2 maggio 2023

IL TRADIMENTO PAGA

Una Lancia e le vicende dell’attentatore di Mussolini


Imm. Marossi 

Il 24 ottobre 1925 e fino al 26 una automobile Lancia Lambda (universalmente riconosciuta come il capolavoro di Vincenzo Lancia) è parcheggiata, visibilissima, nel giardino che è davanti all’albergo Concordia a Milano. Come lo sappiamo? Da una relazione del capo della polizia del 30 dicembre 1925 nella quale spiega come questa macchina sia seguita passo passo nel suo girovagare per il nord Italia fino alla sua destinazione finale a Roma quando il 3 novembre è posteggiata carica di provviste per un lungo viaggio nei pressi dell’hotel Dragoni sito proprio di fronte a Palazzo Chigi.

Imm.-Marossi-Hotel-DragoniNello stesso albergo sono prenotate da parte di tale Silvestrini alcune specifiche stanze, in particolare la camera 90, con vista sulla piazza, ed anche questo lo sappiamo per via di innumerevoli segnalazioni arrivate alla questura vuoi da personaggi dello spettacolo, vuoi da amici e parenti, vuoi da anonimi che segnalavano  anche altre prenotazioni in altri alberghi romani; non che ce ne fosse necessità visto che il primo informatore ero lo stesso Silvestrini in realtà Carlo Quaglia da tempo informatore della polizia.

L’unico che non era a conoscenza di quanto quella macchina fosse controllata e seguita era il proprietario che non si era accorto di nulla e che per questo si farà 18 anni di galera.

Era tutto così tracciato che si sapeva anche da dove erano arrivati i quattrini per acquistare la vettura: erano parte dei 300.000 franchi svizzeri ma altri parlano di lire, provenienti in due assegni del dottor Gustav Winter, rappresentante del partito socialista cecoslovacco e secondo alcuni anche rappresentante della massoneria (e massone era il premier Masaryk ritenuto il garante dell’operazione), messi a disposizione per sostenere una spedizione militare in Italia capeggiata da Ricciotti Garibaldi alla quale, siamo nell’agosto del 1924,  avevano aderito svariate forze dell’antifascismo in esilio, dagli anarchici agli ex combattenti ai socialisti ai liberali, che aveva ottenuto anche l’appoggio del governo francese del radical socialista Hennriot.

Come finì il progetto è noto: dopo svariati rinvii alla messa in moto dell’invasione Ricciotti Garibaldi confessò di essere un agente provocatore al soldo di Mussolini.

Ma torniamo alla Lancia. Chi era il proprietario?

Tito Zaniboni il primo attentatore di Mussolini. Figura totalmente cancellata dalla storia patria, tant’è che già l’Avanti di Parigi nel 1934 con un articolo in cui tesseva lodi alla sua onestà, lo definiva temperamento romantico, socialista utopista e socialista non ortodosso, si chiedeva: perché abbiamo dimenticato Zanaboni, che giace in galera?

Zaniboni non era un personaggio minore.

Nato nel 1883 a Mozambano, agronomo, fu Segretario delle cooperative mantovane dal 1913 al 1915 e fervente interventista ottenendo come ufficiale degli alpini 3 medaglie d’argento al valore. Nel dopoguerra è consigliere provinciale a Mantova, sindaco di Mozambano e nel 1921 viene eletto deputato nelle liste del Partito socialista. In quello stesso anno fa la sua comparsa sulla scena politica nazionale essendo uno dei 4 primi firmatari e negoziatori del patto di pacificazione tra socialisti e fascisti.

Siglato da Acerbo e Giuriati per i fascisti e Zaniboni e Ellero per i socialisti il 3 agosto 1921 negli uffici del presidente della Camera De Nicola il patto prevedeva una tregua che impedisse al “paese di scivolare verso la guerra civile”.

Controfirmato da Mussolini, De Vecchi, Cesare Rossi ed altri per i fascisti, da Baldesi per la CGL, da Morgari per i parlamentari socialisti e Zannerini per il PSI provocò la rivolta degli squadristi e mise parzialmente in difficoltà Mussolini che lo sconfesserà di lì a poco.

Zaniboni, amico di Matteotti, lo segue nella costituzione del Partito Socialista Unitario, continuando tuttavia a mantenere rapporti con Mussolini tant’è che il suo nome compare come possibile sottosegretario alla presidenza del consiglio in quell’elenco che secondo Carlo Silvestri il duce aveva preparato per l’ingresso di riformisti e sindacalisti di varia appartenenza nel governo, ingresso che avrebbe dovuto sancire la pacificazione.

Reale o fantasioso che fosse il progetto viene cancellato dall’agenda politica dal rapimento Matteotti.

Zaniboni si convince che l’unico modo per tornare alla democrazia è l’eliminazione fisica del Duce e partecipa o guida, non è dato sapere, a due tentativi dai connotati romanzeschi.

Il primo come scrive l’adn kronos prevedeva l’avvelenamento del Duce. “A somministrare la mortale pozione doveva essere la contessa Martin de Viry, un’amante del Duce sempre in cerca di soldi per ripianare i suoi debiti e quelli del marito cocainomane, che era stata convinta all’azione dall’intima amica e anch’essa soi disant contessa Margherita Noli da Costa su richiesta dell’amante di quest’ultima, per l’appunto Tito Zaniboni”.

In alcuni giornali e informative una delle due a volte tutte e due le signore vengono chiamate “contessa del Viminale”.

A fornire il veleno avrebbe dovuto essere il muratore comunista Luigi Celli e qui compare un classico del dietrismo nazionale: la sua testimonianza sarebbe stata tra le carte che il duce conservava con sé fino a Giulino di Mezzegra.

Per la cronaca il Celli trattenne i danari e non fornì il veleno.

In un incrocio di misteri in stile 007 (debiti di gioco, cocaina, contesse, spie) alcuni fanno notare come le due non giovanissime contesse soggiornassero all’hotel Bristol luogo d’elezione di Farinacci identificandolo tra i partecipanti al complotto; altri ricordano come nel 1926 a Milano viene assassinata tale Erminia Ferrari (già moglie di un importante industriale cinematografico), detta anche la contessa del Viminale, “quell’assassinio poteva avere tutti i contorni di un delitto politico, perché si diceva che la donna fosse stata a giorno di numerosi retroscena e che avesse annoverato tra i suoi amanti personalità di spicco del fascismo, come Cesare Rossi e lo stesso Farinacci. Certo era che la donna aveva cercato di contattare sino all’ultimo proprio l’allora segretario del PNF, Farinacci, per fargli avere importante documentazione. A quei documenti sembrava fossero interessati anche Giampaoli il federale di Milano e lo stesso Arnaldo Mussolini, che la polizia politica aveva persino individuato come la persona che aveva visto per ultimo la Ferrari ancora in vita. “

Il secondo tentativo prevedeva il rapimento di Mussolini e presumibilmente la sua soppressione e fu ipotizzato da un gruppo di antifascisti, tra cui l’ex ministro degli esteri Carlo Sforza, il deputato repubblicano Alfredo Morea, gli ex popolari di sinistra Romano Cocchi ed Enrico Tulli, Riccardo Lombardi, Carlo Silvestri. Tentativo mai concretizzato per l’opposizione di Amendola e Turati che ritenevano l’ipotesi impraticabile.

Di questi due tentativi di eliminare il duce vi sono molte citazioni e riferimenti ma non vi è alcuna conferma ne documentale ne testimoniale se non da parte di Silvestri che vale la pena ricordare era nel 1924 capo della redazione romana del Corriere della Sera, il primo  giornalista che accusò apertamente Mussolini di essere il mandante dell’omicidio Matteotti, bastonato dagli squadristi in stazione centrale a Milano, condannato a cinque anni di confino tra Ustica, Lipari e Ponza ma anche una volta liberato sostenitore della Repubblica Sociale e soprattutto intimo di Mussolini a Salò che a partire dal 6 dicembre 1943 e per un anno e mezzo, incontrò ben cinquanta volte. Testimone si ma da prendere con le molle.

Tutta la vicenda ha apparentemente i toni di un feuilleton, ma a prendere sul serio Zaniboni, che ricordiamolo era massone come molti dei protagonisti di queste vicende (quasi tutti), oltre naturalmente la polizia è però una figura rilevante: sua Maestà il re Vittorio Emanuele III che lo riceve e a cui Zaniboni prospetta l’esigenza di un colpo di stato militare, con in prima fila gli alpini, per fermare Mussolini.

Zaniboni cerca anche di coinvolgere d’Annunzio che incontra più volte.

Dopo questi fallimenti e quello della colonna armata garibaldina, Zaniboni si convince che deve tentare da solo e avvia le operazioni assassinare il duce, come dice una velina della questura: “fallito il più grande tentativo, organizzato dalle opposizioni all’interno e da rinnegati italiani fuorusciti, di rovesciare colla violenza le istituzioni e di gettare l’Italia nel caos, in via di fallimento l’opera dei “gruppi di azione” che avrebbe richiesto molto tempo, grande larghezza di mezzi, e, soprattutto, un clima politico più idoneo, sorge e si matura nell’animo dello Zaniboni il fermo proposito di accelerare il ritmo degli avvenimenti. E, giovandosi degli stessi elementi dei “gruppi di azione”, minutamente concepisce, prepara e pone in attuazione – con scrupolosa cura – l’atto ultimo del crimine che non è punto di arrivo, ma che deve costituire il punto di partenza per il rovesciamento del regime. Egli non aveva mai fatto mistero delle sue idee in proposito: pensava che, soppresso il Capo, i focolai istituiti in vari punti del Regno, con lungo e paziente lavoro di organizzazione e di propaganda, avrebbero risposto all’appello della riscossa e che l’incendio, appena gettata la scintilla, sarebbe divampato in tutta l’Italia.”

Il finanziamento dei cecoslovacchi è però di pubblico dominio, Treves ne chiede conto al nostro e forse per distinguere le responsabilità del partito da quelle individuali e dai progetti che sono in itinere espelle Zaniboni dal PSU.

Torniamo alla Lancia cioè l’elemento più facile da identificare a conferma degli spostamenti di Zaniboni che viene parcheggiata vicino all’albergo scelto perché dalla finestra di quella specifica camera si aveva una perfetta visuale sul balcone di Palazzo Chigi al quale avrebbe dovuto affacciarsi il Duce per il discorso dell’anniversario della vittoria. Lasciata la vettura, Zaniboni si presenta alla concierge in alta uniforme con medagliere, con sé solo una valigia per il fucile di precisione di costruzione austriaca e attende in camera le 11 quando il duce uscirà sul balcone.

 Attesa vana, alle 9 irruppe nella stanza il vicequestore di Roma, Enrico Belloni, con un drappello di carabinieri e arresta Zaniboni. Un’ondata di arresti coinvolgerà amici e conoscenti di Zaniboni tra cui Sibilla Aleramo che con lui aveva avuto una storia.

Secondo lo storico Franzinelli: “Le responsabilità del primo complotto contro Mussolini sono attribuibili alle velleità giustiziere dell’ex deputato socialista Tito Zaniboni e all’accorta opera di fiancheggiamento attuata da individui a lui vicini, manovrati da spie a contatto diretto col capo della polizia. La vicenda mostrò quanto si potesse conseguire con un’accorta azione di controllo e d’indirizzo nei confronti di personaggi che, in assoluta buona fede, miravano a sbloccare il processo autoritario ma sortirono esiti opposti, con l’occulta regia dei vertici della polizia e la manovalanza di agenti provocatori abili nel montare situazioni criminose dalle quali il regime ricavò vantaggi notevoli in termini di delegittimazione delle opposizioni.”

Non diversa l’opinione di de Felice: “Un attentato di questo genere non poteva preoccupare Mussolini: una volta scoperto poteva, se mai, solo giovargli. L’importante era saperlo sfruttare a dovere, presentandolo non come un atto pressoché individuale e politicamente senza importanza, come in effetti era, ma al contrario come la prova tangibile che le opposizioni, ormai irrimediabilmente sconfitte, erano giunte al punto, pur di abbattere il fascismo, di ricorrere al terrorismo”.

Secondo Gaetano Salvemini, “Dopo aver causato per parecchi giorni grandissimo trambusto, l’attentato alla vita di Mussolini si è oramai ridotto a proporzioni così modeste che il governo fascista ha ritenuto opportuno pubblicare un ukaze che proibisce ai giornali di fornire qualsiasi informazione non ufficiale. Tutti sanno però che Mussolini non ha mai corso il minimo pericolo, dato che le vaghe intenzioni di Zaniboni erano già state denunciate dalla sorella alcuni mesi prima e, più tardi dal suo falso complice Quaglia.”

Mai nessuno però mise in discussione l’onestà e la buona fede di Zaniboni.

Subito dopo l’attentato, la cui notizia viene data con un giorno di ritardo viene sciolto il Partito Socialista Unitario, soppresso il quotidiano di Matteotti “la giustizia”, viene devastata la sede nazionale della massoneria, che sarà di lì a poco messa fuori legge, passerà di proprietà il Corriere della Sera, insomma, il fascismo reagisce con durezza e avvia l’implementazione delle leggi fascistissime.

Zaniboni andrà a processo nell’aprile del 1927 per alto tradimento; reo confesso, viene condannato a 30 anni, al processo, come si legge nei verbali, testimonierà anche Mussolini: “Il capo del fascismo confermava di essere stato informato di un possibile attentato sia da Farinacci che dalla Direzione Generale di pubblica sicurezza, ma a queste voci non aveva dato grande peso, sapendo che sicuramente non avrebbe corso alcun rischio. Il duce era perfettamente al corrente dell’esistenza di un contatto tra Quaglia e alcuni fiduciari che agivano per conto del ras di Cremona. Del resto – precisò Mussolini – l’autorità di P.S. era a conoscenza minuta e quotidiana di tutte le mosse, comunicazioni, viaggi di tutti gli aderenti al gruppo Zaniboni. Nulla di ciò che il Quaglia vedeva o riferiva era ignoto alla P.S., la quale attraverso le sue indagini particolari ed alla sua sorveglianza era al corrente di tutto. Il duce affermò di aver conosciuto Tito Zaniboni nel 1921, di averlo rivisto nel 1922 e nei primi mesi del 1923.”  La sua attività politica – aggiunse Mussolini – cominciò ad avere un rilievo dopo il delitto Matteotti in vicende che la cronaca ha registrato.

Con lui verranno condannati altri che lo avevano aiutato tra cui sempre a 30 anni il generale Capello comandante della seconda armata nella Prima guerra mondiale, che aveva abbandonato il fascismo dopo il 1923 per via della sua appartenenza mai rinnegata alla massoneria (hiram n 3 2022), si narra che difese personalmente Palazzo Giustiniani da alcuni assalti squadristi.

Zaniboni tornerà libero solo dopo l’8 settembre 1943 e verrà nominato sindaco di Ponza.

Una curiosità: nel luglio del 1943 “soggiorneranno” a Ponza contro la loro volontà evidentemente, Pietro Nenni , Benito Mussolini, e Zaniboni che fecero l’impossibile per non incontrarsi.

Nel dopoguerra il ritorno alla politica di Zaniboni è ancora in grande stile.

Nel gennaio del 1944 presiede il congresso dei CLN a Bari, Badoglio gli propone un ministero che Zaniboni rifiuta mentre accetta di essere nominato nel febbraio del 1944 alto commissario “per l’epurazione nazionale dal fascismo” quando però non esisteva ancora nessuna legge che regolamentasse l’epurazione.

 Il fatto di essere entrato nel governo Badoglio comportò la sua espulsione dal partito socialista anche se si dimise dopo poco per essere nominato sempre da Badoglio alla meno rilevante carica di alto commissario per i profughi e i reduci incarico che mantenne fino al 1950.

Si presentò candidato alle elezioni nella circoscrizione di Cuneo-Alessandria-Asti, per la lista di Unità socialista, contendendo i voti delle sinistre al candidato frontista alla Camera, Walter Audisio, per ironia della storia, il presunto giustiziere di Dongo doveva misurarsi contro il primo attentatore di Mussolini.

Nel frattempo, fonda un partito l’Unione socialdemocratica per aderire infine al PSDI saragattiano, e fonda una rivista dal titolo «Guerra e Pace» che uscì dal 1946 al 1947 con 14 numeri.

In quegli anni il suo nome compare più volte nelle informative dei servizi americani che lo identificano come un potenziale comandante militare, gli era stato nel frattempo riconosciuto il grado di tenente colonnello, di un eventuale esercito popolare anticomunista nel caso di una vittoria elettorale o di un golpe social comunista.

Nel 1950 a tutti gli effetti abbandonò la vita politica di prima fila per diventare Presidente dell’UNUCI (Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo d’Italia) e scrivere libri filosofico politici; morirà cadendo mentre saliva su un autobus romano nel 1960. Ai funerali molte corone e poche persone.

Resta da dire che ne fu del Quaglia, per molti anni sinonimo di traditore: sopportato dai fascisti che gli diedero importanti incarichi ma nelle colonie, il 15 luglio 1950 gli fu dedicata una seduta della Camera dove il governo dovette giustificare con argomentazioni burocratiche perché era stato confermato nel ruolo di direttore generale del ministero. Come commentò un quotidiano: “il tradimento paga”.

Walter Marossi

 



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  1. Annalisa ferrarioMolto interessante, sarebbe la buona trama di un film (del genere cosa sarebbe successo se... se Zaniboni ce l'avesse fatta?). Forse poi è il caso di precisare che il Ricciotti Garibaldi traditore è Ricciotti jr (il nipote del generale, non il figlio). Certo il suo comportamento anche a distanza di anni risulta incomprensibile.
    3 maggio 2023 • 07:59Rispondi
  2. Nanni RossiBravo Walter! Pubblicheremo il tuo saggio a settembre su Postumia. Ce ne fossero come te nei...dintorni dei reduci socialisti!
    3 maggio 2023 • 08:29Rispondi
  3. Luca Di PentaWalter Marossi racconta pagine di storia, con fari accesi su Milano, con uno sviluppo narrativo unico e originale, e fa cogliere come tanti fatti che accadono nel presente siano influenzati da passate, ma vivide, vicende. Quanto agli ideali politici, anche attuali, nella nostra società ve ne sono pochini, speriamo che i nostri figli e le nostre figlie possano assaporare il senso delle loro idee per costruire un sistema civile di convivenza, libertà e tolleranza come essi lo concepiscono, per adesso si va avanti a istinto.......
    3 maggio 2023 • 12:39Rispondi
  4. Luca Di PentaConsiglio ai lettori di recuperare il pezzo I Funerali di Mussolini, un racconto che sembra tratto da Pozner
    3 maggio 2023 • 12:41Rispondi
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