche, ma anche passeggiate nel verde, sport, musica eccetera avvenivano esclusivamente (o quasi) all’interno delle mura dei palazzi e nei giardini privati. Portare all’esterno delle case private i servizi e renderli accessibili a tutti (come si è iniziato a fare nel Medioevo, in particolare da parte di associazioni religiose) è stato uno dei principali fattori di modernità e sviluppo della nostra civiltà.

Si può vedere ad esempio, come mostra fra gli altri Weird di Joseph Henrich recentemente tradotto, una correlazione fra il valore del PIL oggi prodotto in una regione e la presenza storica di istituti di istruzione superiore; o l’aumento delle aspettative di vita, sostanzialmente raddoppiate in circa un secolo, in relazione (anche) alla diffusione di centri sanitari liberamente accessibili. In generale la presenza di servizi ha costituito una potente leva che ha permesso alle popolazioni marginalizzate di partecipare e contribuire allo sviluppo economico e sociale.

Forse sarà un po’ meno così in futuro; ma ancora oggi, nonostante la riduzione delle risorse destinate al welfare, gran parte della vita cittadina, anche in ragione della riduzione della dimensione media dei nuovi alloggi, e quindi in particolare per chi non si può permettere di avere una palestra in casa o una piscina in giardino, avviene fuori dalle mura di casa: e avere a disposizione parchi dove passeggiare, impianti sportivi dove correre, nuotare o giocare, delle buone scuole dove mandare i figli, biblioteche o sale per eventi dove aggiornare la propria cultura, servizi sanitari efficienti per ridurre o risolvere i disagi e le sofferenze delle malattie, e tante altre cose ancora (ovviamente ci sono anche i servizi per i quali al momento non c’è domanda, perché nessuno se li immagina, ma che una volta che vengono offerti, diventano indispensabili), tutti questi insomma sono fattori fondamentali di attrattività di una città, in particolare per quelle città che non possono affidarsi ai doni naturali o ereditati da passato (il mare, il fiume, le montagne, un centro storico perfettamente conservato…) ma che i loro pregi se li devono faticosamente costruire (la montagnetta, i navigli…).

E certo questo dipende anche da come questi servizi vengono gestiti, dalla loro qualità, da componenti immateriali: ma innanzitutto servono gli spazi dove esercitarli (non basta certo avere un palazzetto per avere una squadra sportiva vincente, ma senza neanche quello è dura…). Certo ci sono città – un esempio noto è la Barcellona di Cerdà – dove nuovi spazi disponibili per servizi non ci sono più, e quindi bisogna arrangiarsi riutilizzando quel che c’è, incroci stradali compresi; ma nelle nostre città – tranne forse alcune parti – non è così, nuovi spazi teoricamente a disposizione ce ne sono ancora.

Leggendo invece cosa dicono sul tema i piani urbanistici recenti si rischia di rimanere un po’ sconcertati.

Prendiamo ad esempio il fortunato slogan della “città a 15 minuti” (che riprende un po’ certe cose di Jane Jacobs), utile in particolare a sostenere che in questo modo diminuirà la mobilità urbana con il mezzo privato.

A parte qualche perplessità sullo slogan stesso, che suona un po’ retorico e che forse è anche un po’ falso (nessun abitante di una città desidera stare chiuso all’interno del proprio quartiere: il bello di vivere in una città è proprio quello di muoversi, la varietà, scoprire cose nuove: e anche nei paesi oramai è così, se si vanno a vedere i comportamenti nella cosiddetta città diffusa, nella pedemontana lombarda o veneta, nessuno resta nei propri perimetri amministrativi, uno magari lavora a Thiene, dorme a Marostica, prende l’aperitivo a Bassano, va in palestra a Schio e ha la fidanzata a Padova, per dire), ma, a parte questo, quello che stupisce sono le analisi fatte da quelle amministrazioni che sostengono di “aver realizzato la città a 15 minuti”: sì, perché nel raggio di 15 minuti ci sono esercizi commerciali di vicinato (non si sa bene quanti o quali) o un servizio (anche qui, senza specificare quanti e quali).

Mi chiedo se qualcuno che ha fatto queste analisi abbia mai vissuto in periferia e sappia cosa voglia dire avere magari uno e uno solo esercizio di vicinato nelle vicinanze. Forse la presenza di un negozio di frutta e verdura (magari carissima e ammuffita, ma tant’è, nella retorica che connota questo slogan qualunque negozio di vicinato è buono per definizione) mi impedisce di dover prendere la macchina per andare a comprare il pane, la carne, i vestiti o la cartoleria o altro? Gli esercizi in prossimità, per avere spostamenti solo pedonali, dovrebbero minimo essere una decina e di tipo diverso, oppure ovviamente essere sostituiti da uno o più supermercati – ma questo suona male.

Cosa vuol dire poi limitarsi a verificare che ci sono dei servizi, senza specificare quali? Che se uno vuole per dire nuotare, si deve fare andare bene il campetto di calcio che è l’unica cosa che c’è? (e magari va prenotato con mesi di anticipo?) Ma anche se ci fosse un asilo nido, ma con quaranta posti, e ci fossero cento domande, forse ci sarebbe un problema (per quanto disprezzati – l’espressione tipica è “meramente quantitativo” – anche i dati e in numeri hanno un loro perché, magari anche per verificare i costi degli interventi e la loro fattibilità).

Bisognerebbe forse anche intendersi meglio su cosa sia un servizio. Domanda che può sembrare banale, ma che forse più di tanto non lo è, visto che la stessa legge nazionale, parlando peraltro correttamente sia di “servizi” che di “attività di interesse generale”, rischia di innescare una prima confusione sul tema: sì, perché ci sono innumerevoli attività “di interesse” (praticamente tutte, quale non lo è? La residenza, gli uffici, gli sfasciacarrozze: tutti svolgono una qualche utilità e potenzialmente sono “di interesse”) che rischiano però di essere definite tali “a sentimento”, in base alle idiosincrasie e agli umori o le simpatie dell’amministratore di turno. Ma ci sono invece uffici comunali che ritengono che un asilo nido sia “commercio” (per farti pagare gli oneri) o che ospedale del servizio sanitario nazionale possa essere assimilato a un’attività terziaria-uffici (forse pensano che le infermiere che salvano la vita alle persone siano solo delle impiegate che indossano un buffo camice verde?).

Si potrebbe continuare a lungo con esempi del genere. Ma, tornando alle considerazioni iniziali, è come se la macchinetta degli standard avesse lasciato il vuoto dietro di sé. Richiamando una diffusa metafora, un tempo si pensava che certe forzature normative fossero come i diversi stadi di un razzo, che servono ad imprimere la spinta iniziale e poi se ne vanno: raggiunta una certa quota, si sarebbero staccati, lasciando la navicella libera di proseguire nello spazio. Qui gli stadi si sono staccati, e la navicella sembra che stia tornando indietro.

Gregorio Praderio



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