7 febbraio 2023

I FUNERALI DI MUSSOLINI

La rosetta di piazza Vetra, la pastasciutta e l’antisemitismo


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Il 16 novembre 1919 si tennero le elezioni le prime con una legge “proporzionale”. A Milano (circoscrizione) i socialisti presero più del 50% 170000 voti (il 46% in Lombardia), i popolari 73000, i liberali 43000. La lista fascista (tra i candidati Toscanini, Podrecca e Marinetti) ottenne 4657 voti e Mussolini, che aveva cercato un accordo con altre liste che tuttavia avevano condizionato l’alleanza con i fascisti alla non presentazione di Mussolini stesso, entrò di diritto tra i trombati più noti della storia d’Italia.

La reazione fascista fu quella di gettare bombe e assalire sedi dei socialisti che a loro volta si difesero con energia; reazione talmente spropositata rispetto ai voti ottenuti che lo stesso Mussolini, dopo le perquisizioni delle sedi in via Silvio Pellico, Paolo da Cannobio e in via Cerva  fu arrestato con altri (Vecchi e Marinetti) ma subito rimesso in libertà grazie all’intervento di Albertini direttore del Corriere che con acuta lungimiranza spiegò a Nitti  che avrebbe voluto lasciarlo in galera: “Mussolini è un rudere. È uno sconfitto, non occorre farne un martire”. La Sarfatti narra che il futuro duce depresso volesse emigrare: “so fare altri mestieri, il muratore, il pilota, e so suonare anche il violino, farò il magnifico mestiere del rapsodo errante”.

Per celebrare questa sconfitta i suoi ex compagni prima diedero la notizia del ritrovamento del suo cadavere nel naviglio poi organizzarono un finto funerale che sfilò per il centro città.

Il 21 novembre un articolo sull’Avanti! Riassunse così il giudizio sul vecchio direttore: “L’avanti! ha già annunciato d’averlo scoperto fradicio nel naviglio ed ha attribuito l’infortunio a suicidio; ma in verità con quest’ipotesi è fatto troppo onore alla carogna. Non credete che se Mussolini alle prime avvisaglie elettorali si fosse puntato una pistola alla tempia sarebbe almeno morto con dignità? Ed ora infradicio, senza neppure quella estrema audacia di un bel gesto ch’ebbe Nerone fattosi pugnalare da un ardito del suo tempo ch’ebbe Bonnot… ch’ebbero altri criminali coraggiosi e decorosi. Tutte le sue bombe, giunta la vigilia della terribile rivelazione elettorale, avrebbero dovuto servirgli per saltare in aria con tutta la redazione. Invece ha chiesto di entrare alla Camera dei deputati e ha ottenuto una cella di sicurezza…mi fa pena… e nell’ora del trionfo concedo un fiore alla sua fossa”.

Anni dopo al Teatro Costanzi in Roma, il 24 marzo 1924 sarà proprio il Duce a ricordare: “Pochi mesi dopo avemmo le elezioni infauste del 1919. Molto coraggio anche allora, ma pochissimi voti: Milano me ne diede 4064. Ci fu anche una specie di funerale simbolico. Si disse e si stampò che oramai ero liquidato e sepolto”.

Autore dell’articolo e organizzatore del funerale un suo ex collega del l’Avanti! Mario Ramperti figura emblematica di una certa Italia e di una certa Milano (di sé diceva “Di me posso far sapere, a chi interessa, d’essere milanese da cinque generazioni”) che vale la pena ricordare.

Firma di punta del quotidiano aveva collaborato anche a Critica Sociale e diretto una testata di corrente: I compagni! Neutralista convinto, scrisse un memorabile articolo per il 4 novembre: “Dallo Stelvio al   mare,  sotto la   terra   fredda,  gli  scheletri  ridono…I morti si chiamano. Essi san tutto. Sanno che sono morti per niente. Ma infine non si lagnano, perché la sotto si sta meglio che lassù nel mondo ostile dove un tempo erano i croati e dove adesso stanno i fascisti…nulla è mutato malgrado i 12 milioni di morti. I fornitori accumulano come in tempo di guerra, i Governanti rubano come in tempo di guerra i proletari muoiono…tragedia monotona, inadorna, scimunita che domandò dodici milioni di morti per continuare come prima…”. Anni prima aveva pubblicato un Elogio della vigliaccheria, difendendo i disertori.

Oltre che giornalista era paroliere, in particolare scrisse Scarliga un testo cantato dalla Rosetta di piazza Vetra in arte Rosetta di Woltery  al teatro Sammartini di Piazza Beccaria. La ragazza diciottenne, secondo alcuni un ex prostituta, morì probabilmente a causa delle percosse subite durante una retata da agenti della pubblica sicurezza anche se ufficialmente i rapporti della questura parlavano di suicidio tramite pastiglie di sublimato corrosivo.

Proprio l’Avanti! di Ramperti che scrisse un fondo dal titolo Elogio del Lenone e Mussolini (alcuni sostengono fosse lui il giornalista dell’inchiesta) con una serie di articoli smontò la versione della polizia e vi fu un processo, anche se infine i responsabili furono assolti. Di quella vicenda resta una delle più note canzoni della mala milanese: Il tredici di agosto/in una notte scura/commisero un delitto/gli agenti di questura; cantata da Milly, Svampa, Miranda Martino e un libro di Sciascia, trovate tutto su: http://ardemagni.blogspot.com/2016/06/la-povera-rosetta-e-la-sua-famiglia-una.html.

Nel 1924 l’antifascismo di Ramperti gli costerà una solenne bastonatura in occasione delle elezioni.

Forse anche per questo abbandonò il giornalismo politico e divenne uno dei più importanti critici teatrali del tempo collaborando con L’Illustrazione italiana, La Fiera letteraria, l’Ambrosiano, La Stampa, La Gazzetta del popolo ed altri. “In veste di critico teatrale Ramperti assisteva quasi ogni sera a una prima rappresentazione e aveva da scrivere un articolo ogni notte, senza contare le collaborazioni regolari o saltuarie con altri giornali, tanto da avere sempre con sé la sua stilografica, un pacchetto di minuscole cartelline in ogni tasca, la sua immensa cultura e la sua memoria infallibile, per scrivere ovunque: nel suo letto e al caffè, in trattoria e al teatro… Una sensibilità squisita di poeta, una nervosità irrequieta di donna e la malizia ipocrita d’un gatto sornione”  ricorda Lucio D’Ambra.

Fu tra i pochi ad occuparsi anche di danza e a descrivere in un libro (Luoghi di danza) il dettaglio delle notti milanesi, scrive Giulia Taddeo. “sia che si tratti di un tabarin, di un baraccone da fiera, di un salotto borghese o di un ritrovo clandestino, l’autore colloca sé stesso al centro della narrazione vestendo i panni di un osservatore (o, meglio, di un intellettuale decisamente privo di doti tersicoree) che, profondamente scosso e talvolta persino turbato dalla viva energia dei corpi in movimento, rintraccia nella danza l’impulso per stabilire delle connessioni fra fenomeni di costume e istanze di carattere socio-politico, oltre che, non secondariamente, per manifestare le proprie inquietudini dinanzi all’avvicendarsi costante di mode e tendenze.” Insomma, un incorreggibile dandy in perenne rissa con altri autori.

Di lui Pittigrilli scrisse: “Due settimane or sono, Ramperti ha offerto a Le grandi firme un suo articolo dove descriveva una specie di club di lesbiche e di pederasti, nel cui seno egli ebbe l’onore di essere ammesso a scopo di studio; dalle pareti sorridevano adescatori i ritratti di Maurice Rostand e di Cocteau; intorno a una tavola, sotto la luce viola degli abat jour (Ramperti è rimasto alla poesia dell’abat jour) femmine divinamente oscene fumano sigarette oppiate, aspirano la cocaina (c’è ancora qualcuno che crede alla cocaina?) e uomini bevono con solennità ieratica un cocktail complicatissimo di cui ha il segreto il padrone di casa, mentre dal giardino salgono i languidi rintocchi d’una campana, nel cui bronzo incandescente fu buttato un uomo vivo.

Io potevo benissimo pubblicare quell’articolo di Marco Ramperti. Ma appena i fascicoli fossero usciti dalla tipografia avrei dovuto ordinare ai Fratelli Gondrand di portarli tutti in Questura per risparmiare al Procuratore del Re il disturbo di sequestrarmeli, e avrei dovuto costituirmi spontaneamente ai Reali Carabinieri.

Ho preferito respingere a Ramperti quella poltiglia letteraria, che esalava un tanfo di sudore ascellare, frutta fermentata, fiori vizzi, postribolo da dieci lire, champagne, lysoform, Baudelaire, acido carbonico, capelli bruciati, biancheria da troppo tempo intima. E ora vai pure, Marco. Sono le nove, recitano l’Amleto. Troverai il modo di raccontare, nella critica, che la tua lavandaia ti ha smarrito una camicia. Ma nessuno crederà all’esistenza della camicia e ai tuoi rapporti con la lavandaia. (1927).

Come inviato della Stampa, dopo aver seguito le Olimpiadi di Los Angeles del 1932 va a Hollywood incontra e frequenti attrici famose e scrive un libro a loro dedicato: Nuovo alfabeto delle stelle ristampato da Sellerio nel 1981 a cura anche questa volta di Sciascia che scrisse “prova di una estravagante genialità, tra d’Annunzio e Ramon Gomez de la Serna”.

L’impegno è ormai lontano, al massimo partecipa alla battaglia futurista contro la pastasciutta quando la Cucina Italiana, giornale diretto da un altro convertito Umberto Notari, aprì un’inchiesta, scriveva infatti a Marinetti: “Ora, fra tutti i cibi ingozzanti e paralizzanti che contraddicono al tuo programma di rapidità, elasticità ed energia, la pasta asciutta è precisamente il più diffuso e calamitoso. Ma essendo il più nefasto, è anche il meno maledetto… Liberiamoci anche dalla pasta asciutta, ch’è anch’essa una schiavitù. Che ci gonfia le ganasce, come a mascherotti da fontana; che ci intoppa l’esofago, come a tacchini natalizi; che ci lega le interiora con le sue funi mollose; e ci inchioda alla scranna, repleti e istupiditi, apoplettici e sospiranti, con quella sensazione dell’inutilità che, a seconda degli individui, può dar piacere o vergogna. La nostra pasta asciutta è come la nostra retorica, che basta solo a riempirci la bocca. Il suo gusto sta tutto in quell’assalto a mascelle protese, in quel voluttuoso impippiarsene, in quell’aderenza totale della pasta al palato e alle viscere, in quel sentirsi tutt’uno con lei, appallottolati e rifusi. Ma è un gusto porcino. Ma è un gaudio da poco. Inghiottiti che siano, gli spaghetti infestano e pesano. E ci sentiamo, subito, impiombati come monete false. Qualche cosa ci trattiene, giù, come un ceppo. Non abbiamo più né la sillaba facile né l’immagine pronta. I pensieri sfilano l’uno dentro l’altro, si confondono, s’imbrogliano come i vermicelli assorbiti. Le parole s’appallottolano allo stesso modo, in ogni caso deve essere aborrita da chi vanti un’anima futurista, o soltanto giovine e sveglia”.

Ormai autore affermato lodato da d’Annunzio e Ezra Pound, oggi si direbbe che tutti i suoi libri vanno in classifica, entra nella giuria del Viareggio con Repaci, Malaparte, Orio Vergani è un habitué del Bagutta.

Anche se fino al 1930 risulta schedato come sovversivo per togliere ogni dubbio come scrive Franzinelli, si inchina al duce scrivendogli: “tutta la mia vita o duce ho sognato la redenzione della mia razza per mezzo di una rivoluzione, d’una disciplina di un’alleanza: l’alleanza con il popolo tedesco”. Il 23 dicembre 1939, presso la parrocchia di S. Maria della Passione di Milano, sposa Michelangela (Mimì) Borsotti

Nel 1941 è corrispondente per La Stampa in Germania, da dove invia contributi di vario tipo per la rubrica Aspetti della Germania in armi.

Il tono cambia radicalmente rispetto al viveur delle notti milanesi al bohémien in guanti bianchi giudice del primo concorso di Miss Italia; scrive un reportage Stella Gialla dove sostiene che non c’è bisogno di imporre contrassegni agli ebrei perché “li si riconosce dalla faccia, dalla ferocia dello sguardo; gote livide, bocche ferine, occhi di fiamma ossidrica. Se potessero gli ebrei farebbero una strage. Slegate la mano al giudeo; è l’usura”. Scrive di omicidi rituali degli ebrei contro gli ariani (bimbi nazisti uccisi a colpi di sasso), loda il decisionismo di Himmler, paragona Mussolini a Cristo: entrambi hanno contro la sinagoga, critica le leggi razziali italiane perché troppo blande. Da critico cinematografico ce l’ha particolarmente con Chaplin, che ebreo non è perchè “nella sua ghigna si riflette pallido e stravolto tutto l’odio giudaico della terra”.

Aderisce alla repubblica sociale e i suoi articoli vengono diffusi dal ministero della cultura popolare con il suo estimatore Mezzasoma, su decine di quotidiani e settimanali; è forse il giornalista più letto nell’Italia repubblichina certamente lui si ritiene tale.

Come esperto di cinema andrà a Venezia nella nuova Cinecittà dove attaccherà la direzione dello spettacolo per la scarsa capacità propagandistica, denunciando spettacoli americaneggianti e attori e artisti “tiepidi” verso il fascismo da Gorni Kramer a Natalino Otto, ma anche Vittorio de Sica, Amedeo Nazzari, Gino Cervi tutti definiti mercenari.

Diversamente da altri ex socialisti e comunisti (Bombacci, Silvestri) che aderirono alla repubblica di Salò non ebbe mai rapporti con il duce, che forse non gli perdonava la beffa del funerale del 1919 e passò dall’essere accusato di tradimento della patria da parte del commediografo Carlo Veneziani all’essere eminenza grigia dello spettacolo nella repubblica di Salo, tanto che  L’avanti! clandestino lo definisce “ SS onorario…esaltatore di Hitler…la schiena più curva del giornalismo penna terrorista…enciclopedia del terrore e della persecuzione di razza”.

Accusato di collaborazionismo, nel dicembre 1945 fu giudicato colpevole e condannato a 16 anni di reclusione, di cui scontò soltanto 15 mesi, prima di essere rimesso in libertà in seguito ad amnistia; al processo si difenderà dicendo di non aver mai scritto articoli fascisti e di aver avuto sempre una repulsione quasi fisica per Mussolini! Non rinnegherà l’antisemitismo.

Da tale esperienza nacque un libro Quindici mesi al fresco (Milano 1960) che alimenterà il mito in alcuni settori, del giornalista che non era né fascista ne mussoliniano che però fece la scelta della RSI come scelta per la patria e per l’onore.

Uscito dal carcere si trasferisce a Roma e diverrà collaboratore di molte tesate della galassia di destra in particolare il Meridiano d’Italia uscito per la prima volta a Milano il 3 febbraio 1946. Direttore e editore della rivista è Franco De Agazio, ex giornalista della Stampa durante la Rsi. Alla fondazione del giornale partecipano anche l’ex ministro dell’Economia corporativa della Rsi, Angelo Tarchi e il capo redattore Franco Maria Servello, nipote del direttore e destinato a gestire il giornale dopo l’assassinio di Agazio dal marzo 1947 fino al 1961.Collaborò anche il Corriere lombardo di Benso Fini, Il Roma di Francobaldo Chiocci, il Tempo, Il rosso e il nero di Giovannini, Il pensiero nazionale di Stanis Ruinas.

Scrive numerosi libri tra cui: Ho ucciso una donna! (1956), Vecchia Milano (1959) dove tornerà sulla vicenda della Rosetta, Ombre dal passato prossimo (1964), ma nessuno raggiungerà il successo di quelli dell’anteguerra.

Il migliore fu il romanzo ucronico Benito I L’imperatore in cui Ramperti, scrive Marcello Veneziani, “immaginava cosa sarebbe accaduto se Mussolini avesse vinto la guerra, grazie alla bomba atomica usata da Hitler anziché dagli Stati Uniti. Dopo aver rischiato il crollo del regime, mentre tutti già accorrevano in soccorso del vincitore, passando baracca e burattini all’antifascismo, il duce riprendeva in extremis il controllo dell’Italia e capovolgendo le sorti usciva vittorioso dalla guerra. Liquidava la monarchia dopo il tradimento e si proclamava Imperatore. Era divertente leggere nella fantacronaca di Ramperti il doppio salto mortale dei voltagabbana, costretti frettolosamente a cambiare nuovamente casacca per stare al passo del potere. Politici, giornalisti, intellettuali, perfino gerarchi da antifascisti tornavano frettolosamente fascisti. Da riciclati a triciclati, con triplo salto carpiato. Il libro naturalmente fu silenziato. Ma noi vorremmo divertirci a fare un’edizione ridotta e aggiornata ai nostri giorni”.

Progressivamente abbandona la Roma mondana e il giornalismo che conta, progressivamente si isola anche dai settori degli ex repubblichini, rifiuta sdegnosamente o almeno così si narra, l’aiuto economico di Rizzoli e campa vendendo sigarette di contrabbando alla stazione Termini, in pratica quasi un barbone puzzolente come ricorderanno in molti, in primis Montanelli.

Il 10 aprile 1964 moriva quasi ottantenne dimenticato da tutti, il Corriere gli dedicava un necrologio di 10 righe, senza ricordare che era stato un suo inviato.

Walter Marossi

 



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