7 febbraio 2023

LA MUSICA CLASSICA È ANCORA VIVA?

Nuove e fresche energie alla ribalta


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Si sente spesso dire che la musica classica stia perdendo il suo appeal, che i giovani ne siano poco interessati, che stia diventando una nicchia per un pubblico anziano che ama ascoltare sempre le stesse cose, che sia sempre più difficile riempire le sale da concerto e via di seguito; ed è anche diffusa l’idea che non ci siano più grandi maestri, sia finita l’epoca dei Celibidache, dei Klaber, degli Abbado, e così quella dei Benedetti Michelangeli, dei Radu Lupu, dei Richter, quasi a ritenere che la musica classica abbia esaurito o stia esaurendo il suo ciclo di vita.

Nelle due scorse settimane, però, un paio di eventi hanno ribaltato questa visione pessimistica e, ancorché assai diversi uno dall’altro, hanno offerto qualche rassicurazione sulla vitalità che quella musica ancora possiede.

Sabato 28 gennaio, giorno penalizzato dallo sciopero dei mezzi pubblici, nella saletta degli Amici del Loggione affacciata alla Galleria Vittorio Emanuele, un pubblico non folto ma attento e visibilmente interessato si è mosso per ascoltare un concerto non certo fatto per accarezzare le orecchie ai patiti di musica nota. Suonava e cantava un trio composto da un mezzosoprano, un violista e una pianista – non ancora molto noti al pubblico milanese (cantante moldava, violista rodigino o rovigotto, pianista bielorussa) – che hanno eseguito tutto o quasi tutto il repertorio originale per quell’organico, costituito da musiche di Richard Strauss, Joseph Marx, Johannes Brahms, Frank Bridge, Gaetano Donizetti, Jean Sibelius, Alexandr Dargomyžskij, Michail Glinka e Charles M. Loeffler.

Avreste mai immaginato che un programma del genere potesse attrarre i famigerati “loggionisti”, i tifosi del “belcanto”, abituati ad affollare la Scala solo per le più celebri opere liriche italiane e a scatenare i loro lugubri buhhh per un acuto incerto o per un’entrata imprecisa? Eppure tutti sono rimasti incantati da quelle musiche, mai ascoltate prima d’ora, e da quei tre musicisti – Natalia Gavrilian, Massimo Piva e Inessa Filistovich – i cui nomi non dicevano loro molto (ma ancora per poco!) ed hanno potuto così scoprire non solo nuove interessantissime opere ma anche musicisti straordinariamente bravi, capaci di emozionare e di trasmettere passione ed entusiasmo.

Sia la Gavrilian che la Filistovich vivono da tempo a Milano dove hanno perfezionato gli studi musicali, mentre Piva vive e insegna nella sua città e, ricercatissimo freelance, suona in tutt’Italia; si sono ritrovati lavorando insieme alla ricerca di musiche per il loro trio e, fra le non molte opere trovate, si sono imbattuti in una romanza di Donizetti con cui han dato inizio alla seconda parte del concerto realizzando così una prima mondiale! Da segnalare, come curiosità, che la prova finale del concerto si era svolta pochi giorni prima in forma di Hauskonzert in una casa privata milanese dove un pubblico, del tutto diverso ma altrettanto attento, li ha accolti con commozione ed entusiasmo. Una tradizione antica in altri paesi, una preziosa abitudine delle famiglie musicali nel nostro.

***

Il sabato successivo 4 febbraio, al MA.MU – il Magazzino Musica che è ormai diventato un fondamentale punto di aggregazione a Milano per gli amanti della musica classica – Angelo Foletto che tutti conosciamo per le sue critiche musicali su Repubblica e per le sue trasmissioni radiofoniche, ha presentato un libro dedicato all’aspetto più intrigante, più discusso e meno codificato dell’esegesi musicale in Italia dal titolo “Interpretazione, ovvero il possibile breviario del musicista al pianoforte”; 33 considerazioni-osservazioni-riflessioni di poche pagine ciascuna (da cui il sottotitolo “breviario”) sulle problematiche dell’esecuzione, pianistica ma non solo, di musica classica.

L’agile volume scritto da Michele Campanella, pianista ben noto al pubblico milanese colto e raffinato, è corredato da ben 67 esempi musicali, presi da brani di autori celebri, sempre riferiti al testo, per cui chi abbia una minima dimestichezza con il pentagramma può anche “toccare con mano” e verificare il senso delle affermazioni e delle proposte interpretative del pianista.

Dalla lettura del libro, dalla presentazione che ne ha fatto Foletto, ed anche dalla acuta prefazione di Gianfranco Ravasi, si ha la sensazione che si vada perdendo gran parte dei risultati cui pervennero gli ultimi grandi maestri del pianoforte, mentre si afferma l’egemonia della tecnica pura, spesso mero virtuosismo, che fa perdere il senso stesso della grande musica e con esso la capacità di trascendere la realtà e di immergerci in un sentire diverso e più alto.

Cito alcuni titoli del breviario per dare un’idea del contenuto del libro: “Scritto e non scritto”, “Pause o silenzi?”, “Del legare”, “Intervalli”, “Armonia”, “Struttura e timbro”, “Chiaro e scuro”, “Quale bellezza?” eccetera, fino a “Un musicista al servizio della musica” che danno un’idea di quali e quanti problemi affronti il pianista oltre a quello – ritenuto sempre dominante, spesso a sproposito – della tecnica. Quella tecnica che domina in quanto condizione primaria ed essenziale della corretta esecuzione, ma non può e non deve soverchiare il contenuto musicale che invece è e deve restare la narrazione profonda e autentica dell’autore, empaticamente trasmessa al pubblico attraverso l’illuminata mediazione dell’interprete.

Il MA.MU era affollatissimo, il pubblico straordinariamente interessato alla conversazione fra Foletto e Campanella sugli aspetti misteriosi, negletti, impalpabili che fanno grande un solista (in realtà anche un direttore d’orchestra) e in particolare il pianista, che deve entrare in sintonia con uno strumento che non gli chiede solo di dimostrare capacità tecniche ma vuole  “raccontare” la musica e “cantare” con lui.

***

Ecco, dunque, due diverse situazioni che ci mostrano come la musica classica, lungi dall’essere morta o moribonda, ha solo bisogno di nuove e fresche energie affinché ogni esecuzione di un capolavoro classico sia – come sostenne Baricco nel suo famoso libro “L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin” – una prima assoluta da presentare al pubblico come una novità, che sappia tener conto del mutamento dei tempi, della maturazione culturale degli ascoltatori, dell’evoluzione del pensiero degli interpreti. Sembra una banalità, ma quanti interpreti sentono questa responsabilità e sanno misurarsi con essa?

Paolo Viola



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