21 marzo 2023

SCHLEIN, MICHELE APICELLA ED IL FUOCO AMICO

Su massimalismo e dintorni non la penso come Marossi


 Elly Schlein-5

Elly Schlein, appena arrivata al Nazzareno e già sotto il fuoco di fila, amico naturalmente, che questa è la specialità della casa. Tutte rappresentate le categorie, battitori liberi, maitre à penser, vecchi tromboni, giornalisti, accademici, politici, opinionisti, di vecchia e nuova generazione. Il coro unanime, cara Elly ti vediamo troppo sopra le righe, tribunizia se non declamatoria, verbosa ed a forte rischio di inconcludenza, estremista, movimentista. Manca girotondina, ma non tarderà.

Poco concreta, affascini con le parole ma non convinci davvero, il tuo discorso è emozionale e non razionale. Non la dai a bere a noi che la sappiamo lunga. Gli stessi che fino a ieri contestavano, e quanto, debolezza di profilo ed assenza di iniziativa del PD,  ridotto a sagoma da tirassegno, oggi si stupiscono per la troppa iniziativa, la presenza nelle piazze simbolo di questi giorni, l’afflusso delle speranze, le migliaia di tessere nuove o rinnovate.

“C’è qualcosa di nuovo nel’aria … anzi d’antico”. Preoccupati, i sepolcri imbiancati ammoniscono.

E via allora i Panebianco, i Massimo Franco, i Fassino, è tutto un tirare per la giacchetta, un vociare amplificato da un sistema dell’informazione che attendeva un PD finalmente liberaldemocratico e se lo ritrova, con raccapriccio, muovere deciso verso la fisionomia del partito di sinistra.

Ma se Schlein non piace a Francesco Adornato, riapparso finalmente a sé stesso, la neosegretaria è benedetta, tra gli altri, da Prodi e Veltroni, non proprio professionisti della caciara demagogica. Cosa non capisce allora il professore e cosa invece un Massimo Franco?

Il sospetto, meglio dire subito, è che l’accusa di scarsa concretezza nasconda una più sostanziale divergenza sui contenuti della nuova linea politica. Forse un passo indietro nella memoria, può essere utile per decodificare teoremi vecchi e nuovi.

1998, Michele Apicella implora l’esangue D’Alema televisivo: “dì qualcosa di sinistra” (Nanni Moretti, Aprile), ma quello insiste, l’eloquio cauto e dissimulato dei post comunisti di allora. Si dispera Apicella “D’Alema, dì qualcosa, reagisci… Dai, dì qualcosa, D’Alema, rispondi, non ti far mettere in mezzo sulla giustizia proprio da Berlusconi… D’Alema, dì una cosa di sinistra. Dì una cosa anche non di sinistra, di civiltà… D’Alema, dì una cosa, dì qualcosa, reagisci… Non dobbiamo reagire, eh… Nervi saldi, dobbiamo rassicurare… A forza di rassicurare, ci arriva una bastonata il giorno delle elezioni… Ho voglia di litigare con qualcuno!”

Nulla, il desiderio rimane rospo in gola al povero Michele ed a noi, Apicella di tutt’Italia.

La caduta del Muro di Berlino era ancora fresca, ed al Lider Maximo non pareva possibile mostrarsi per quello che si era e si voleva essere, un partito di sinistra, tanto meno comunista. Si doveva fare, ma non si poteva dire. Sola chance il dissimulare, l’essere sembrando altro, un’apparenza costruita su di una fraseologia tanto circospetta da rendersi quasi indistinguibili dagli altri nel teatrino televisivo, obiettivo e premessa della legittimazione tanto attesa. Una cautela, un tempo giustificata dalla divisione del mondo in due blocchi, così irrigiditi da rendere impossibile qualsiasi forma di alternanza tra i maggiori partiti di allora, DC e PCI, e che, cambiato il mondo nell’89, si faticava a superare nello stile ancora prima che nella sostanza. Un approccio rafforzatosi con il “compromesso storico”, formula politica che esigeva la sua specifica forma linguistica, una retorica dolciastra, consociativa, una melassa dove le migliori energie erano spese a rassicurare, disinnescare, rallentare, escludere qualsiasi momento di divisione, pericolosa in quanto tale.

“Sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare e sopire”, come il Conte Zio (Promessi Sposi, Manzoni), il PCI faceva proprie con grande fatica, mille ansie e spesso in retroguardia, le grandi battaglie civili degli anni 70, quelle che hanno generato il nostro vivere sociale di oggi.

Il PSI di allora, con i radicali, per certi aspetti era decisamente più innovativo, mondo com’era dal peccato originale dello stigma sovietico. Il terrore di dividere l’Italia e di cadere nella trappola di Allende regnava nella direzione comunista e, incubo identitario, ha condizionato la dolorosa transizione da PCI a DS, PDS, ed infine, via Ulivo, al Partito Democratico.

Inutile oggi. ma forse no, ricordare come quelle battaglie, civili e sociali, quel tempo che finalmente sgravò l’Italia dai retaggi ideologici che ancora la agganciavano al provinciale passato clerico fascista, era il tratto distintivo di una sinistra laica, fondata sui diritti e sulla partecipazione attiva, una sinistra che finalmente prendeva piede nella modernità. Era massimalismo? Certamente non mancava, ma la sostanza era piena della razionalità storica che pretendeva per sé il PCI.

Inutile ricordare, ma forse no, che in quegli anni la modernizzazione del Paese passò attraverso la grande passione partecipativa dei movimenti vissuti nel mondo del lavoro, della scuola, del sociale, perfino nelle caserme. Era massimalismo, era ideologia forsennata? Certamente non mancava, ma quelle lotte corrispondevano a profondi bisogni di cambiamento, di eguaglianza e di protagonismo.

Una visione moderna del cambiamento, dei diritti e della partecipazione, che poteva apparire  avventurosa, estranea per stile, ancora prima che per contenuti, ad un gruppo dirigente nato e cresciuto nel culto della disciplina gerarchica, del processo burocratizzato del cambiamento, della statualità sovrastante sulla soggettività. Una visione bollata come “massimalista” nel momento  in cui poneva, con le questioni sociali anche quella, fondativa, delle diverse soggettività.

Il nostro Walter Marossi, penna arguta, descrive genesi e natura del “massimalismo” con un dotto  excursus attraverso tre secoli, fino ad oggi. Una ricostruzione particolareggiata, che lo fissa come  atteggiamento prepolitico, diciamo pure spirituale, un sentimento tanto fiducioso in un avvenire certo quanto inetto nella lotta politica pratica, declamatorio e ingannevole nella sua efficacia.

Marossi conclude con un icastico “Definire Elly Schlein e Majorino eredi di quella tradizione, di quel sentimento non è quindi né un offesa, come sostiene Calenda, né un complimento, ma una semplice constatazione”. Doppio passo falso logico, perché se si dedicano quasi quindicimila caratteri a spiegare per filo e per segno per quale motivo il “massimalismo” è stato verboso, inconcludente e disastroso nei suoi effetti, non si può negare che sia, politicamente s’intende, dispregiativo, certo non un complimento.

E perché definire “Schlein e Majorino eredi di quella tradizione” resta affermazione indimostrata, apodittica, priva di argomenti fattuali, piccolo capolavoro di “massimalismo” verbale. Eppure Marossi ci racconta nei dettagli il come, il dove ed il quando del passato, da Serrati, alla Balabanoff fino allo PSIUP; ma dell’oggi tace: dove, cosa e come constata? Non si sa. Si deve, se si può, immaginare.

In definitiva, si intravede in diversi il fastidio crescente verso l’approdo ideale e politico del PD che riprende in mano il vecchio ed il nuovo della sinistra, senza più dover occultare nulla nel lessico e negli atteggiamenti, che mette in soffitta la paura di essere e di dire, approdo denso di parole d’ordine forti e politicamente scomode, che per questo squalificate come “massimalismo”, quasi che questa categoria riassumesse in sé l’intero universo della radicalità politica.

Ed infine, quel che più conta, cosa vi è di così massimalista, di verboso e confuso, nel rivendicare una nuova legge sulla rappresentanza sindacale che tolga di mezzo le centinaia di contratti pirata che gettano milioni di lavoratrici e lavoratori sotto la soglia della povertà, cosa nel ridurre ad un piccolo lago l’oceano del lavoro precario che toglie presente e futuro ai giovani, cosa nel disegnare un sistema previdenziale universale ma flessibile, che tolga i muratori ultrasessantenni dai ponteggi, cosa nel riprendere i controlli degli ispettori sulla sicurezza in fabbrica, riaffermando la vita delle persone sul profitto a tutti costi?

Giuseppe Ucciero



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